Le luminarie “massoniche” di Bologna e la riconoscibilità dell’arte

luca vitone luminarie
Luca Vitone, “Souvenir d’Italie – (lumières)”

Il mio vecchio professore di estetica Luciano Nanni ci sollecitava sulla domanda “che cos’è l’arte”, seminando di depistaggi e trappole il lungo (allora non esistevano i “semestri”) percorso alla ricerca della verità. Era il primo anno di Università e per noi, matricole arrivate al Dams pensando al fuoco sacro dell’arte, quel viaggio alla scoperta dell’identità dell’arte fu tanto ostico e affascinante, mese dopo mese, quanto sconcertante e illuminante al traguardo. Provammo tutte le definizioni, che scoprivamo essere tutte a sfondo mistico: il “non so che”, l’“ambiguità”… praticamente tutti i filosofi e gli studiosi di varie scienze arrivavano a un certo punto del loro discorso in cui entrava un “X factor” che era di per sé ineffabile. Infine, arrivammo a un’unica possibile conclusione, che sintetizzo con tutta l’ovvia banalizzazione del caso: un oggetto si definisce artistico quando è riconosciuto come artistico. Una tautologia, va bene, siamo d’accordo, eppure è l’unica che ci ha permesso di eliminare la mistica e di arrivare a una definizione oggettiva, condivisa e condivisibile: altrimenti, come poter definire arte un qualsiasi oggetto che, decontestualizzato da una cornice artistica, potrebbe essere un semplice oggetto d’uso quotidiano o uno scarabocchio sul muro o la fotocopia kitsch di un capolavoro? Naturalmente il ragionamento di Nanni era più complesso e ben più approfondito, ma la sostanza era questa. Ed è quella che si applica proprio nella cultura contemporanea dell’arte.

Mi è tornato alla mente tutto questo a proposito delle luminarie natalizie di Bologna con i simboli della massoneria, comparse sul ponte vicino alla stazione ferroviaria il 13 dicembre e tuttora lì presenti. Luminarie di per sé inquietanti, che hanno generato proteste, finché il Comune di Bologna non ha fatto sapere che si trattava dell’opera d’arte Souvenir d’Italie – (lumières) di Luca Vitone, commissionata dal Comune nell’ambito di un più complessivo progetto di installazioni artistiche sulla memoria, a cura di Martina Angelotti. Vitone lavora generalmente proprio sull’approccio concettuale ai luoghi, creando interessanti e potenti corto-circuiti sensoriali ed emozionali che impattano direttamente con la percezione dello spettatore. Basta ricordare l’installazione alla Biennale Arte 2013, dove ha proposto una scultura olfattiva dedicata all’eternit: un odore intenso e invadente penetrava nelle narici e nei polmoni dei visitatori, ricordando allusivamente la subdola polvere cancerogena dell’eternit. A Bologna Vitone ha pensato di creare cinque luci natalizie, raffiguranti un triangolo, un circolo di raggi e un occhio, facendole piazzare a ridosso della stazione di Bologna, sul ponte di via Matteotti, per ricordare i mai del tutto chiariti rapporti tra la loggia massonica P2 di Licio Gelli e la strage del 2 agosto 1980: occhio, triangolo e raggi, che – osservati da un preciso punto di vista, secondo una prospettiva che li inscrive l’uno nell’altro – formano il simbolo massonico in questione. Un corto-circuito visivo e della memoria che rientra perfettamente e legittimamente in una certa concezione dell’arte come strumento di riflessione, anche in chiave politica e sociale, che utilizza i mezzi dello spiazzamento (della provocazione) e della suggestione allusiva.

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Maurizio Cattelan, “Bambini appesi”

La spiegazione del Comune di Bologna, tuttavia, non ha affatto risolto la questione, perché – appunto – un oggetto si definisce arte quando è riconosciuto come tale all’interno di una cornice che lo definisce tale, cioè di una condivisione preventiva o a posteriori: il che, si badi bene, non significa “giudicare” arte, ma “riconoscere” arte. Per molti, i bambini impiccati di Cattelan, esposti nel 2004 in una piazza di Milano, “non sono arte”, ma di fatto sono riconoscibili come intervento compiuto da un artista: un conto è il giudizio etico-estetico, e un conto è la capacità di distinguere qualcosa che rientra nella fenomenologia del reale da ciò che rientra nella fenomenologia dell’arte. Ora, nel caso dell’opera Souvenir d’Italie – (lumières), occorre riconoscere che quelle luminarie, appese a mezz’aria nella notte di Bologna, non fanno intuire neanche lontanamente la loro appartenenza al genere “arte”, ma più banalmente al genere “luminarie natalizie”: se ne vedono tante di luminarie strane, che una luce diversa dal solito, se non viene chiaramente presentata come tale, non fa venire in mente a nessuno che si possa trattare di opera d’arte. E’ importante quel “chiaramente presentata come tale” nel momento in cui quell’oggetto è coerentemente calato nella quotidianità, ha forme perfettamente integrate in quella stessa quotidianità (non sto parlando di oggetti fuori-formato o palesemente decontestualizzati, alla Cattelan appunto, per intenderci) ed è percepibile da tutti come oggetto quotidiano finché qualcuno non viene a spiegare che si tratta di arte. A tutto questo, si aggiunga che quelle luminarie, che nessuno può immaginare essere oggetto artistico, sono portatrici di una simbologia, quella sì assolutamente e inequivocabilmente riconoscibile, che è quella della massoneria, che peraltro – come si sa – assume simboli di provenienza mistica, e quindi coerenti a loro volta col Natale.

Lascerei perdere, in questi miei appunti, l’indignazione di parte della cittadinanza, equamente bilanciata dall’apprezzamento di un’altra parte (con snobistica irrisione di chi non capisce, naturalmente successiva alla rivelazione che si tratta di opera d’arte): cioè lascerei da parte l’oggetto concreto riguardante i simboli della massoneria, anzi il simbolo preciso di quella loggia deviata che nella prima metà degli anni ’70 progettò piani eversivi della democrazia italiana. Questo è l’aspetto più eclatante e inquietante, che non a caso ha fatto dire a qualcuno che sarebbe come progettare come clandestina azione artistica una luminaria a forma di svastica, magari nell’antico ghetto ebraico: discorso che non fa una grinza, e che forse meglio ci fa capire, immaginando le nostre reazioni, il senso più emozionale e ‘civico’ delle polemiche. Peraltro, di azioni artistiche con svastiche, anche molto provocatorie, ne sono state fatte, e con eccellente impianto concettuale e resa estetica (mi piace qui ricordare la passione artistica e politica al tempo stesso di Fabio Mauri). Il punto vero è un altro.

Il punto vero è che l’azione artistica di Vitone ha di fatto mancato clamorosamente la propria stessa essenza, perché è un’opera non riconoscibile e non riconosciuta come tale: un ready-made che, in assenza della cornice che lo ridefinisce come arte, rimane un banalissimo oggetto quotidiano. Non si tratta di errore di comunicazione del Comune di Bologna nella spiegazione preventiva (del resto, come poter comunicare? con un’altra luminaria affiancata, con scritto “questa è un’opera d’arte”? con un gigantesco cartello ai piedi del ponte in cui si dice che si tratta di un’installazione artistica?): si tratta, semmai, di errore di creazione, in quanto l’opera dovrebbe permettere a chiunque – sia pure dopo il primo choc visivo – di comprendere che si tratta di qualcosa di extra-quotidiano; nella fattispecie, non un complotto massonico sul Natale bolognese, ma un’opera d’arte, sia pure provocatoria. Se sono un artista e decido che la mia azione artistica è infilarmi un dito nel naso in mezzo alla via, sono solo qualcuno che si infila un dito nel naso, a meno che condizioni contestuali o ulteriori elementi espressivi oltre al dito nel naso non facciano capire o anche solo intuire che si tratta di un comportamento quotidiano esplicitato in modalità extra-quotidiana, e che quindi può riferirsi o alla psicopatologia o all’arte (che, peraltro, talvolta tendono a convergere, ma questo è un altro discorso). Ma sulla ricontestualizzazione dell’oggetto quotidiano in chiave artistica, da Duchamp in poi, si è detto e scritto in abbondanza e non ha senso insistere.

Brett Bailey, “ExhibitB”

Insomma, Vitone ha elaborato un concetto davvero molto interessante e acuto, ma poi – mimetizzando la sua opera in mezzo alla “oggettistica” quotidiana – ha creato più un’azione situazionista che non un’opera d’arte. Quindi, qualcosa di svincolato dal giudizio estetico (dove dentro “estetico” sta tutto, anche il politico), ma che ha più a che fare con il situazionismo o la pura provocazione. Cioè con condizioni che operano in uno statuto extra-artistico e devono, quindi, misurarsi con la reazione diretta degli involontari fruitori (che in questo caso non si è fatta attendere). Perché le luminarie di Vitone non mostrano alcuna differenza rispetto a quelle natalizie: una luminaria a forma di raggi o a forma di triangolo o perfino a forma di occhio è perfettamente integrata nel campionario iconografico del kitsch natalizio. La differenza, semmai, nasce dalla loro ricomposizione, che si nota solo in due punti precisi d’osservazione, e che creano un’immagine tra le più ripugnanti della storia contemporanea d’Italia. E’ dunque proprio la perfetta integrazione a far fallire l’efficacia dell’intento artistico, lasciando esclusivamente quello della pura provocazione (questo sì, perfettamente riuscito), per la quale, però, non occorre certo essere artisti: chiunque può provocare, anche in modo raffinato. Banalmente, le stesse luminarie fuori formato o altrimenti ricontestualizzate avrebbero portato gli osservatori a interrogarsi sulla loro identità, a farsi domande, mentre invece la perfetta integrazione ha fatto percepire quelle luminarie come una caduta di stile, una provocazione o addirittura un messaggio subliminale eversivo, legittimamente. Si dirà: l’arte è ambigua ed è giusto che ciascuno reagisca in modo diverso. Rispondo: no. Ci sono altre cose ambigue alle quali si reagisce in modi diversi, mentre l’arte è un’altra cosa. L’arte deve porsi come tale e suscitare reazioni, anche scandalizzate, come per esempio è successo, quasi negli stessi giorni con la performance di Brett Bailey ExhibitB: una esibizione di persone di pelle nera come in uno zoo umano del periodo coloniale, concepita come potente e sconvolgente azione antirazzista, ma recepita da molti esattamente al contrario, e cioè come operazione razzista, al punto da portare alla sua censura a Londra e alla riduzione dei giorni di esposizione a Parigi, con la sala blindata da cordoni di polizia. Tuttavia, nel caso del geniale leader del gruppo teatrale sudafricano Third World Bun Fight (Brett Bailey, appunto), l’happening scandaloso era chiaramente presentato nei termini di operazione artistica.

Fra qualche anno, i critici d’arte ricorderanno l’installazione di Vitone in questi termini: l’artista ha creato un’installazione acuta e coraggiosa, che ha suscitato dibattito nella città, con una parte scandalizzata che si è rifiutata di cogliere l’intento artistico e di provocazione civile e politica. Ecco, a futura memoria, vorrei dire che le cose, nella realtà, sono andate un po’ diversamente: l’artista (peraltro apprezzato e apprezzabile nella sua storia) ha avuto un’idea bella e fenomenale, ma dissimulando la sua concretizzazione in mezzo agli oggetti della realtà l’ha di fatto destituita della sua dimensione artistica, perlomeno a livello di fruizione. Ecco, se c’è una cosa utile in tutto questo, almeno dal mio punto di vista, è aver aiutato a comprendere meglio la linea di confine dell’arte: perché l’arte non coincide, non può coincidere, con il tutto, e se si misura in maniera assoluta con la realtà allora deve farlo con lo scarto che ne consente la riconoscibilità. Altrimenti è solo provocazione, magari intelligente, azione, situazionismo. Che sono un’altra cosa.

16 commenti

    • Beh, non c’è un modo. Anche perché la definizione di quella cornice in cui si inserisce l’oggetto artistico (in modo da essere riconosciuto come tale) dovrebbe nascere insieme al concetto creativo. Quindi, dire adesso che “doveva fare così” mi sembra abbia poco senso. Comunque, si tratterebbe di presentare l’oggetto in modo che sia decontestualizzato o che sia fuori formato. Qualcuno sul mio Facebook, in risposta a questo, ha scritto che poteva fare le luminarie in agosto… Ma non ha senso fare ipotesi adesso. In ogni caso, mi sembrava opportuno sottolineare la necessità che un’opera d’arte non si dissimuli interamente nella realtà perché così perderebbe la sua connotazione di arte diventando qualcos’altro, pur sempre degno e legittimo: non arte ma azione, provocazione, situazionismo o altro ancora.

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  1. Non c’è proprio speranza che un assessorato alla cultura possa essere in grado di analizzare le azioni promosse in modo lucido e non di parte così come fatto in questo ottimo articolo? e magari trarne preventivamente le dovute conclusioni?

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  2. Solo qualche domanda spero costruttiva: Forse che quando si ha a che fare con la fruizione di massa bisogna standardizzare e ammorbidire i concetti su cui si lavora, considerando il popolo come un bambino incapace di distinguere? io, per esempio trovo che l’opera sia chiaramente leggibile e riconoscibile.
    e poi, per quanto riguarda la questione del contesto, essa non poteva essere fatta in posto migliore, visto che l’opera gioca proprio su certe identità visive e geometriche con le classiche luci di natale. trovo che il lavoro abbia una forza che va oltre la questione della provocazione e che la provocazione sia un effetto collaterale trascurabile nell’economia dell’opera. Insomma, mi lasci passare con leggerezza un termine desueto, ma l’opera è “bella”, ben progettata e ricca da gustare in tutte le sue sfumature e rimandi sia formali che di contesto, e non lo sarebbe stata in un contesto più protetto. e poi: forse che le luci di Natale non rientrano nel campo dell’arte?

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    • Sono d’accordo che non ci si debba standardizzare. Io stesso ho trovato l’idea complessiva molto interessante, acuta e puntuale, dopo aver saputo di che si trattava. Il problema (che l’arte dovrebbe porsi) è il mancato dialogo con l’interlocutore, cioè chi l’arte la deve fruire. Mi sembra che sia questo il punto. L’artista che se la suona e se la canta, per quanto possa fare qualcosa di meraviglioso, non so fino a che punto possa ritenere di aver fatto qualcosa di sensato, perché l’artista si muove nel campo delle relazioni con gli altri, non della semplice espressione di sé. Se io faccio un’azione artistica e tutti credono che stia facendo qualcos’altro, c’è da interrogarsi sull’efficacia della mia azione, che finirà magari a futura memoria come “opera d’arte”, ma solo perché c’è qualcuno (il critico, lo storico) che ha deciso di farla passare alla storia come opera d’arte. Ma nella contingenza dell’azione, quell’azione sarà stata incapace di interagire davvero con il suo pubblico di riferimento. Chi passa di lì, senza che qualcuno lo abbia informato, vede solo una luminaria massonica e non si interroga certo sulla strage della stazione, ma su chi ha potuto pensare di mettere i simboli della massoneria nelle strade di Bologna, perché quelle luminarie sono credibilissime come oggetti quotidiani e non contengono alcun elemento di “messa in cornice” e di alterazione del quotidiano che l’arte contiene al suo interno.
      Il problema è che nessuno-ma-proprio-nessuno, ha visto quelle luminarie come una presenza “incongrua” rispetto alla realtà, con l’aggravante di una simbologia non proprio “tranquilla”. Solo dopo che qualcuno ha detto “guardate che è un’opera d’arte che ha questo significato”, allora c’è chi si è relazionato con essa proprio come ci si relaziona con un’opera d’arte di questo tipo, cioè politica/provocatoria, chi apprezzando e chi no. Ma allora il punto è: è accettabile che per capire che un’opera fa riferimento all’arte, occorra una “spiegazione” che non si tratta di un oggetto quotidiano ma di un manufatto artistico?
      Poi, certo, una volta spiegata la cosa, questa luminaria ha un suo senso e una sua legittimità. Ma il punto è precedente: se la mia opera si mimetizza nella realtà quotidiana, allora è una pura azione che esce dallo statuto dell’arte.

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  3. Articolo interessante, ma ho diverse obiezioni.

    La prima obiezione è di carattere – forse sterilmente – accademico. Anch’io ricordo bene la teoria “libera tutti” cui lei fa riferimento: un’opera d’arte è tale quando è riconosciuta come tale. Ma, sempre se non sbaglio, a questa affermazione manca un pezzettino fondamentale. Il pezzo che manca è: “…quando è riconosciuta come tale dal Mondo dell’Arte”. Dove per Mondo dell’Arte si intende tutta la cricca di critici, musei, curatori, collezionisti, altri artisti e via dicendo. Insomma tutte quelle figure ed istituzioni che muovono il mondo dell’arte. Quindi, secondo questa teoria, affinché un manufatto possa essere considerato un’opera d’arte dev’essere trattato, discusso, commissionato, mostrato, venduto come opera d’arte. Cosa che mi sembra in questo caso sia successa.

    Ma supponiamo che mi sbagli – ne è passato veramente tanto di tempo da quando ho studiato queste cose – o che ci sia una versione “più larga” (anche se a ben vedere più stretta) di questa teoria; una teoria che affermi che un’opera d’arte, per essere tale, dev’essere riconosciuta come tale e basta. Nel nostro caso se non viene riconosciuta come opera d’arte dovrebbe essere riconosciuta come semplice luminaria. Ma non mi sembra che questo sito si chiami “Luminarie oggi” o che tutte le polemiche scatenate dalla sua installazione trattassero il manufatto come luminaria muovendo obiezioni del tipo: “sono poco natalizie” o “sarebbe stata più bella con più lucine”. Se ne parla in senso estetico (funziona o no? E’ solo provocazione o è arte? E’ situazionismo?) e anche in senso politico, insomma tutti ambiti e argomenti mi pare più vicini al mondo dell’arte che a quello della luminaria. Lei scrive: “riconosciuto come tale (…) a posteriori”. Cosa che mi sembra in questo caso sia successa.

    Slegandoci dalle teorie, un’altra obiezione riguarda l’assunto che nessuno possa riconoscere l’opera di Vitone come opera d’arte: “occorre riconoscere che quelle luminarie, appese a mezz’aria nella notte di Bologna, non fanno intuire neanche lontanamente la loro appartenenza al genere “arte”, ma più banalmente al genere “luminarie natalizie”.
    In base a quale idea afferma ciò? E’ proprio sicuro che nessuno, vedendo un enorme simbolo eminentemente massonico, tra l’altro costruito in quel modo (il triangolo, i raggi l’occhio da vedere in prospettiva, una tecnica dichiaratamente “artistica”, mi si passi l’espressione) fatto di lucine di natale, si sia fatto un paio di domande? O c’è un addetto comunale particolarmente estroso, o hanno ricostituito la P2 che ha preso il sopravvento sul business delle luminarie natalizie, oppure c’è qualcosa sotto. Tra l’altro trovo che, anche presi separatamente, i tre pezzi non abbiano, a parte forse i raggi, veramente niente di natalizio, quantomeno nel mio immaginario (da quando un triangolo ha a che fare col natale? E un occhio?). Ed infine: è proprio vero che il contesto “luminarie” non è riconosciuto da alcuno come cornice artistica? Ci sono state altre esperienze di questo genere (luci di natale da installare su ponti commissionate ad artisti), ad esempio a Bolzano; posso affermare con una certa sicurezza che qualsiasi bolzanino, ormai abituato a questa consuetudine, passando per ponte Galliera, abbia riconosciuto il manufatto di Vitone come opera artistica. Insomma trovo l’idea che nessuno possa riconoscere quella come opera d’arte sia veramente un po’ debole.

    Andando oltre, addentrandoci nello sdrucciolevole terreno del gusto: è proprio sicuro che il fatto che un’opera d’arte per “funzionare” debba per forza essere riconosciuta come tale, subito e inequivocabilmente? Io invece trovo interessante (termine che detesto, ma tant’è) proprio che si mimetizzi nel tessuto urbano, che sia una specie di “errore di sistema”. Qualcosa che ci passi sotto dieci volte senza farci caso e all’undicesima ti fermi e pensi: “no, aspetta un attimo, ma quello non è il…”. Tra l’altro c’è un altro esempio di qualcosa di simile (solo da questo punto di vista) in città: la W di Kinkaleri.

    L’opera di Vitone mi piace e mi piace proprio come è andata tutta la faccenda: un meccanismo che se fosse stato fatto apposta sarebbe stato veramente ben congegnato e che fa funzionare (altro termine che detesto) l’intera operazione molto bene, facendola diventare quasi una performance, un happening. Installazione dell’opera, cittadini sbigottiti, comunicato dal comune, tutti che ne parlano, ne discutono, ne scrivono.

    Sinceramente spero che la trasformino in installazione permanente.

    Ad ogni modo: buon natale!

    Luca

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    • Caro Luca, le obiezioni sono assolutamente centrate. Riguardo alla teoria di Nanni, è esattamente in quei termini: l’opera è opera d’arte quando è riconosciuta come tale dal Mondo dell’Arte. Io sono partito da quel discorso non per applicarlo pedissequamente ma per fare un ragionamento un po’ diverso, e cioè per dire che l’arte deve porsi il problema del rapporto con i suoi interlocutori, e per farlo deve essere in qualche modo “riconoscibile”, altrimenti nella contingenza della sua manifestazione sarà semplicemente un’azione, una situazione, una provocazione. Dopodiché passerà alla storia come opera d’arte perché – appunto – il “Mondo dell’Arte” l’avrà riconosciuta come tale, ma nella contingenza, nell’urgenza della “necessità artistica”, ammesso che l’artista non crei per sé ma per lanciare ponti (diciamo così), se gli interlocutori non si accorgono che quel qualcosa ha a che fare con un’espressione artistica, allora c’è qualcosa che non funziona a cominciare dalle parti dell’emittente e non del destinatario (ma qui rischiamo di generalizzare troppo, me ne rendo perfettamente conto).
      Poi, sì, certo, l’opera è stata “riconosciuta a posteriori”. E infatti ne ho scritto inserendomi proprio in un tipico discorso da dibattito su un’opera d’arte. Se non l’avessi riconosciuta come tale e se non avessi avuto la certezza che ormai molti sanno che è un’opera d’arte, ne avrei parlato in termini molto diversi, cosa che peraltro non mi avrebbe interessato. Mi interessava riflettere “a voce alta”, a partire da un’opera d’arte che si dissimula nel quotidiano, sulle implicazioni di una scelta di questo tipo. Cioè, mi interessava parlare di arte, proprio perché si partiva da un’opera d’arte. E mi interessava parlarne cercando (sicuramente in modo confuso) di capire la differenza tra un’opera d’arte che si presta al confronto presentandosi nella sua extra-quotidianità e un’opera che si dissimula nel quotidiano e che quindi, per me, tende a perdere quella necessità artistica che non è solo prerogativa dell’artista, ma è prerogativa del rapporto (solidale o conflittuale poco importa) tra artista e fruitore.
      Sul fatto che io sia sicuro che nessuno abbia percepito quelle luminarie come qualcosa che ha a che fare con l’arte, beh no, non ne sono sicuro. Certo, mi piacerebbe proprio conoscere la persona che, alzando gli occhi al cielo e vedendo una luminaria col simbolo della P2, esclama: “ma questa è un’installazione artistica!”.
      Sui singoli elementi… Il triangolo (certo, non equilatero) è in un certo senso una stilizzazione dell’albero di Natale, per cui ci sta. Oltretutto fu usato in versione equilatera due anni fa in luminarie natalizie a Treviglio scatenando la polemica perché erano… luminarie massoniche: http://www.bergamosera.com/cms/2012/11/22/treviglio-sulle-luminarie-il-simbolo-della-massoneria/ . Concordo sulla stranezza dell’occhio, ma si vedono tante stranezze, che una più una meno: http://familyalins.over-blog.com/article-illuminations-de-noel-2012-a-londres-113497206.html oppure http://i52.tinypic.com/vp9es7.jpg o ancora http://www.preserreedintorni.it/wp-content/uploads/2014/11/luminarie-di-natale.jpeg .
      Le luminarie sono artistiche? Mah, dipende. Io tendo a rubricarle nel kitsch. Non conosco l’esperienza di Bolzano, ma a questo punto sarei curioso di saperne di più.
      Sono d’accordissimo invece sull’ultimo punto: anche a me piace molto quando l’oggetto d’arte si presenta come “errore di sistema”! Ma, appunto, l’errore di sistema deve poter contenere in sé gli elementi della sua riconoscibilità (sia pure dopo un primo momento di spiazzamento) come opera d’arte, altrimenti è una pura azione dimostrativa (per carità, legittima e importante). Mi viene in mente, per rimanere in tema, l’orologio della stazione di Bologna che sta a sinistra ed è fisso sull’orario della strage: quello è un “errore di sistema”, che serve a spiazzare, infastidire, discutere, conoscere, che ha perfino fatto perdere il treno a qualcuno, ma non è un’opera d’arte.
      Comunque, a me l’idea della luminaria, dopo che mi è stato detto che è un’opera d’arte e che ha quello specifico significato, è piaciuta. Ma, possibile che per capire che un oggetto è un’opera d’arte, ci debba essere qualcuno che lo spieghi? E’ perfettamente ovvio che la W di Kinkaleri è un’opera d’arte, se non altro perché a Bologna non esiste la metropolitana, e quindi è un oggetto incongruo, un errore di sistema, appunto, ma che ha al suo interno l’elemento che ne fa capire l’appartenenza a qualcos’altro (appunto, l’inesistenza della metropolitana). Invece le luminarie sono, ripeto, perfettamente dissimulate e coerenti con le luminarie circostanti.
      Ecco, se poi, come dice, diventassero un’installazione permanente, allora sì che scatterebbe quell’anomalia che le renderebbe immediatamente riconoscibili! Una luminaria natalizia in agosto sarebbe immediatamente recepita come installazione, e tutto ritornerebbe al punto giusto.
      Comunque, sinceramente grazie del commento: apprezzo sempre molto quando ci sono obiezioni così precise, e anche calzanti.

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      • Da fruitrice distratta e ampiamente incompetente dell’arte, penso di poter rappresentare il cittadino colto alla sprovvista da questo oggetto non identificato. (Peraltro, confinata a casa da un problema di salute, sono venuta a conoscenza di quest’opera attraverso una foto rimbalzata sui social network, che mi ha incuriosita e indotta a ricercare informazioni in merito.)

        Trovo molto interessante questa riflessione perché tocca il tema del limite del controllo che un autore è effettivamente in grado di esercitare sulla propria opera. Offrire un’opera in pasto a un pubblico senza poterla corredare di “istruzioni per l’uso” implica il rischio che ogni fruitore vi associ significati e valori personali, eventualmente anche lontani o in contrasto rispetto a quello che era l’intendimento di chi l’ha creata. Gli effetti della fruizione sono, insomma, imprevedibili.

        Eppure questo credo sia il destino che tocca abitualmente alle opere scritte e in musica, e personalmente osservo sempre con curiosità come invece nell’ambito delle arti visive (si chiamano ancora così?) si utilizzino dei dispositivi, in genere legati alla collocazione dell’opera, che consentono di indirizzarne la fruizione, principalmente indicando a priori che l’oggetto esposto “è arte”.

        Penso che in un caso come questo, in cui la collocazione non svolge questa funzione determinante, qualsiasi scommessa riguardo ai significati che i fruitori associeranno all’opera sia sempre una scommessa, almeno in parte, persa. Io per esempio trovo azzardato il paragone con la svastica, perché la mia impressione è che l’esperienza della Shoah abbia davvero fatto sì che quel simbolo venga immediatamente associato nel sentire comune a un significato preciso in maniera univoca. Ma si può dire lo stesso per l’occhio della provvidenza? Nel mio caso, date le mie scarse conoscenze in fatto di massoneria, le vie dell’associazione di significato hanno seguito altri percorsi, più legati all’esoterismo, col felice risultato, credo – rispetto alle intenzioni dell’autore – di indurmi ad approfondire il tema.

        E i bambini appesi all’albero di Cattelan sono davvero immediatamente riconoscibili da chiunque come opera d’arte? Non potrebbero essere, oggi, una trovata pubblicitaria di un’agenzia di comunicazione? Il paragone con la W di Kinkaleri per quanto mi riguarda è un paragone più azzeccato: per anni mi sono chiesta “che cosa ci facessero lì” quei segnali apparentemente privi di senso. L’installazione di Vitone mi ha fatto lo stesso effetto, l’ho percepita come un oggetto “fuori luogo”, ma per di più inquietante, e questo mi ha indotta a ricercare informazioni.

        In definitiva, ciò che mi chiedo è se l’Arte con la a maiuscola possa aspirare a, o pretendere di, assumere una dimensione “popolare”, o pop, senza rinunciare all’iniziale maiuscola, cioè accettando lo stesso destino di indeterminatezza del proprio valore che è riservato ad altre forme d’arte. Questo a mio avviso implicherebbe la rinuncia, da parte degli addetti ai lavori, alla possibilità di stabilirne il valore a priori, e a posticipare questa valutazione a un “dopo”, in relazione agli effetti che l’opera realmente produce nella fruizione da parte del pubblico. Mi sembra che questo sia il criterio in base al quale, in letteratura, si discrimina tra ciò che si può definire “un classico” e ciò che non lo è. Mi chiedo anche quanto le forme di produzione e di fruizione dell’arte siano soggette alla stessa tendenza di “democratizzazione” che sta coinvolgendo altre forme espressive con lo sviluppo delle tecnologie digitali e dei mezzi di comunicazione, e quindi anche se la questione del discrimine tra ciò che è arte e ciò che non lo è si ponga oggi con più urgenza rispetto al passato.

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    • In un mondo pieno di immagini e informazioni il vero artista dovrebbe star zitto….da questo punto di vista trovo molto piu interessante l opera(?) di vittone dal lavoro di Catelan che ha un odore (puzza) di anni novanta. Catelan sarebbe contemporaneo se impiccava il suo narcissismo (se stesso) come atto di protesta politico sociale …. fare lungi discorsi concetualli sul arte in mezzo A un mondo che muore lentamente e come usare la corda di impiccato per saltare lacorda ….tanto per stare in tema!!!

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  4. In un mondo pieno di immagini e informazioni il vero artista dovrebbe star zitto….da questo punto di vista trovo molto piu interessante l opera(?) di vittone dal lavoro di Catelan che ha un odore (puzza) di anni novanta. Catelan sarebbe contemporaneo se impiccava il suo narcissismo (se stesso) come atto di protesta politico sociale …. fare lungi discorsi concetualli sul arte in mezzo A un mondo che muore lentamente e come usare la corda di impiccato per saltare lacorda ….tanto per stare in tema!!!

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  5. Ciao Stefano, passo al tu così, d’amblè. Spero non t’offenderai.

    Sono perfettamente d’accordo con l’idea che l’artista si debba mettere in relazione col suo interlocutore o quantomeno porsi la questione; ci sono però molte modalità con cui farlo e la provocazione è una di esse. Non originale, non rivoluzionaria, può piacere o meno, ma in qualche modo crea un contatto; in questo caso l’ha fatto e di fatto, per come sono andate le cose, si è prestata al confronto. Personalmente poi io non l’ho nemmeno vissuta come provocazione.

    Ad ogni modo non credo che quello di Vitone fosse situazionismo fine a sé stesso (“piazzo un bel simbolone massonico sul ponte, così, perchè mi piace, e vediamo che effetto fa”). Anche solo il riferimento ai presunti legami P2-strage di Bologna (di cui io non conoscevo, colpevolmente, l’esistenza) mi portano a pensare che l’artista volesse dire qualcosa, volesse portare alla luce un aspetto poco conosciuto della questione, oppure far riflettere sul ruolo della massoneria (e perché no, mutatis mutandis, delle lobby) nel nostro quotidiano inserendola dove meno te l’aspetti…
    Un’altra piccola informazione: leggo ora, in un articolo di Radio Città del Capo, che Souvenir d’Italie fa parte di una serie: “Vitone nel 2010 ha prodotto il suo primo “Souvenir d’Italie” per una mostra che si è tenuta a Parigi. Prima una lapide in marmo con il triangolo, l’occhio e i raggi uniti insieme sotto la scritta ‘Souvenir d’Italie’, poi una grande lapide fatta in carta con la scritta “Nell’anno XVI della II Repubblica, a ricordo dei suoi figli migliori, fondatori della patria, l’italia dedica per il loro impegno e sacrificio questa lapide a futura memoria” con sotto l’elenco dei 962 iscritti nell’elenco trovato a villa Wanda, la casa di Licio Gelli.”

    (http://www.radiocittadelcapo.it/archives/luminarie-con-segni-massonici-lautore-unopera-contro-loblio-153528/)

    Per quanto riguarda i pezzi staccati delle luminarie ho riso molto seguendo i link che hai indicato. Effettivamente c’è di tutto in giro, però mi passerai l’obiezione che c’è una netta differenza di fattura fra il triangolo di Treviglio e il triangolo di Vitone. Anche io fatico molto ad inserire la luminaria (in sé, perché se me la becco in qualche museo mi tocca!) nell’area dell’opera d’arte.

    Rimane il fatto che non riesco a cogliere del tutto perché secondo te è in qualche modo necessario che un’opera d’arte si debba dichiarare come tale.

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    • Il tu mi piace! Beh sì, il triangolo di Treviglio è semplicemente un incidente di percorso e pure bruttino… 😀
      Interessante quel che dice Vitone (che so essere molto acuto) a Radio Città del Capo, ma non fa che confermare la mia idea. Prima fa una lapide con i segni della massoneria e la scritta “Souvenir d’Italie”, poi la lapide di carta: in entrambe queste opere c’è qualcosa che ce le presenta come opere d’arte, senza equivoci: il titolo della prima e la materia della seconda.
      Rimane la questione, come dici tu: l’arte *deve* dichiararsi come tale? Da storico risponderei di no: l’arte è appunto ciò che viene riconosciuta come tale. E del resto il concetto stesso di “arte” si è evoluto nei secoli: quello che intendiamo noi oggi è galatticamente diverso (da un punto di vista concettuale) da come la intendeva un miniatore medievale o uno scultore egizio, tanto per dire. Quindi, dovremmo andare più a ritroso a chiederci: ma di quale “arte” parliamo? Meglio lasciar perdere…
      Però da persona calata nella realtà attuale, risponderei forse di sì. Nel senso che l’arte dovrebbe essere un discorso non a senso unico, e quindi il fruitore dovrebbe poter essere consapevole di cosa sta osservando, sia pure dopo un primo impatto spiazzante… Altrimenti rimane un puro atto autoreferenziale dell’artista. (anche se è vero che si potrebbe fare un discorso contrario, e cioè che il vero fruitore di un’opera che non si presenta come tale non è il fruitore contingente inconsapevole, ma il fruitore futuro che leggerà di questa azione sui libri: e anche questo potrebbe essere un modo interessante di porre la questione).

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  6. Le dichiarazioni lette su “La Repubblica” a questo riguardo:

    Luca Vitone (intervista di Luigi Spezia, La Repubblica, 22 dicembre): “Nemmeno le opere di Giotto o Caravaggio vennero capite. Per capire bisogna discutere e studiare”.

    La curatrice Martina Angelotti (intervista di Luigi Spezia, La Repubblica Bologna, 23 dicembre). Domanda: “L’accusa è che l’opera si sia prestata a un fraintendimento. L’avevate messo in conto”. Risposta: “No, affatto”. Domanda: “Un altro elemento di confusione non potrebbe essere stato generato dall’utilizzare una luminaria in pieno periodo natalizio?”. Risposta: “Vitone non ha usato luci artificiali come le classiche luminarie, ma lampade a incandescenza. Segna una differenza”.

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