Nelle cucine d’un tempo campeggiavano in bella vista i calendari: grandi fogli di carta, ciascuno per un mese, con righe in bianco in corrispondenza di ciascun giorno. Ce ne sono ancora, e come succedeva un tempo, c’è ancora qualcuno che si appunta cose da fare o fatte, con una o due parole in stampatello o corsivo stentato, con colori vivaci, come appunti mnemonici intellegibili spesso solo a chi li ha scritti, a causa di parole-chiave enigmatiche o sigle o riferimenti concentratissimi a complessità che richiederebbero pagine di spiegazione. A riguardare i fogli dei mesi passati si apre una vertigine di rapidissime schegge di memoria che si stratificano fotografando il tempo come lo scorrere incalzante di misteriosi frame di un flip book impazzito. Forse Mara, la protagonista e ispiratrice di questo libro, ha preso l’agenda regalatagli dal figlio adolescente come se fosse un calendario perpetuo: non tanto un diario dove rispecchiarsi e a cui raccontare la propria vita e i propri sentimenti, ma un calendario in cui appuntare parole-chiave per fermare grandi e piccoli avvenimenti e restituirli nel flusso circolare di un calendario biografico. Un almanacco.
Gli anni di Mara è il libro che ‘scioglie’ l’ermetismo della memoria di Mara nella rievocazione narrativa del figlio, Marco Barbieri Bottoni, che dopo la morte della madre ha scoperto accidentalmente il suo diario (sì, sembra il classico espediente letterario del ritrovamento del manoscritto…): quell’agenda che le aveva regalato, e sulla quale Mara aveva appuntato nei vari giorni altrettanti micro-ricordi, in pochissime parole accompagnate dall’anno, in modo che in ogni pagina-giorno si accumulassero i ricordi dei vari anni, ciascuno in una sola, fulminante riga. Anzi, “rigo-verso”, come li chiama Marco, che prende alcuni di questi per spiegarli prima di tutto a sé stesso, facendo erompere da quel breve rigo-verso una colata di ricordi che dal piccolo evento in sé tracimano un po’ ovunque, come in un flusso di rimembranza sovraccaricato di consapevolezza attuale, di sguardo odierno su cose remote e su tempi creduti archiviati.
E così il libro è un po’ diario (ermeticissimo) di lei e un po’ diario a posteriori di lui: un atto d’amore per la madre in una sorta di ‘dialogo impossibile’, che lo riporta a quel nido familiare e sociale rivisto ora con affetto, curiosità e anche sguardo tagliente. D’altronde, siamo a Vada, piccolo paese-soglia tra la Maremma e Livorno, località balneare immersa contradditoriamente in campagna (raccontata in descrizioni fulminanti), terra fina e ruspante, che l’occasionalità biografica fotografa tra gli anni ’50 e il primo decennio del nuovo secolo. In fin dei conti Gli anni di Mara è anche un attraversamento della società italiana di questi decenni dall’avvento degli elettrodomestici a quello dello smartphone, visti dalla prospettiva dimessa ma acuta di una famiglia tra il proletariato e la piccola borghesia, in un’area ‘diversa’ rispetto a quelle più riconosciute dalla narrativa italiana o dal cinema (e no, non aspettatevi qualcosa tipo Ovosodo e Virzì, nonostante le schegge vernacolari del parlato, le “ciucianate” e le “grullerie”), e in una straordinaria condizione di cerniera (pasoliniana, mi verrebbe da dire) tra le radici di un passato complesso, dove il contadino e l’operaio testimoniano tuttora una saggezza arcaica, e l’evidenza di un presente da ridefinire e ricodificare, una modernità che non spaventa ma che viene ricondotta e tradotta nei termini ‘epistemologici’ saldamente utilizzati da Mara e chi la circonda. Per dire, in occasione dell’appunto diaristico “Scelta parrucca con la Livia 1996” Marco ci racconta l’incontro di Mara con il cancro della cognata e la chemioterapia, che scivola poi nel riconoscimento dell’omosessualità del figlio; e se ancora Mara, “irrequieta conservatrice”, non riesce a usare parole moderne per verbalizzare il cancro e l’omosessualità, lo sforzo di comprensione – e quindi di accettazione – di entrambi ci racconta l’accorata complessità di una trasformazione personale e collettiva, nella quale possiamo riconoscere quella di tante persone che si sforzano sinceramente di superare i pregiudizi senza riuscire ancora a parlare una nuova lingua. Che è quella, invece, che Marco mette spesso a confronto nei momenti più delicati e magari non espressi esplicitamente, soprattutto rispetto alle proprie scelte di vita – l’omosessualità, le scelte esistenziali di Bologna e Roma – che lui ritrova spesso solo alluse o implicite nelle poche parole quotidiane di Mara, come “Arrivata cartolina di Marco da Parigi 1978” o “Tornato Marco da Pisa stata tanto in pensiero 1978” scritta il 16 marzo, il giorno del rapimento di Aldo Moro.
Proprio l’esempio di Moro mostra gli incredibili cortocircuiti tra la grande Storia e gli accadimenti quotidiani, profondamente intrecciati e sempre in funzione della ricaduta nel cerchio intimo della famiglia, dove alla fine la strage del 2 agosto o il crollo delle torri dell’11 settembre non meritano menzione, al contrario dell’avvistamento della prima rondine di primavera, che viene metodicamente registrata tutti gli anni. Come scrive l’autore, i rigo-versi della madre sono “fuochi d’artificio sparati nel buio della casualità che fa girare il mondo”. La storia familiare e la Storia universale ridotte al gioco beffardamente tenero del caso. Alternando e perfino mescolando la vita e la morte, il dolore e la risata, la devozione e la superstizione, la fabbrica e la politica, il cacciucco e la sartoria… raccogliendo tutto nelle due parole che chiudono il volume e che sintetizzano l’emozione dell’autore e quella – si spera – del lettore: “dolce dolore”.
Gli anni di Mara è insomma tante cose: romanzo biografico, ma anche autobiografico per Marco che, grazie agli appunti della madre, rievoca diversi momenti salienti della propria vita, come in un continuità con le sedute psicoanalitiche (la propria memoria stuzzicata dalle parole della madre… basterebbe l’impostazione stessa! E del resto il rapporto madre-figlio è descritto come “un geyser di comicità”). Ed è anche saga familiare, con le stirpi dei Barbieri e dei Bottoni che come le questioni di genere tra maschile e femminile si incontrano e scontrano nel figlio, “vittima di una famiglia felice”, fino a riportare nel proprio nome in copertina entrambi i cognomi, come a saldare una ricongiunzione e ad assumere su di sé l’onere di quella memoria che viene da molto lontano e alla quale è stato ‘costretto’ a ritornare – dopo averne lasciato il territorio – grazie al provvido ritrovamento.
La lettura del libro è affascinante perché trascina il lettore in questa suggestiva stratificazione, dove il tempo passato si presenta prima come una miniera di frammenti, direi di micro-reperti archeologici, e poi come la ricostruzione paziente e appassionata di quei frammenti in storie, forse anzi sicuramente interconnesse, ma non in storia. Il libro, infatti, è strutturato esattamente come l’agenda, i capitoli sono i giorni da gennaio a dicembre, e per ognuno troviamo uno o più rigo-versi seguiti dalla narrazione di Marco. In questo modo può capitare di ritrovare una persona o una medesima successione narrativa in momenti diversi, ma magari a cronologia invertita: può capitare di rievocare la morte di qualcuno in febbraio, nelle prime pagine del libro, e poi di ritrovarlo vivo in qualche situazione in settembre in corrispondenza di un anno antecedente.
Il libro si presenta, insomma, come un puzzle da ricostruire o una mappa da decifrare, dai collegamenti sbilenchi come negli intrecci dell’Antologia di Spoon River (e ce n’è di Spoon River qui dentro tra la famiglia e gli amici, magari scomparsi per l’Aids come Stefano, sul cui ricordo viene scritta una pagina di straziante umorismo), e perciò con una ricca vitalità. Il meccanismo anti-narrativo è sottile, perché sottrae la vita di Mara, del marito Lido, dei tanti parenti e amici che affollano queste pagine, alla Storia. Non viene mostrato uno sviluppo evolutivo in ordine cronologico. Il tempo non è un flusso coerente che inizia e finisce, non è una direttrice. È un cerchio. Come un calendario, come un almanacco. Il ricordo è strappato al flusso della Storia ed è immerso in un fluire ciclico della vita, dal sapore più orientale che occidentale, scandito dalle caratteristiche legate a ciascun giorno: e così la lettura sa meno di diario, di romanzo autobiografico, di memoria, e più di breviario, di accompagnamento quotidiano, un po’ come l’oroscopo mattutino. Un nuovo lessico famigliare, ma esploso in schegge temporali che riemergono come frammenti tanto immersi nel tempo a cui sono legati quanto svincolati da esso, lanciati in un tempo diventato mito, un non-tempo in cui galleggiare, tra quel passato, anzi tra quei passati – anno per anno – e il presente della voce di Marco che li fa riemergere.
Più che la prosa biografica di Natalia Ginzburg (o il Palazzeschi delle Sorelle Materassi, per dire), viene in mente la poesia. Vengono in mente certi “righi” di Giorgio Caproni, i Versi livornesi appunto, e forse è opportuno ricordare che gli esordi di Marco sono stati nella poesia. Ad affascinare, infatti, è proprio questa sensibilità da poeta e da lettore di poesia verso i “rigo-versi” della poesia inconsapevole della madre (ma con certe metriche estemporanee meravigliose: che dire del bel novenario “Fiorita la rosa di Lido 2011”?), con il tocco delicato e però preciso e profondo con cui osserva – anzi ri-osserva – i rituali della madre, della famiglia e del paese. Una sensibilità capace di cogliere in ciascuna delle parole della madre una densità stratificata che spalanca voragini di senso, romanzi, enciclopedie, scibili… ogni parola di Mara, la sarta del villaggio, che non legge libri e non conosce le parole per interpretare la realtà, contiene mondi. E contiene il mondo futuro di Marco che oggi scrive. E contiene, anche solo per un frammento, anche solo per un attimo, anche il nostro mondo.
Marco Barbieri Bottoni, Gli anni di Mara, Bologna, Pendragon, 2024, pp. 288, euro 16.
