Che cos’è una dittatura emozionale? Leggo la definizione: “E’ un regime fondato sull’entusiasmo delle masse amorfe, nemico della ragione e distruttore delle civiltà; deve per forza mantenere alto il livello emozionale” (Emil Lederer, Lo Stato delle masse. La minaccia della società senza classi, Milano, Paravia Bruno Mondadori, 2004, p. 7). Le abbiamo viste le immagini più evidenti delle dittature che hanno attraversato il secolo scorso – le grandi adunate di giovani raggianti – e abbiamo studiato le strategie meno evidenti, ossia la propaganda che instillava fin dalla più tenera età una retorica nazionalista basata su presunte superiorità etniche o razziali. Dal secolo scorso è planata sul nuovo una formidabile e dissimulata “dittatura emozionale”, che ha poche differenze sostanziali rispetto alle sue colleghe più note: Israele. Poche differenze: la prima, non c’è un clima di terrore interno, ma di ‘semplice’ intimidazione (stanno crescendo negli ultimi mesi gli allarmi riguardanti la deriva fascista dell’attuale governo, lanciati da personalità israeliane come Michel Warschawski o Zeev Sternhell); la seconda, non c’è alcuna mobilitazione internazionale concreta per scioglierne le problematicità. Che non riguardano solo il suo fronte interno (quello dell’entusiasmo delle masse amorfe), ma soprattutto il suo fronte esterno: perché quell’entusiasmo è ovviamente funzionale a qualcosa, cioè all’espulsione della popolazione palestinese dai propri territori, attraverso semplici alterazioni ‘orwelliane’ della memoria e della realtà, ma anche e soprattutto deportazioni, occupazioni e massacri, in barba al diritto internazionale e ai diritti umani.
A raccontare in modo algido e disturbante (“allucinato”, come recita il sottotitolo) il rapporto tra la dittatura emozionale di Israele e la sistematica violazione del diritto e della giustizia è Jerusalem plomb durci, ossia “Gerusalemme piombo fuso”, che fin dal titolo esprime la contiguità deflagrante di cui sto parlando. Gerusalemme, infatti, è la città illegalmente occupata (che Israele vorrebbe capitale dello Stato), frutto di una colonizzazione selvaggia che sta espellendo i suoi abitanti palestinesi. E l’espressione “piombo fuso” viene da una canzoncina che i bambini cantano durante le festa di Hanukkah, ma è un’espressione diventata universalmente nota e famigerata perché usata come nome in codice di una delle tante operazioni militari nei confronti degli insediamenti civili palestinesi, in questo caso il bombardamento di Gaza del 2008/09 (anche con l’uso di armi chimiche e fosforo) che ha causato circa 1200 morti palestinesi (tra cui circa 400 bambini).
Lo spettacolo riporta come sottotitolo proprio “Viaggio allucinato in una dittatura emozionale”: quasi una risposta diretta all’auto-rappresentazione di Israele come “unica democrazia del Medio Oriente”. Jerusalem plomb durci riflette esattamente questo rapporto tra la propaganda “emozionale” interna e la violenza razzista ed espansionistica di Israele. Ruth Rosenthal, sola in scena, ripercorre canzoni, proclami, movimenti coreografici o ginnici, che impregnano la società israeliana fin dall’educazione dell’infanzia. Si parte proprio dalla memoria di canzoni, feste, manifestazioni, parate in età scolare: un concentrato di retorica che punta al mito della superiorità etnico-nazionalista del popolo ebraico che arriva nella terra promessa e che deve preservarla dagli attacchi esterni. Peccato che si espellano da questa narrativa i palestinesi che su quella terra ci vivono e che chiedono il riconoscimento dei loro diritti, financo della loro esistenza. Così, mentre Ruth rievoca, nel proprio corpo, come in un sofferto esercizio di memoria della propria infanzia, la retorica del popolo felice, armonioso e orgoglioso, con tanto di video che ripropongono canzoni e manifestazioni, una voce implacabile ricorda le numerose risoluzioni emanate dall’Onu per condannare le violazioni sistematiche del diritto internazionale e dei diritti umani compiute da Israele.
L’indottrinamento della società israeliana fin dall’infanzia – soprattutto a partire dall’infanzia, come sa bene ogni “dittatura emozionale” – è un aspetto sconosciuto al di fuori dei suoi confini (uso questo termine impropriamente: Israele, al contrario degli altri Paesi, non ha mai dichiarato i propri confini, che del resto, nella prospettiva sionista originaria, dovrebbero comprendere molti territori che oggi sono palestinesi, giordani, libanesi, siriani, egiziani…). Le lezioni belliche condotte dai militari negli asili sono solo l’aspetto più grottesco secondo i nostri parametri, ma ben più importante e profondamente plasmante è la formazione scolastica che una docente universitaria israeliana, Nurit Peled-Elhanan, ha portato alla luce in uno sconvolgente studio, nel quale ha dimostrato come l’educazione israeliana abbia il preciso obiettivo di fomentare l’odio e il razzismo nei confronti degli arabi (Palestine in Israeli Books: Ideology and Propaganda in Education, London, I.B. Tauris, 2012). Ricordo ancora l’incontro con Nurit Peled-Elhanan, nel gennaio di quest’anno, a Betlemme, quando illustrò a un gruppo di italiani le sue ricerche, e ricordo lo sconcerto generale, quando mostrò libri scolastici nei quali gli arabi sono rappresentati solo attraverso disegni caricaturali (come i nazisti facevano con gli ebrei) e nei quali la realtà è alterata dalla propaganda (un resoconto di quell’incontro si trova nel blog di Daniela Patrucco SpeziaPolis, così come nel volume che racconta quel viaggio: Ci conducono gli ulivi, Roma, Assopace Palestina, 2014).
Dunque, ecco materializzarsi sul palco, in videoproiezioni e nei frammenti smozzicati di canzoni, proclami e movimenti ginnici, l’assorbimento dello sciovinismo e dell’arabofobia nei corpi dei giovanissimi israeliani, inconsapevoli futuri sostenitori di una dittatura che racconta con orgoglio una storia che espunge l’alterità e, soprattutto, giustifica una violenta sopraffazione. Durante la surreale fenomenologia di una propaganda, a volte festosa a volte commossa, imperniata sulla commemorazione delle vittime (nella “dittatura emozionale” il perno è costituito proprio dall’auto-rappresentazione di vittima che necessita di una difesa) e sulla celebrazione di una Gerusalemme “liberata” e “riunificata”, la scena si riempie di festoni di bandiere israeliane: è la progressiva “israelizzazione” dello spazio, ma finisce per diventare la progressiva chiusura di quello spazio libero, perché i festoni disegnano ben presto un ring, un muro (che ricorda il famigerato muro della vergogna che Israele sta costruendo oltre i propri confini, nel territorio palestinese occupato), un confine invalicabile in un senso e nell’altro. Una “israelizzazione” che significa la progressiva conquista di territorio, ma soprattutto il progressivo lavaggio di testa della cittadinanza, quella “dittatura emozionale”, appunto, che non consente agli israeliani la lucidità interpretativa della realtà nella quale vivono. Il finale, con la performer che sparisce sotto il peso dell’ennesima bandiera che la schiaccia a terra, chiude questo “viaggio allucinato” nella più icastica delle rappresentazioni possibili.
La forza di questo spettacolo, profondamente innervato dei codici e delle sensibilità della performance, sta nell’affrontare la questione israeliana evitando l’arma principale di Israele – cioè la propaganda – e usando invece, al suo posto, in maniera semplice, direi scarnificata, gli elementi della realtà. Non solo differenza di linguaggio (da una parte la propaganda, dall’altra pezzi di realtà precipitati nella cornice teatrale), ma anche differenza etica. Una sorta di teatro pop della memoria, che usa pezzi della cronaca, videoclip e frammenti della pratica quotidiana, scatenando una reazione che porta al teatro politico, senza discorsi o ideologie, ma con la mera esposizione di objets trouvés. Tra i quali campeggiano la bandiera israeliana e le risoluzioni Onu. La prima, nella ridondanza della sua presenza, rimanda alla pura astrattezza simbolica di una mitopoiesi che si auto-alimenta secondo tautologie inconfutabili (Israele è Israele, e perciò null’altro può essere detto). La seconda, nell’incalzare impressionante, anno dopo anno, di raccomandazioni, avvertimenti e condanne, rimanda invece a ciò che quella astrattezza sta cercando di nascondere o rimuovere: la realtà, appunto, di un conflitto, di un’occupazione, di violazioni di diritto internazionale e di diritti umani.
Ma l’objet trouvé più importante e significativo è il corpo stesso della performer: Ruth Rosenthal, israeliana, testimone di quella manipolazione operata dalla “dittatura emozionale”. Ruth Rosenthal, che nel 2004 ha creato a Tel Aviv la formazione Winter Family insieme al compagno francese Xavier Klaine, e che qui sembra rintracciare nel proprio vissuto fisico i segni del plagio emozionale che ha subìto come i suoi concittadini. Lo spettacolo supera, dunque, l’idea di rappresentazione, e diventa esposizione di prove e testimoni: il “viaggio allucinato” si trasforma in lucido documentario, capace di creare una narrazione aperta, dove non c’è plot (e quindi non c’è neanche un vero inizio e una vera fine) e dove il senso va ricostruito dallo spettatore. Sempre che sia una storia con un senso… Perché Jerusalem plomb durci racconta quella scheggia impazzita della storia contemporanea che ci appare irriducibile a qualsiasi senso logico: appunto, la questione israeliana per come si è sviluppata fino a oggi. E il senso sta forse proprio nelle beffarde frasi finali delle ultime risoluzioni Onu, che ripetono come un mantra che il Consiglio di Sicurezza decide di seguire con attenzione la questione. Una frase, questa sì, allucinante, perché rappresenta il segno della sconfitta della comunità internazionale, totalmente incapace di affrontare il problema e di perseguire soluzioni. Le Nazioni Unite, che periodicamente dichiarano solennemente che seguiranno la questione, rappresentano di fatto la sconfitta di quell’utopia di pacificazione mondiale che le aveva generate. E denunciano l’assurdità dello stallo che grava sulla Palestina e su Israele. Uno stallo ‘dinamico’, nel quale la “dittatura emozionale” prosegue indisturbata e l’occupazione e la violazione del diritto aumentano progressivamente (alla faccia dell’Onu che si limita a “seguire con attenzione”). Uno stallo ben espresso dal progressivo annullamento della performer sotto la bandiera israeliana e sotto l’ultima immagine video di una Gerusalemme assediata dal muro della vergogna.
Jerusalem plomb durci. Voyage halluciné dans une dictature émotionnelle; idea originale, registrazione, regia e progettazione Winter Family (Rosenthal & Klaine); con Ruth Rosenthal; suono e video Xavier Klaine; disegno luci e direttore tecnico Julienne Rochereau; tecnico del suono Sébastien Tondo; voci Yael Karavan & Jean-Baptiste Duchenne; collaboratore artistico Yael Perlman. Winter Family e ESPAL du Mans residenza creativa Ferme du Buisson, scène nationale de Noisiel e Fonderie au Mans. Prima assoluta: Festival Impatience, Centquatre, Parigi, 16 giugno 2011.
Visto a: VIE Festival, Pubblico Teatro di Casalecchio, Casalecchio di Reno, 24 ottobre 2014.