
Nei primi giorni di settembre 2023 si è svolta la finale del Premio Scenario infanzia e adolescenza con la partecipazione di 10 giovani formazioni artistiche impegnate a presentare i loro progetti di teatro. In questa occasione è stato rinnovato per la sua quinta edizione il “tavolo critico” di osservatori “speciali” che hanno seguito tutti i lavori e alla fine hanno scritto una propria riflessione. Questo che segue è il mio contributo al termine del tavolo critico di Scenario.
La divisione tra infanzia e adolescenza nella definizione dei vincitori a partire da questa edizione del Premio Scenario invita a una lettura più definita dei percorsi di lavoro espressi dai giovani artisti che partecipano alla competizione, e in particolare alla finale. Percorsi nettamente distanziati per due fasce d’età per le quali vengono indicate direzioni di lavoro molto precise. Al contrario delle due edizioni precedenti del premio, in cui le articolazioni tematiche e i linguaggi sembravano più ricchi e vari, quest’anno le indicazioni paiono più coerentemente univoche. Al solito, la riflessione sulle motivazioni va spostata dall’obiettivo dichiarato (infanzia e adolescenza) alla comunità creatrice dei progetti stessi, che invece oscilla in una fascia d’età tra i 25 e i 35 anni. Insomma, i temi e i linguaggi di questi Premio Scenario infanzia e Premio Scenario adolescenza non ci dicono come siano l’infanzia e l’adolescenza del 2024, ma piuttosto come sono i giovani venti-trentenni di questo periodo e come essi ragionano osservando le generazioni successive: cosa decidono di raccontare e come – che è poi, in qualche modo, lo specchio di quello che loro hanno bisogno di raccontare (a sé e agli altri) e di come loro hanno bisogno di esprimersi. E così sarà (è stato) certamente utile osservare la reazione del pubblico di bambini e bambine di fronte ai progetti, così come quello di ragazzi e ragazze: ma le stesse reazioni del pubblico adulto dicono molto di più, e ci rivelano qualcosa delle identità artistiche dei partecipanti. Con un corollario, che ogni volta ritorna e ogni volta si riconferma: è importantissimo lavorare su spettacoli per l’infanzia e per l’adolescenza, con la consapevolezza di personalità in fragile crescita di fronte a un mondo tutto ancora da capire ed esplorare, ma il teatro per l’infanzia e per l’adolescenza si confermano prima di tutto teatro, teatro per tutti, teatro capace di dialogare anche con gli adulti, anzi teatro ponte tra i ragazzi e le ragazze del presente e quelli che furono ragazzi e ragazze e oggi li osservano (e osservano sé stessi) con mistero e curiosità.
E così, i quattro progetti di Scenario infanzia e i sei progetti di Scenario adolescenza mostrano di svilupparsi su due fili rossi diversi, ma sembrano avere un senso comune: sono tutti progetti proiettati verso il futuro, ossia non semplici fotografie di condizioni presenti o memorie passate, non mere denunce o stuzzicanti esplorazioni, ma veri e propri progetti di vita, proposte che proiettano giovani spettatori e spettatrici sul futuro e sembrano spingerli a una qualche azione.
Amicizie
Tema chiave dei quattro progetti del Premio Scenario infanzia è l’amicizia. Tema piuttosto naturale, considerando l’età (scolare e pre-scolare: tre sono rivolti all’età 6-10 anni, e uno ai 3-6 anni) in cui il valore dell’amicizia inizia a formarsi e consolidarsi, diventando poi tesoro permanente dell’esistenza. Si direbbe un tema scontato. Eppure, se vado a riprendere le tracce delle due ultime edizioni, questo tema non pare così scontato, anzi: erano altri i temi più urgenti raccontati dai giovani artisti ai piccoli spettatori. Inevitabile, allora, procedere come detto dianzi, pensare cioè che questa tensione verso la narrazione dell’amicizia provenga dai giovani artisti stessi. E che, in qualche modo, sia il valore dell’amicizia a rifondare un ‘patto’ di relazione e di solidarietà tra le generazioni e non solo all’interno delle generazioni stesse. C’è un ulteriore elemento comune, altrettanto interessante: l’amicizia ha valore in relazione al viaggio, ossia a un’esperienza di condivisione fisica e scoperta. Mi sembra a questo punto evidente che il nodo vero sul quale i giovani artisti insistono per allacciare un dialogo con gli spettatori riguardi l’epocale confronto con il livello virtuale dell’amicizia e dell’esperienza. In un’epoca in cui l’intensità della relazione è data da visualizzazioni e like su un dispositivo elettronico, che rendono subalterna l’esperienza nel mondo reale, e immediatamente successiva alla frattura del Covid e dell’isolamento sociale, spingere in modo deciso sul tema dell’amicizia e del viaggio fisico di conoscenza mi sembra una reazione estremamente interessante. Tanto più che nei quattro progetti fa capolino un ulteriore elemento comune: la fascinazione dell’elemento animale che diventa protagonista o comunque soggetto determinante della narrazione. Gli animali riconnettono l’esperienza fisica, reale, al suo piano simbiotico: la fantasia, il sogno, l’irrazionale, che non hanno nulla a che vedere con il virtuale, ma proprio con quella fantastica realtà che abita la creatività infantile.

Cosa hai in testa? di Claudia Rossi Valli e Natiscalzi DT, vincitore del Premio Scenario infanzia di questa edizione, riprende l’albo illustrato Il bambino con i fiori nei capelli di Jarvis, interpretandone la storia di amicizia sul filo rarefatto e sinuoso dell’irrealtà: il bambino in questione è amico reale o virtuale o proiezione speculare e fantasiosa del narratore? Nello spettacolo, il genere muta arricchendo di sfumature alcuni passaggi. La bambina, che ci viene presentata dall’amica, ha per capigliatura un grumo inestricabile di rami, foglie e fiori, nel quale si celano di volta in volta un canarino, le cuffie auricolari o la luna. Il racconto procede per scene paratattiche, con varie declinazioni di questa particolarità e di questa amicizia, che a un certo punto vive l’impulso di un viaggio comune, altrettanto surreale e fantastico, come appare fin da subito con l’enorme barchetta di carta che campeggia in scena. Eppure non si tratta di un semplice racconto di amicizia, ma di un potentissimo viaggio iniziatico (e perciò simbolico, dove chiunque può proiettare nel simbolo un diverso significato): la chioma ramificata della bambina perde fiori e foglie, si secca, trascinando nell’aridità la bambina stesso, forse la malattia, la depressione, la morte, oppure semplicemente la distanza, la rottura dell’amicizia, la metamorfosi dell’età. Sta di fatto che solo l’aiuto dell’amica, che costruisce fiori di carta da aggiungere alla chioma secca, come fossero protesi, medicine o nuovi soffi vitali, o un modo consapevole di ridare vitalità a una relazione, riesce a riportare la bambina alla sua vita e vitalità.
Questo passaggio è potente e inquietante: alla gaiezza della prima parte subentrano improvvisi e spiazzanti la desertificazione e il dolore, ulteriormente sottolineati dalla scissione del soggetto (quasi a ribadire una sotterranea lettura iniziatica). Alla performer che impersonava la bambina, infatti, si sostituisce ora un pupazzo in tutto e per tutto uguale (ma con la chioma secca e il colore illividito), che tuttavia è manovrato dalla performer stessa, in un’epifania sconvolgente di schizofrenia o dissociazione che necessita una ricongiunzione. Temi troppo complessi pensando a uno spettacolo per l’infanzia, che pure mi sembrano pertinenti, se il portato magico e irrazionale di questa dissociazione così plasticamente dichiarata va a incontrare uno sguardo di per sé magico e irrazionale come quello infantile. Proprio questa scena sembra aprire per un attimo la porta di collegamento tra la tensione creativa delle due giovani artiste e il mondo interiore del giovanissimo pubblico. Tensione che trova nel linguaggio del teatrodanza la sua forma più squisitamente liberatoria. La danza sembra tradurre perfettamente il tratto di Jarvis, ma soprattutto i moti interiori della scoperta di sé e della dinamica amicale, ben più delle parole: il corpo al centro per una storia che pone proprio il corpo – o meglio una parte, i capelli – al centro. O ancora meglio: il corpo in trasformazione (nella danza, nei ‘capelli’, nell’evoluzione dal rigoglio alla desolazione alla rinascita) che dovrebbe ‘stimolare’ altri corpi, quelli dei bambini spettatori, quasi implicitamente invitati a ripetere gesti ed evoluzioni, da quelli più astratti fino alle acrobazie con lo skateboard.

Nel progetto dal titolo bennatiano C.I.U.R.M.A.! – Pendagli da forca i tre Sea Dogs Plus raccontano, appunto, un’amicizia, un viaggio, l’incontro con fantastici animali. I due protagonisti decidono di riprendere in mano la loro fantasia infantile e diventare pirati alla ricerca del tesoro. In viaggio su una vasca da bagno che non sa di essere una vasca da bagno – e dunque, con la fantasia, può diventare una nave, così come il tè non sa di essere tè e può essere rum – incontrano prima di tutto una pappagalla, una sorta di variopinta e vivace Papagena che li accompagna attraverso mari e isole, dove avverranno incontri determinanti con altri personaggi (in questo caso pupazzi), come una tigre o una scimmia. Il tesoro finale sarà una frase che scioglie l’acronimo del titolo: “Che In Ultimo Rimaniamo Molto Amici”, segno ulteriore, dichiarato ancorché evidente dalla storia, che è proprio l’amicizia il centro e il motore dello spettacolo, che tira le fila rispetto ad altri spunti tematici di contorno, dalla questione ambientale (con la grande isola di plastica che si frapporrà nel viaggio dei pirati) al “turbo-capitalismo” incarnato da quella sorta di Mago di OZ che abita l’ultima e risolutiva isola della navigazione. E se questo è il centro dello spettacolo, va da sé che ne costituisca anche la caratteristica di fruizione, perché proprio gli spettatori bambini sono chiamati a essere la ciurma di accompagnamento dei due pirati, e quindi a unirsi in amicizia, creando una bolla comunitaria di valore positivo, destinata ad attraversare le – peraltro minime – avversità, subito ricondotte sempre a relazioni amicali (ancora il romanzo di Baum sembra essere un riferimento significativo a proposito delle modalità del viaggio che crea relazioni amicali), a cominciare dalla prima tigre in poi.

Quello che si rivolge al pubblico più piccolo, dai 3 ai 6 anni, è Lino e Lone di V.A.N. Verso Altre Narrazioni, scritto e diretto da Ornella Matranga. E ancora, fin dal titolo, ci troviamo in un rapporto di amicizia e solidarietà tra due figure complementari nella loro ‘diversità’: il basso di statura Lino e lo spilungone Lone, il primo radicato nella terra e il secondo proiettato nel cielo. Il linguaggio elementare, scelto per i destinatari del progetto, nasconde dunque questioni profonde e complesse, a cominciare dal confronto tra opposti, quasi alchemico (siamo a un passo dalla vertigine esoterica dell’incontro tra opposti, simboleggiati da terra e aria, con l’aggiunta di ulteriori tracce disseminate nel racconto: ma questo, pur rappresentando uno spunto intrigante e non certo peregrino, ci porterebbe fuori strada, anche se tutto questo sembra ribadire il senso ‘magico’ dell’infanzia che potrebbe essere in grado di ‘dialogare’ con la ‘magia’ alchemica, ovviamente in modo puramente fantasioso). Anche in questo progetto è significativa la forte fisicità dei corpi, che parte dalle caratteristiche narrative per diventare linguaggio espressivo, così come la proiezione della performatività nel pubblico, con i bambini allegramente coinvolti. In questo caso, la trama prevede un viaggio alla ricerca della marmotta (ecco l’animale), che vede consolidarsi e arricchirsi un’amicizia iniziata con la diffidenza e la vergogna di ciascuno dei due per la propria condizione di diversità. Ricerca che la compagnia vuole prolungare con l’idea, assolutamente congeniale e auspicabile, del lavoro seriale: tanti piccoli spettacoli con i protagonisti Lino e Lone in viaggio.

La questione dell’amicizia è anche concettualmente al centro di India di Cecilia Bartoli, dove però ciò che va in scena è proprio la frattura della relazione. La protagonista è una bambina che invita l’amica a casa per rivelarle che in cantina tiene nascosta una tigre, che è evidentemente proiezione ingigantita dell’amico immaginario o, più correttamente, del sé immaginato. Il tema è dunque, semmai, quello della solitudine e della ricerca della propria identità e affermazione, ma è interessante che questo avvenga attraverso due direttrici relazionali piuttosto significative, tenendo conto dell’età di riferimento degli spettatori. Una è quella, appunto, dell’amicizia: la bambina si confida con l’amica, che però non regge alla rivelazione e scappa, lasciandola sola. L’altra è quella della maestra: lo spettacolo, infatti, è inquadrato in una cornice scolastica, in cui la bambina racconta all’insegnante quel che è successo e poi fa rivivere tutto in scena come in un flashback. Scelta piuttosto curiosa per almeno due motivi. Il primo è la messa in primo piano della scuola rispetto alla famiglia: genitori e sorella sono solo evocati, mentre la maestra è indicata come interlocutrice diretta a cui confessare i segreti più intimi. Il secondo è la messa in secondo piano del pubblico stesso, soprattutto considerando la maggior parte di analoghi spettacoli per bambini, nei quali costoro vengono coinvolti in vario modo: dalla partecipazione attiva al semplice raccogliere le confidenze dei personaggi. È dunque davvero curioso che la protagonista, in proscenio, non racconti la sua avventura ai bambini ma a una maestra che ascolta dall’alto, ricevendo la confessione della bambina. C’è da chiedersi come risuonerebbe la stessa confessione, l’avventura casalinga e in definitiva lo spettacolo intero se il racconto fosse rivolto invece ai bambini che stanno assistendo, caricati di un segreto da dividere con la protagonista, in una condivisione infantile/amicale che porterebbe anche ciascun bambino spettatore a misurarsi in relazione con l’amica ‘traditrice’ che scappa. È insomma interessante e merita approfondimento il fatto che tre progetti raccontino di personaggi-amici assimilabili a bambini, mentre questo India spezza non solo il rapporto amicale presentando un solo personaggio bambino (e questo è perfettamente comprensibile, visto l’intento della calata in profondità nell’intimità personale di un individuo), ma poi sposta il rapporto su un asse totalmente ignorata dagli altri, ossia l’asse bambino-adulto, anzi bambino-maestro, ossia bambino-autorità, alla quale si demanda il compito di ricevere le confessioni del bambino.

Responsabilità e ribellione
Di tutt’altra natura i 6 progetti di Scenario adolescenza, per i quali l’urgenza sembra ben altra rispetto al tema dell’amicizia e alle sue varie declinazioni: tema praticamente assente. Gli artisti 20-30enni che si rivolgono esplicitamente ai teenager riversano nei loro progetti un’altra tensione, che sicuramente appartiene ai teenager ma che altrettanto sicuramente è condivisa con la generazione degli artisti stessi. Filo rosso dei progetti per l’adolescenza è, infatti, la ribellione. Che porta con sé un corollario fondamentale, la responsabilità. Cosa che trasforma i 6 progetti in altrettanti vibranti proposte di teatro politico, in senso più stretto alcune, in senso più lato altre. Ma tutte le proposte condividono una frenesia ribelle che viene incanalata nella necessità dell’assunzione di responsabilità: io che sto in scena manifesto un’irrequietudine e a un certo punto capisco che questa esprime non un’involuzione nichilista, ma semmai la necessità di una reazione a ciò che non mi sta bene, e questa reazione mi fa crescere e affermare i valori in cui credo. Si tratta di una questione estremamente interessante (anche in questo caso a maggior ragione se confrontata con quelle emerse nelle scorse edizioni), perché intercetta e interpreta esattamente l’intoppo nel quale sembrano invischiarsi proprio le giovanissime generazioni di questa epoca, che l’assuefazione a modelli relazionali tossici porta a far reagire in forme di ribellione senza riconoscimento e assunzione di responsabilità: rebel without a cause, per dirla con il film di Nicholas Ray. Ma La rabbia non ti basta, cantava Big Mama al Festival di Sanremo di quest’anno, e a sentire le canzoni che sono pane quotidiano dei giovani, proprio la rabbia e la ribellione rappresentano uno dei temi più frequentati e urgenti. Le cronache quotidiane relative alla violenza o all’autolesionismo adolescenziale ci mostrano esattamente questo: la naturale ribellione dell’età che non trova sfogo nel riconoscimento valoriale di quella ribellione e della necessaria evoluzione verso un’azione responsabile, ma rimane al puro livello di ribellione cieca, senza prospettiva, impotente. Ecco perché il compatto presentarsi di progetti concepiti, più o meno consapevolmente, sul fronte della ribellione-responsabilità, anche se declinate in maniere diversissime, mi sembra davvero centrato e coerente.
Due progetti esprimono questa urgenza al livello più incandescente e compromesso, in una vera e propria chiamata del pubblico alla ribellione e alla responsabilità, in termini intrinsecamente politici, entrambi in strettissima connessione con il presente.

Per Atena! di Le Scimmie affronta il tema della guerra, giocando di sponda con l’Iliade, e più precisamente con l’episodio della costruzione del cavallo di Troia. La scelta dell’episodio, poco ‘spettacolare’ o evocativo, è singolare, ma come vedremo strategica per l’obiettivo. Lo spettacolo, infatti, sviluppa il dialogo tra un militare e il costruttore del cavallo: un dialogo condotto fin dall’inizio con accattivante simpatia (quasi una parodia), anche grazie alla provenienza napoletana della compagnia. Proprio la napoletanità sembra costituire il dispositivo teatrale più efficace, con il classico dialogo di coppia comica che trascina immediatamente lo spettatore (adulto) nella vertigine delle commedie di Eduardo o delle scenette di Totò. Ripeto: non è banalmente la cadenza napoletana a riportarci alla tradizione partenopea, ma piuttosto la scrittura drammaturgica e la composizione scenica che rievocano esattamente quel background. Questo aspetto non è secondario: sono infatti la simpatia, la spiritosaggine, la battuta a risucchiare gli spettatori nel gioco divertente. Il militare scandisce lo slogan “Per Atena!” invitando gli spettatori a unirsi il coro. E tutti, ovviamente, gridano insieme lo slogan, ogni volta che il militare lo dice. Un gioco spiritoso che crea un buffo cameratismo. Fin qui tutto bene, potrebbe essere una specie di – diciamo – Totò alla guerra di Troia, ma questo non è un film comico. L’artigiano, infatti, comincia ad avere qualche dubbio, prima con strani sogni sul cavallo, una sorta di Equus ligneo altrettanto affascinante-perturbante, che ci porta lentamente su un terreno di inquietudine come nel dramma di Shaffer. E poi con i dialoghi che proseguono col militare: insomma, il civile inizia a interrogarsi ingenuamente sulla guerra di cui diventa inevitabilmente parte, mentre il militare continua a caldeggiare la necessità dell’utilizzo dell’arma per arrivare alla fine della guerra con la distruzione totale della città assediata, non importa se con vittime civili, donne, anziani, bambini. [Assisto a questo progetto e scrivo queste righe proprio nei giorni in cui da una parte i militari convincono i politici europei a fornire sempre più armi per far finire una guerra devastante, e dall’altra parte viene portata avanti la distruzione totale di una città assediata con ormai oltre 40.000 vittime civili, donne, anziani, bambini… Era già tutto nell’Iliade?]
Dallo sketch alla Totò siamo così passati impercettibilmente a un altro livello. Adesso il dialogo punta diritto alla questione della responsabilità. Dall’artigiano dipende la costruzione del cavallo che può far finire la guerra. Ma il militare ricorda, in una tirata ambiguamente non enfatica ma quasi sofferta, che la guerra non finirà mai, perché sempre depositerà memoria, e la memoria porterà vendetta: chi oggi dichiara la volontà di finire la guerra con la guerra sa che sta gettando le basi per una guerra futura. E insomma, “quanta terra vale una vita? quante vite vale una terra?” Al termine della tirata e dopo queste domande, il militare si rivolge al pubblico, come ha sempre fatto durante lo spettacolo più volte, invitando a gridare insieme “Per Atena!”. E qui accade qualcosa di notevole: i ragazzi del pubblico stavolta non gridano e rimangono in silenzio. La ribellione, la responsabilità sono passate dal personaggio fittizio del costruttore di cavalli agli individui reali, gli spettatori che hanno assistito al dialogo e ora sono chiamati implicitamente da che parte stare. E si schierano, col silenzio, contro lo slogan militare: not in my name, insomma. Per Atena! è un progetto emblematico da questo punto di vista, che non a caso si nutre del confronto dei giovani artisti con gli ancor più giovani ragazzi napoletani del rione Sanità con cui gli attori-educatori lavorano e si sono confrontati per elaborare lo spettacolo.

L’altro progetto ‘incandescente’ sul tema politico è Cuori teneri, anime forti: l’avventura antinazista dei fratelli Scholl di Misfatto a Palazzo. Il sottotitolo dichiara il soggetto, che ci porta immediatamente a un’epoca ma soprattutto all’identificazione di personaggi che sono simili agli adolescenti che costituiscono il pubblico di riferimento. Se Per Atena! interpella gli spettatori come pubblico di un qualcosa deciso da adulti, che minaccia e incombe, Cuori teneri punta a creare fin da subito un’identificazione del pubblico di teenager con i protagonisti, adolescenti anch’essi, non personaggi di fiction ma realmente provenienti dalla Storia. Il racconto di ribellione e responsabilità si presenta dunque, al contrario del precedente, non per metafora ma per esempio concreto, e dunque ripetibile. Anche perché va a intercettare una delle caratteristiche portanti della psicologia adolescenziale: l’aspirazione ad alte imprese, il coraggio e l’eroismo, la bellezza dell’atto assoluto. Strategico e riuscito è il dispositivo teatrale scelto, ossia una sorta di musical coloratissimo, ad alto tasso di empatia sensoriale, tutto schiacciato in uno spazio che esalta la bidimensionalità anche grazie a uno sfondo funzionale, modellato sulle geometrie di Mondrian e abitato da immagini e colori in chiave pop, dove spicca un isterico Hitler-muppet. Un immaginario visivo apparentemente lontano dall’oggi, sicuramente allusivo in parte di un certo passato storico, ma forse, proprio per la sua ‘anomalia’ rispetto alle iconografie contemporanee, capace di ‘bucare’ l’attenzione del pubblico adolescente. Che entra nella storia con una cornice che mi sembra essere l’unico punto fragile della costruzione: tutta la storia passa infatti attraverso una ragazza disabile degli anni ’80 (ma esordisce con un attualissimo e tiktokiano “POV”, che nega la voluta cornice temporale), che sarebbe la figlia della sorella di Sofie Scholl (questo il sottotesto non dichiarato, ma presente) e che chiede alla madre di raccontare ancora la storia di famiglia. Cornice concettualmente significativa, forse troppo per come aggiunge densità a qualcosa che non ha alcun bisogno di rinforzi né narrativi né scenici, e che invece rischia di venir presa come un inutile prologo che ritarda il nocciolo del discorso.
Che è, come si dice oggi, “tanta roba”: nientemeno che il racconto degli entusiasmi ribelli di Sophie e Hans Scholl, prima ferventi giovani nazisti e poi altrettanto ferventi antinazisti, fino al gesto eclatante, all’arresto e alla morte. È proprio il concetto che la ribellione si esprima nell’impegno politico a sostenere il progetto; e il fatto che questo impegno si rivolga prima da una parte e poi dall’altra, come nell’esempio dei fratelli Scholl, offre ai giovani spettatori un paradigma straordinario che si aggiunge all’esempio di per sé già importante: si può cambiare idea, si può maturare, ogni persona ha diritto ad altre possibilità. La stessa colonna sonora che sostiene lo spettacolo con le canzoni cantate dai performer esprime una drammaturgia ricercata, perché dopo le prime canzoni più melodiche, da tipico musical, eseguite nella parte più normalizzata e conforme della storia, irrompe un rap diciamo alla Eminem, che sposta l’impostazione verso forme più attuali come quelle dell’innovativo musical di Lin-Manuel Miranda Hamilton, che fonde spettacolarità, rap e storia in chiave politica, unendo la divulgazione storica con un discorso sul presente: ancora una volta, la chiamata all’azione – non a caso un termine attualissimo: call to action – di chi assiste all’opera. Che nell’immediato si manifesta con la richiesta al pubblico di partecipare all’ultimo fatidico lancio dei volantini dei fratelli Scholl (opportunamente distribuiti all’entrata al pubblico), e che in prospettiva auspica quel che si diceva, ossia che l’impeto ribelle trovi la strada della consapevolezza e della responsabilità. Perché – attenzione – la ribellione non è di per sé un valore, come l’autore e regista Salvo Canto sembra voler sostenere: proprio l’esempio iniziale dei nazisti ribelli deve portare a meditare su cosa sia o debba essere la ribellione senza responsabilità o basata su aberrazioni ideologiche e quella che invece si nutre di valori positivi: e forse anche questo può essere uno snodo su cui riflettere. Così come è interessante il fatto che il progetto non sia ancora arrivato con chiarezza a individuare la fine dello spettacolo: proprio su questa fine dovranno riflettere i giovani artisti, ma probabilmente anche i giovani spettatori. La provvisoria domanda finale “come andrà a finire?” mi sembra proprio la fine ideale, una sorta di passaggio di responsabilità sullo scrivere la Storia affidato al pubblico. La fine è la morte dei fratelli Scholl oppure è quella che riscriviamo noi, con il nostro impegno di ribelli responsabili, prendendo il testimone da loro e portando avanti non il loro sacrificio ma il loro entusiasmo?

Responsabilità e apocalisse
La questione del rapporto tra ribellione e responsabilità viene declinata su temi specifici in altri due progetti, che affrontano direttamente due àmbiti al centro dell’attenzione sociale e politica: il lavoro e l’ambiente. Ad affrontare il tema del lavoro è Maìo di Cromo Collettivo Artistico, che in realtà sembra utilizzare questo soggetto non tanto in termini strettamente sindacali o di politica del lavoro, quanto in termini più genericamente esistenziali, recependo impostazioni concettuali e modalità espressive che hanno una lunga tradizione, da Tempi moderni di Chaplin in poi. Lo spazio vuoto accoglie tre figure, fisse nelle loro postazioni, che eseguono movimenti ripetitivi legati alla catena di lavoro in cui sono inserite (visivamente quasi da videogioco) e che riguarda esplicitamente la logistica (devono smistare scatole). Due di loro sono piuttosto ligi alle mansioni, la terza è insofferente alle regole rispettate dai “bro” (con terminologia trendy da adolescenti contemporanei), e si presenta come il punto di messa in crisi dell’ingranaggio. Insomma, è una ribelle, che vuole vedere (rompere) le scatole, scoprire cosa c’è al loro interno, curiosità da cui parte poi tutta una potenziale simbologia in chiave soprattutto esistenziale (il sogno, la propria identità e aspirazione, che però è ‘confezionata’, ecc…). Quello che qui mi sembra utile riprendere è invece proprio la dinamica della ribellione che, in questo caso, arriva sì alla presa di responsabilità, ma poi viene devitalizzata dalla Madre Fabbrica (mi torna inevitabilmente in mente una delle azioni di decentramento di Giuliano Scabia del 1969 a Torino) che parla in voce off (è curioso l’asse femminile tra la pedina ribelle e il Moloch incombente) attraverso le lusinghe e gli incentivi, che portano la protagonista ad aderire completamente al modello robotizzato e conformista, prima di una nuova e definitiva ribellione. Tutto sommato Maìo, che fin dal titolo molto pertinente pone l’accento sulla congiunzione avversativa e sul pronome in prima persona, suggerisce che la ribellione debba partire dalla consapevolezza di sé rispetto a una struttura contestuale preconfezionata da un’entità esterna: un principio che trova idealmente tutti d’accordo e che, proprio per questa ragione, rischia di rimanere più evanescente. Se, prendendo a esempio i due progetti precedenti, Per Atena! e Cuori teneri indicavano la presa di coscienza rispetto a qualcosa di divisivo (sulla necessità di avere sempre più armi e debellare il nemico, come s’è visto, c’è un vastissimo consenso, rendendo l’obiezione di coscienza un gesto eroico; così come non tutti sono disposti a mettere in gioco le proprie vite per un gesto di insubordinazione nei confronti di una dittatura), Maìo corre il rischio di sposare uno degli slogan più ricorrenti del consumismo e proprio della maggioranza conformista, ossia l’originalità dell’individuo che si distingue dalle masse (un classico delle pubblicità): come – riprendendo una riflessione fatta poc’anzi – la ribellione non è di per sé un valore, neanche il volersi distinguere dalla massa è di per sé un valore, e credo che questo possa rappresentare uno spunto di riflessione per portare a termine lo spettacolo.

Il tema dell’ambiente è invece centrale, fin dal titolo, in Earth. Trilogia della fine del mondo di Manuel Di Martino, con il quale entriamo in una declinazione più sottile e implicita, ma secondo me ugualmente portante, della ribellione e della responsabilità. Il progetto prevede uno spettacolo in tre parti (di cui sono stati presentati gli studi relativi solo alla seconda e all’ultima). La prima parte, che riguarda idealmente il passato, dovrebbe vedere in scena alcuni inuit che si confrontano con l’incipiente scioglimento dei ghiacci. La seconda, il presente, vede in scena tre bagnanti al mare in pieno novembre, grazie al cambiamento climatico, che si lamentano del troppo caldo e assistono inermi al sopraggiungere di uno tsunami. La terza, il futuro, ci trasporta all’interno di un grande sottomarino che naviga dopo l’inondazione globale (una sorta di diluvio) in attesa di riemergere, ma si ritrova in un teatro, di fronte agli scheletri degli spettatori d’un tempo, a cui i sopravvissuti si rivolgono inchiodandoli alla responsabilità delle scelte ambientali che hanno portato alla catastrofe. La questione della ribellione e della responsabilità, dicevo, scorre sotterraneamente: in scena non c’è mai ribellione e non c’è mai responsabilità, che invece viene richiesta al pubblico, con una tirata molto dura e in qualche modo eccessiva rispetto alle potenzialità d’impatto, ben sapendo che il problema non è denunciare il disastro ambientale ma agire per risolverlo, ed è questo che gli adolescenti chiedono e chiedono di conoscere. Il progetto, invece, si attesta sulla denuncia, che pure è necessaria e sacrosanta, scegliendo modalità sceniche molto intriganti e sicuramente preliminari a eventuali dibattiti del dopo-spettacolo. Il passaggio dall’inconsapevolezza alla consapevolezza, per esempio, avviene in termini verbali, dalla prima parte espressa principalmente con suoni e poche parole, passando alla seconda giocata tutta su battute brevi a contenuto banale (siamo dalle parti di un classico teatro dell’assurdo o di sketch umoristici) per arrivare infine a una parola che riconquista una centralità di senso, diventando fluviale nella sua urgenza. La stessa scansione, tutta marina (il mare è il punto estremo di fragilità dell’ecosistema), dallo scioglimento dei ghiacci, piuttosto remoto rispetto alla nostra esperienza, per arrivare al rito vacanziero balneare che registra scompensi, fino all’innalzamento dei mari con esiti biblici, impone allo spettatore una riflessione proprio sull’asse temporale che necessariamente diventa conto alla rovescia verso l’apocalisse, con inevitabili sfumature ecoansiogene peraltro. Ma c’è un punto su cui occorrerà riflettere nel prosieguo del lavoro, ossia la dimensione metateatrale evocata nella terza parte, che arriva piuttosto incongrua, ancorché comprensibile proprio nei termini di una chiamata di responsabilità e di un ‘incitamento’ alla ribellione verso le dinamiche del disastro ambientale. L’idea di identificare la platea di adolescenti che vedono lo spettacolo con un teatro frequentato da scheletri (che sono gli spettatori del passato rispetto all’inondazione, e dunque sono esattamente gli spettatori che in questo momento stanno vedendo lo spettacolo) può essere poco efficace e rischia più una trasmissione di disagio che non un invito a ribellarsi e a prendere in mano il futuro del pianeta: rivolgersi a giovanissimi spettatori come a degli scheletri che sono stati incapaci di affrontare il problema dell’ambiente rischia la reazione della paralisi e del rifiuto piuttosto che quella della consapevolezza e dell’azione.

Responsabilità ed esistenze
Infine, due progetti affrontano il tema della ribellione e della responsabilità entrando nell’intimità dell’esistenza individuale, apparentemente lontani da questi concetti che invece mi sembrano estremamente pertinenti. It’s a match! di Micol Jalla prefigura un futuro distopico (ma non troppo, perlomeno nell’impostazione ideale) in cui figli e genitori possano scegliersi a vicenda tramite una app di incontri. L’idea è originale e spiritosa, oltre che inquietante ovviamente, e viene sviluppata con la scelta reciproca di una ragazza e di una madre che, dopo molte ricerche e swipe, si sono ritrovate condividendo alcune cose e quindi progettando la vita insieme. La critica ai dispositivi tecnologici come surrogati di esperienza reale, e addirittura come mezzi condizionanti le relazioni e quindi la vita, è evidente, ma non è questo il punto centrale del progetto, che è semmai un discorso sulle relazioni, cioè sulle relazioni come terreno di incontro con l’ignoto e dunque come scoperta, dove il rapporto tra aspettative e realtà deve trovare necessariamente un punto di sintesi… semplicemente perché così è la vita, che nessuno strumento e nessuna scorciatoia può sostituire. Il progetto di Micol Jalla prevede che dopo la scelta tramite app la neo-famiglia decida di allargarsi sempre con la app ma affidandosi stavolta non al match (cioè alla combinazione perfetta di due individui) ma alla casualità, che è poi il metodo naturale delle cose. Insomma, l’esperienza disumanizzata della app porta a ripudiare la scorciatoia tecnologica per ritornare alla problematicità della vita reale: non si sa se il fratellino sarà quello ‘perfetto’, ma sarà quel che le relazioni sapranno alimentare. Il punto non è predeterminare la relazione con la persona ‘sicuramente’ giusta, ma sapere come convivere con la persona che solo il tempo e il confronto mostrerà di essere quella che la vita ha assegnato al proprio fianco: il vero match sta nella vita, non nel mondo digitale, insomma. È evidente, allora, che mantenendo la barra dritta su quello che ho individuato come il tema comune a Scenario adolescenza, la questione della ribellione e della responsabilità ritorni con forza. La ribellione invocata da It’s a match! è quella che si richiede rispetto a modelli prescritti dall’impero del digitale e non solo: ribellione rispetto a decisioni aliene – vuoi da una macchina, vuoi da un sistema – che puntano a sottrarre all’individuo il valore dell’esperienza e dell’azione. E la responsabilità è quella che drammaturgicamente sono proprio i personaggi della madre e della figlia a prendere spezzando la catena della app a cui demandare la felicità e scegliendo la strada ignota, dove non si sa se avremo davvero la felicità che sogniamo, ma di sicuro sappiamo che dovremo farci carico della responsabilità di perseguirla. La responsabilità, insomma, non demandata a qualcuno o qualcos’altro, ma assunta in piena consapevolezza.

Proprio questa strada ignota, verso una felicità tutta da costruire con fatica con le proprie mani, è descritta in Tinta – una storia autobiografica di Eleonora Cicconi e Verdiana Vono, progetto vincitore di questa edizione del Premio Scenario adolescenza. Una storia così straordinaria e al contempo tanto ordinaria, che riunisce in sé – nel corpo e nell’esistenza della protagonista – la ribellione e la responsabilità. La storia è doppiamente autobiografica e doppiamente vera, e si sviluppa su due diversi piani temporali. La prima è quella della 16enne Tinta, soprannome dispregiativo dato negli anni del dopoguerra a una ragazza siciliana, una non conforme, per così dire, che sposa per procura un italiano in Canada e quindi attraversa l’Atlantico in nave per la sua nuova famiglia, meglio di quella di partenza ma tutt’altro che felice; e che pure nelle difficoltà di migrante e di donna sottoposta a dinamiche patriarcali repressive riesce a trovare una modalità di emancipazione attraverso il lavoro di sartoria: un vero e proprio pezzo vibrante di storia delle donne (tema ricorrente nel lavoro dell’autrice e regista Verdiana Vono a cui Eleonora Cicconi ha affidato la sua storia e la sua presenza scenica) e di storia dell’Italia degli anni ’50/60. La seconda è quella della nipote che si fa raccontare tutto quanto e che vediamo davvero in scena, testimone e garante di tutto quel che viene narrato, pronta a impersonare sia la nonna ragazza e la sua avventura esistenziale, sia sé stessa altrettanto 16enne in viaggio ideale verso il Canada per seguire il percorso di sessant’anni fa. Qualcosa di tangenziale rispetto al teatro di narrazione e al teatro documentario, che si nutre dei due registri drammaturgici per connettersi fortemente all’attualità, dove l’epopea dei migranti è urgenza quotidiana e dove l’oppressione della donna è allarme sociale.
È il racconto di una migrazione, è il racconto di un’emancipazione, ma è anche, inatteso e tagliente, il racconto di un abuso sessuale, che probabilmente potrebbe essere stato alla base del soprannome di dileggio per cui aver subito violenza diventa agli occhi di una società patriarcale segno di donna di facili costumi anziché di vittima. Ed è un racconto di ribellione e di auto-affermazione nel momento in cui Tinta a soli 16 anni coglie l’occasione del salto nel vuoto della proposta di matrimonio con uno sconosciuto, prendendo in mano la sua vita. Ed è un racconto di responsabilità quando, incappata nuovamente in un reticolo di oppressione, sceglie un umile ma orgoglioso percorso di emancipazione, tutto femminile, e dunque identitario e alla fine vincente, come dimostrano i documenti (l’audio delle registrazioni di Tinta oggi, le foto di lei in Canada), e come dimostra con la sua stessa presenza Eleonora, che dialoga con la nonna da coetanea a coetanea, verrebbe da dire, raccogliendo il testimone affinché la micro-storia della quotidianità di una ‘ultima’ della scala sociale venga riconosciuta come parte della macro-storia fatta solo di nomi e cose maiuscole. E così Tinta emerge con pathos nel racconto fisico della performer, impegnata a manipolare per tutto il tempo una grande fune che esce dalla valigia in una lunga serpentina, diventando di volta in volta ricamo o manette, e che nella sua semplicità materiale simboleggia un’infinità di cose: la nave del viaggio, il lavoro sartoriale, i legami che imprigionano, il filo narrativo. Forse ciò che andrebbe ulteriormente sviluppato non è tanto la storia di Tinta, che il progetto mette bene a fuoco, ma il rimbalzo di questa storia in Eleonora, non tanto in quanto nipote ma soprattutto in quanto ragazza degli anni 20 del secolo dopo. Perché proprio questo è il punto nevralgico del progetto, la possibilità di una formidabile triangolazione tra teenager: la 16enne Tinta, così antica (il matrimonio per procura! la nave! la sartoria!) eppure così moderna per la sua volontà di libertà e di affermazione; la 16enne Eleonora (sia pure nella finzione rispetto all’attrice ventenne), che raccoglie la testimonianza e la fa propria con tutta la curiosità e la sorpresa del caso, fino a esserne narratrice e garante; e i e le 16enni e teenager che assistono allo spettacolo e che sono chiamati non solo e non tanto a conoscere questa storia, la storia delle donne o la storia d’Italia, ma soprattutto a comprendere come la propria esperienza si possa riflettere in quella di altre coetanee ricevendone stimoli. Al di là di possibili esempi concreti e auspicabilmente rari (come per esempio la questione della violenza o dei pregiudizi), è la scelta di Tinta che può toccare in maniera potente i teenager di oggi, cioè il suo voler e saper scegliere: ribellione e responsabilità, appunto. E per farlo è necessario che questo passi attraverso Eleonora, che forse può aggiungere al suo essere (nel progetto attuale) semplice testimone anche il suo diventare ‘sobillatrice’ di ribellione e di responsabilità.
CREDITI
Sea Dogs Plus, C.I.U.R.M.A.! – Pendagli da forca; di e con Francesco Bianchi, Silvio Impegnoso, Arianna Primavera; drammaturgia Francesco Bianchi, Silvio Impegnoso. Cecilia Bartoli, India; di e con Cecilia Bartoli; regia Federico Ghelarducci; scenografia Cri Eco; sagome Cecilia Bartoli; luci Gerardo Bagnoli. Le Scimmie, Per Atena!; di Ciro Burzo; regia Carlo Geltrude; con Ciro Burzo, Carlo Geltrude; aiuto regia Anna De Stefano; costumi Rachele Nuzzo; allestimento scenico Geltrude/Burzo; audio e luci Mario Ascione; compositore musiche Gheto Soffittaman. Manuel Di Martino, Earth. Trilogia della fine del mondo; ideazione e regia Manuel Di Martino; drammaturgia Manuel Di Martino, Gianluigi Montagnaro, Antonio Turco; con Pasquale Aprile, Francesca Cercola, Gianluigi Montagnaro. Micol Jalla, It’s a match!; regia e drammaturgia Micol Jalla; con Martina Montini, Letizia Russo e alcune voci; dramaturg Giulia Trivero; suono Filippo Conti; costumi Katarina Vukcevic; scene Rosita Vallefuoco; scenografa realizzatrice Simona Petrucci; luci Gianni Bertoli; assistente alla regia Nicolò Tomassini; tecnico Matteo Chenna. V.A.N. Verso Altre Narrazioni, Lino e Lone; regia e drammaturgia Ornella Matranga; attori Gabriele Manfredi, Gabriele Rametta; ricerca e composizione musicale Andrea Di Falco. Natiscalzi DT, Cosa hai in testa?; regia e coreografia Claudia Rossi Valli; con Claudia Rossi Valli, Elena Grappi. Cromo collettivo artistico, Maìo; idea e soggetto Cromo collettivo artistico; regia Ivo Randaccio; dramaturg Tommaso Burbuglini; supervisione Eleonora Pace; interpreti Arianna Serrao, Valerio Sprecacè, Andrea Perotti; voce Chiara Sarcona. Cicconi/Vono, Tinta – una storia autobiografica; da un’idea e una storia autobiografica di Eleonora Cicconi; drammaturgia e regia Verdiana Vono; con Eleonora Cicconi. Misfatto a Palazzo, Cuori teneri, anime forti: l’avventura antinazista dei fratelli Scholl; regia drammaturgia e testi Salvo Canto; soggetto Arianna Vinci; interpreti e manovratori Salvo Canto, Sara Cilea, Arianna Vinci; scenografia e figure Salvo Canto; costumi e video mapping Sara Cilea.
Visti a: Premio Scenario infanzia e adolescenza 2024, Festival Scenario, Bologna, DAMSLab, 2-3 settembre 2024.
Tutte le foto degli spettacoli sono di Malì Erotico.