
Se si parla di cinema politico, Peter Watkins ne è forse il rappresentante più lucido e coerente, cioè colui che non solo ha affrontato di petto questioni «urgenti» dell’agenda politica (la guerra, il nucleare, il potere, il ruolo dei media nella creazione del consenso), ma lo ha fatto forzando i codici stessi della cinematografia, prima inventando generi che in seguito sono diventati di successo come il docu-drama e il mockumentary, poi criticando sia con i film che con le sue riflessioni teoriche l’intera industria dei mass-media. E’ forse strano che un intellettuale come questo, tra l’altro vincitore di un premio Oscar, sia tenuto ben lontano dall’Italia? A parte la sporadica distribuzione in pellicola di due soli suoi film, un ciclo monografico in tv nell’estate 1980 (in prima serata su Rai 1: davvero altri tempi!), e un libro uscito nel 2009 sulle sue analisi massmediologico-politiche (La scomparsa dell’orologio universale di German A. Duarte, ed. Mimesis), Watkins rimane nel nostro paese uno sconosciuto. Ma, forse mai come in questi ultimi anni in cui il rapporto tra i media e il potere ha mostrato in Italia il suo volto più feroce, le riflessioni di Watkins sono importanti, così come sarebbe finalmente utile far circolare i suoi film, vero e proprio mosaico non solo libertario o di denuncia, ma potentemente e frontalmente nemico di ogni sistema di potere.

Nato nel 1935 in Inghilterra, Peter Watkins ha compiuto già nella sua opera prima del 1964, Culloden (in italiano L’ultimo degli Stuart – La battaglia di Culloden), un balzo da gigante: una fiction televisiva commissionata dalla Bbc, che doveva rievocare l’ultimo scontro campale combattuto in territorio britannico nel 1746. Watkins strappa Culloden dalla memoria ammuffita delle pagine di storia, «inventando» il docu-drama: cioè inserisce la ricostruzione dell’evento storico in una cornice da servizio giornalistico televisivo. Con la telecamera sempre in spalla, che si muove freneticamente sul campo di battaglia, tra interviste «in presa diretta» a ufficiali, soldati e poveri contadini del ‘700 (tutti attori non professionisti, caratteristica costante in tutti i suoi film), e corse per sfuggire ai colpi di fucile o di cannone, Watkins fa entrare lo spettatore nell’evento come se l’atrocità della battaglia stesse accadendo in quel momento e non due secoli prima. Di colpo, Culloden crea un sorprendente corto circuito con le immagini della guerra in Vietnam che entravano in quei mesi nelle case degli inglesi attraverso la tv; di colpo, i morti scozzesi del ‘700 hanno il volto spaurito dei contadini vietnamiti; di colpo, il film annulla decenni di ricostruzioni di battaglie per presentare una cosa nuova: la guerra nel suo farsi in quel preciso istante, sotto gli occhi di un telereporter che schiva le pallottole e intervista i soldati terrorizzati; di colpo, l’assurdità di quella guerra diventa quella di tutte le guerre, e la «responsabilità» ricade direttamente sullo spettatore che sta guardando.

L’anno successivo Watkins alza il tiro, sia sui contenuti, sia sulla tecnica. Non più docu-drama, The War Game, sempre commissionato dalla Bbc, apre la strada al mockumentary, il falso documentario. Il regista immagina un bombardamento nucleare sull’Inghilterra da parte sovietica, e lo descrive sempre nel suo stile telegiornalistico, con telecamera a spalla e interviste. Il film è sconvolgente e il governo ne blocca la messa in onda, primo episodio di una lunga storia di bandi e censure patite ovunque da Watkins: troppo pericoloso far riflettere gli spettatori sulla corsa agli armamenti; troppo imbarazzante sentire dichiarazioni vere e dati esatti riferiti incongruamente sotto le esplosioni; troppo estreme le descrizioni del collasso della società, con le radiazioni, la distruzione di ogni infrastruttura e la polizia che spara sulla popolazione per contenere i disordini. Nonostante la vincita del premio Oscar nella categoria (con mossa involontariamente ancor più politica) dei «documentari» e nonostante l’ampia diffusione (divenne un cult nei campus americani in rivolta di quel periodo e inaugurò il culto della «camera a spalla»), The War Game fu bandito dalla tv inglese per ben vent’anni, e nel nostro paese (dove, dopo la vincita dell’Oscar, fu acquistato dalla Rai, che se ne guardò bene dal trasmetterlo) arrivò solo nel 1984 grazie all’Arci, con il titolo War Time.

La goccia che fece traboccare il vaso delle relazioni tra Watkins e l’Inghilterra, e che fece abbandonare per sempre al regista il suo paese, fu il primo film pensato direttamente per il cinema: Privilege (1966), l’unico altro lavoro di Watkins distribuito in Italia. Qui il tema si sposta sugli intrecci tra il potere e la sempre più dilagante cultura pop giovanile, che proprio l’Inghilterra aveva rilanciato con i Beatles e l’affermarsi di subculture trendy dai mods ai rockers. Protagonista di questo film-apologo è un cantante «ribelle», blandito e infine risucchiato dai poteri forti: non solo quello politico, ma anche quello religioso ed economico. Così la pop star (impersonata da un vero cantante, Paul Jones che – ironia della sorte – in seguito passerà davvero dal pop alla chiesa) si ritrova a essere un semplice burattino nelle mani di chi vuole convogliare le masse di giovani attraverso un finto ribellismo verso il consenso e l’omologazione.
Nel 1969 Watkins realizza in Svezia I gladiatori, una delle allegorie cinematografiche più amare sulla guerra. In questa utopia fantascientifica cruda e beffarda, il mondo è pacificato e convoglia l’aggressività in olimpiadi belliche: capi di stato e generali si riuniscono in una sala comandi, disponendo le truppe (vere in veri campi di battaglia) a mo’ di risiko e guidandole a distanza. Loro, i potenti, al caldo e a farsi i complimenti per le «mosse»; gli altri, i «gladiatori», in trincea, a morire.

La guerra, con stretto riferimento all’attualità del Vietnam, è un bersaglio ossessivo su cui Watkins ritorna approdando proprio negli Usa, dove nel 1970 realizza l’impressionante Punishment park (La punizione). Nel film, i pacifisti americani vengono confinati in un campo in pieno deserto e sottoposti a un processo farsa al termine del quale sono invitati a un gioco: scappare nel deserto verso la libertà, ma inseguiti dai soldati che potranno ucciderli. Un film ansiogeno e claustrofobico, nonostante gli spazi aperti: una caccia mortale al pacifista, insomma, che è la faccia grottesca dello stato di emergenza instaurato da Nixon per fronteggiare la contestazione interna. Immaginabili le reazioni dell’establishment di fronte a questo film in cui i meccanismi del cinema-verità e del finto documentario piombano dentro un’allegoria che sferra un durissimo atto d’accusa alla repressione della libertà.
Tornato in Svezia, Watkins firma Edvard Munch (1973), film biografico sul pittore, in cui il racconto sovrappone ossessivamente i piani temporali. Le riprese sono spiazzanti: sempre ravvicinate al primissimo piano e al dettaglio, a indagare volti e frammenti di quadri, con il ripetuto sguardo in macchina degli attori che mette in gioco chi guarda. Apparentemente lontano dai suoi temi abituali, questo film permette al regista non solo di intessere una fitta corrispondenza con l’attualità, ma anche di sperimentare nuovi modelli creativi: molti dialoghi, infatti, sono improvvisati dagli attori (sempre non professionisti). L’esperimento sarà replicato più avanti con una biografia di Strindberg, ancor più radicale nelle modalità creative, dal titolo The Freethinker (1994) e dall’ormai quasi consueto esito di film bandito dalle televisioni.

Dopo una pellicola indirizzata all’analisi della società contemporanea (The Seventies People del 1974 sui suicidi tra i giovani danesi), il nuovo bersaglio è l’energia nucleare, con Aftenlandet (Un paese al tramonto, 1976), uno dei lavori più estremi e spietati, più scioccanti e politici, più cupi e caotici di Watkins. Nel film si immagina che gli operai dei cantieri di Copenaghen scendano in sciopero bloccando la costruzione di un sottomarino destinato a portare missili atomici. Lo sciopero, la repressione della polizia, le ambiguità del potere, i gruppi terroristici che sequestrano i leader politici: un crescendo di stimoli davvero impressionante e «disturbante», ben sintetizzato da quel che scrisse un critico: «Quando imparerà Watkins a smettere di spaventare il pubblico?». Il film raccolse un coro quasi unanime di attacchi, dalla stampa conservatrice come da quella di sinistra che accusava il regista di parteggiare per i terroristi anziché per gli operai. Inutile accennare al fatto che un progetto attivato con la Rai subito dopo, nel 1977, per un film su Marinetti fu immediatamente abortito.
Il progetto successivo, The Journey (1986), è clamoroso, e non solo per la durata del film (14 ore e mezzo). Si tratta del primo film «globale», girato in molte parti del mondo tra Europa, America e Australia, di denuncia della guerra e degli armamenti nucleari, e soprattutto del ruolo dei mass media nella falsificazione e manipolazione delle informazioni: film rigorosamente indipendente, visto che ogni domanda di produzione fu respinta ad ogni latitudine, e sostanzialmente anarchico nella concezione della realizzazione a cui collaborarono attivamente decine di persone in una modalità di creazione collettiva diffusa. Scopo del film è dimostrare come in ogni paese la gente sia totalmente tenuta all’oscuro dei pericoli che minacciano la pace.

E’ diventato dunque il sistema della comunicazione il vero obiettivo dell’attacco sferrato da Watkins: obiettivo che si concentrerà sempre più negli anni successivi e che avrà un nuovo importante esito nel suo film più recente, girato nel 1999. Si tratta di La Commune (Paris 1871) ovvero quasi 6 ore (ma girato in sole due settimane dove sorgevano i vecchi studi di Méliès) per raccontare un evento-chiave della storia europea, visto da Watkins come essenziale per affrontare la lettura del mondo occidentale contemporaneo. Da qui, la necessità di coinvolgere gli attori non professionisti nella preparazione del film, attraverso studi e ricerche che ciascuno di loro era stato chiamato a fare in proprio, anche improvvisando durante le riprese. Da questa esperienza nasce l’associazione Rebond che dal 2000, stante il sostanziale ennesimo boicottaggio di questo film sui canali di diffusione tradizionale, si occupa di promuovere proiezioni e modalità nuove e sperimentali di visione «partecipata» del film stesso. Di questo film ho già parlato ampiamente in questo blog.
L’impegno maggiore di Watkins negli ultimi decenni è soprattutto teorico e pedagogico. Punto nevralgico della sua riflessione è la critica al sistema dei media individuati come manipolatori dell’informazione a favore di un sistema politico indirizzato al consolidamento del potere economico e al suo più importante mezzo di sostegno, la guerra. In particolare, molto del suo impegno è rivolto allo svelamento dei meccanismi di quella che ha definito la «monoforma», vero e proprio codice di omologazione del sistema mediatico, che ha portato alla crisi della comunicazione contemporanea. Punto chiave di questo concetto è lo sviluppo e l’affermazione di un’unica modalità dominante di «racconto», una forma-linguaggio ripetitiva, un vero e proprio format, nato con Hollywood e rilanciato a livello planetario dal doppio strumento cinematografico e televisivo americano. La monoforma schiaccia la possibilità di riflessione da parte dello spettatore, grazie all’uso di linee narrative predeterminate e ormai «previste» nella ricezione, cosa che consente a chi produce comunicazione di predeterminare anche il tipo di reazione da parte di chi guarda.

Alternativa, se non vero e proprio antidoto al dilagare di queste forme di controllo del consenso, è la ricerca di modalità (cinematografiche e televisive) capaci di scardinare i meccanismi della monoforma che, d’altra parte, non ha nulla a che vedere con la buona volontà politica di chi produce audiovisivi. Non a caso, il regista inglese considera ascrivibili alla monoforma i suoi stessi film fino al 1976, cioè includendo proprio il suo titolo forse politicamente più sconvolgente, Un paese al tramonto. La sperimentazione di rottura della monoforma, nel tentativo di creare diverse dinamiche creative e di coinvolgimento politico «reale» di tutti, cercando di azzerare perfino i meccanismi di potere interni alla squadra di realizzazione del film, viene compiuta da Watkins solo a partire da The journey, cioè da quando il film da lui concepito risulta creato da un apporto di base da parte di molte persone, con una consapevolezza altrettanto diffusa e compartecipata. Fino a La Commune, per la quale si prevede addirittura una modalità innovativa di ricezione (e quindi di consapevolezza) da parte dello spettatore.
La complessità di questo lavoro, la difficoltà di distribuzione e la difficoltà stessa di attenzione che prova uno spettatore nella visione delle sue ultime opere dai tempi fluviali e dalla narrazione continuamente spiazzante, mostrano proprio come la nostra assuefazione di spettatori alla monoforma denunciata da Watkins sia arrivata quasi a un punto di non ritorno. La sfida è alta e anche se la ricerca di Watkins risulterà sempre marginale (come sembra esserlo il luogo nel quale è andato a vivere da anni, la Lituania) rispetto al mainstream dei mass-media, resta in tutti noi la forza di sapere che un altro tipo di cinema politico e di politica dei media è possibile.
(Questo articolo è stato pubblicato nel n. 361 di “A rivista anarchica”, aprile 2011. Lo ripropongo oggi per ricordare Peter Watkins in occasione dell’85esimo compleanno. Ma anche per ricordare, a 3 mesi dalla morte, Paolo Finzi, fondatore e direttore di “A”, che accolse con entusiasmo la mia proposta di parlare sulle sue pagine di questo regista, chiedendomi anche di tradurre e pubblicare stralci della sua riflessione teorica, che si possono tuttora leggere sul sito della rivista.)
