Lo scandalo e la difesa

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Il festival di Santarcangelo di quest’anno ha avuto una coda di polemiche dovute alla performance (untitled) (2000) di Tino Sehgal, eseguita da Frank Willens in uno spazio all’aperto, che dopo aver attraversato in una sorta di compendio la danza del XX secolo, si concludeva con il performer che diventa “fontana” facendo la pipì. E’ appunto questo istante ad aver innescato una polemica che ha portato la direttrice artistica del festival Silvia Bottiroli a scrivere una dettagliata difesa dell’opera e della sua scelta.

Santarcangelo, come ogni angolo di questa Italia che sarebbe così straordinaria ma che purtroppo gode nel presentarsi asfittica, è bersaglio privilegiato dell’idiozia becera di pochi innocui dementi, di più numerosi avvoltoi politicanti e soprattutto di una masnada di giornali e giornalisti che montano casi insulsi. Nella mia breve esperienza di lavoro nella squadra tecnico-scientifica di Santarcangelo, sotto la direzione artistica di Antonio Attisani (ormai oltre 20 anni fa), ricordo molto bene il linciaggio mediatico-politico su una certa scelta artistica “scandalosa”, quando nell’ambito di una giornata su teatro e carcere l’annuncio della presenza di un video di uno spettacolo ispirato a Kokoschka e realizzato nel carcere di Livorno da alcuni detenuti tra cui l’autore-attore Mario Tuti (terrorista neofascista), suscitò una reazione isterica che rese impossibile la proiezione.

Proprio per questo sono non solo solidale col festival (ça va sans dire, e mi vergogno anzi che si debba manifestare solidarietà a un festival per le sue scelte artistiche!), ma trovo le parole di Silvia Bottiroli​ di grande puntualità, intelligenza e capacità analitica. C’è un passaggio di questa dichiarazione su cui mi sono soffermato più a lungo: quando la direttrice artistica confessa di non essersi aspettata la polemica, al contrario di un altro spettacolo, su cui invece la polemica non è poi arrivata. E’ un punto cruciale, secondo me, per comprendere non tanto quel che è accaduto, né tantomeno il festival di Santarcangelo, ma proprio lo “stato delle cose” attuale, che si intreccia con l’acuta riflessione di Massimo Marino​ uscita poco prima su Doppiozero (e che, non a caso, ricorda proprio lo scandalaccio di vent’anni fa a Santarcangelo).

Come è possibile che non ci si renda conto che nella meravigliosa-Italia-che-desidera-essere-asfittica un uomo nudo in piazza, per giunta con pipì conclusiva, è pane per i denti di un sistema mediatico infangante, che ha buona presa su un pubblico che è stato abituato a non interrogarsi e a digerire ogni idiozia come verità? (e magari ad accettare in piazza solo il “consueto”, il “buffo” e le sentinelle in piedi…?) Non dico che la direttrice artistica sia stata ingenua: dico che avrebbe dovuto immaginare che il festival di Santarcangelo (come ogni altro festival o ogni altro spazio d’arte) non è un’isola felice di libertà artistica, ma un pezzo di questa Italia, e che qualsiasi cosa si faccia qui non riguarda solo gli interessati addetti ai lavori o i simpatizzanti, ma anche quel sottobosco di incolti professionisti dello scandalismo che stanno a spiare ogni mossa. E allora, è inutile giustificare in nome dell’arte, come accade da copione da decenni: tutte le volte, a ogni scandalo, ci adoperiamo a riempire pagine di spiegazioni della poetica dell’artista, con tanto di medagliere per dimostrare la sua qualità professionale. Forse è l’ora di andare a muso duro, perché spiegare non serve più, perché spiegare è umiliante: umiliante per gli artisti, umiliante per l’intellettuale che deve spiegare, umiliante per l’intelligenza degli spettatori e della gente comune. Ed è quello che i professionisti dello scandalismo vogliono: umiliare. Ridurre l’arte a qualcosa che va giustificato di fronte alla “ggggente”. E allora, dovremmo iniziare a controbattere alle polemiche, alle richieste di giustificazioni e scuse, in una maniera diversa: l’arte non si giustifica e non si commenta, vi si assiste, ci si dialoga, la si interpreta; quello spettacolo parla per sé e non deve rendere conto a nessuno se non all’onestà intellettuale dell’artista. Punto. (il che non deve impedire analisi e anche critiche, ovviamente). Non possiamo e non dobbiamo riconoscere questi personaggi come interlocutori: ci dobbiamo rifiutare di scendere a compromessi con la volgarità. Smettere di spiegare. Lasciare abbaiare i cercatori di sangue e continuare per la propria strada, reclamando il diritto dell’arte senza che debba essere giustificato. L’umiliazione del dover giustificare la libertà dell’arte va di pari passo con l’umiliazione del dover giustificare il diritto degli omosessuali a veder riconosciuta la loro parità a tutti i livelli della società: non c’è giustificazione possibile nell’arte, non c’è giustificazione possibile nei diritti: affrontare la questione in questo modo dà già un punto di vantaggio agli avversari dell’arte e dei diritti.

Detto questo, capisco perfettamente le ragioni “politiche” (o meglio, di convenienza politica) della dichiarazione di Silvia Bottiroli, è ovvio: ma anche su questo occorrerà ragionare per i futuri, inevitabili scandali che l’arte porterà nel suo cammino. Scandali? Il vero scandalo, fa notare la direttrice artistica, sarebbe stato ciò che invece non ha fatto scandalo: la sottile azione di declamazione neonazista Breivik’s Statement di Milo Rau. E anche su questo ci sarebbe da riflettere. Ma anche qui Silvia Bottiroli pecca di sopravvalutazione: come pensare che le dichiarazioni di Breivik, lo stragista di Utøya, possano suscitare scandalo, quando le sentiamo quotidianamente riecheggiate (sia pure in forma fintamente edulcorata) da Salvini, CasaPound e sodali, nella cornice mediatica che le rende automaticamente autorevoli, degne di essere pronunciate? Se Salvini può offendere volgarmente con l’avallo di chi dà una cornice autorevole alle sue dichiarazioni, se il sindaco di Venezia può impunemente avviare l’espulsione e il rogo virtuale dei libri “non graditi” dalle biblioteche, e se tutto questo e altro ancora entra in una grande digestione mediatica in cui si può dire di tutto, dove mai potrebbe stare lo scandalo nelle parole di Breivik?

L’arte sta perdendo la sua capacità di creare scandalo (ma questa volta nell’accezione evangelica, e quindi pasoliniana) perché la realtà è scandalosamente stupefacente e perché alcuni cronisti sono più spesso attratti dallo scandalismo. L’arte deve forse tornare a essere inspiegabile, ingiustificabile, vertiginosa, incurante delle beghine dello scandalismo (pisciargli sopra, mi verrebbe da dire, e passare oltre) e di quel “reale scandaloso” che – se riprodotto – non scandalizza nessuno. Il vero scandalo è il profondo scuotimento della coscienza. E’ far intravedere l’abisso, che è esattamente ciò che la nostra società non ci vuole più mostrare se non in forma posticcia. E se anche gli artisti dello scandalo vero oggi sono pochi o non ci sono, l’arte deve perlomeno reclamare il proprio diritto-dovere a essere inspiegabile (ineffabile, si diceva un tempo): interpretabile certo, ma inspiegabile. E lasciare che il getto di pipì nella pubblica piazza di un artista faccia parlare, faccia tremare di gioia i professionisti dello scandalismo per i loro giochetti di basso profilo, senza che questi possano ricevere la benché minima parola di spiegazione o giustificazione: la benché minima parola da parte di chi si occupa di cose serie.

Ciò detto, passo oltre (cit. Mario Mieli)…

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