E’ passato meno di un mese dalla morte prematura, troppo prematura, di Matteo Latino. “Giovane artista”, secondo una fin troppo facile etichetta che depotenzia questa espressione e ne disinnesca i due formidabili termini: “giovane” per ragioni anagrafiche e per sensibilità (e dunque, giovane con sofferenza, perché la giovinezza è una terra fin troppo insidiosa), “artista” per vocazione e per applicazione (e dunque, ancora, con una “gioiosa” sofferenza, perché l’arte – quel tipo di arte – è il porto dove si placa, solo per un istante, l’insaziabile errare di chi non può stare fermo nella propria pelle). E’ passato meno di un mese, e la breve lontananza da quell’annuncio così imprevisto, e al tempo stesso così prevedibile, lo scorso 30 marzo, mi aiuta a evitare (o almeno a tentare di evitare) il semplice “ricordo”, e a provare di togliere Matteo dall’etichetta del “giovane artista” per cercare di illustrarne l’identità di giovane e di artista.
Matteo Latino è stato soprattutto e prima di tutto un poeta. In senso lato, ovviamente: poeta della parola, della scena, del disegno…. Ma mi piace pensare a lui come a un poeta vero, per la centralità che nel suo immaginario aveva la parola come portatrice di una tensione interiore che si scontra con le dinamiche e le meccaniche castranti della società. Fu la prima cosa che mi colpì quando, ormai cinque anni fa, si presentò ai colloqui preliminari del Premio Scenario, a Bologna. Doveva presentare 5 minuti scenici del suo progetto INFACTORY. L’azione scenica era intrigante: c’erano certamente cose orecchiate in molte visioni di teatro sperimentale di questi anni, c’era qualche idea interessante, c’era una buona cognizione dello spazio e del ritmo, c’era complessivamente un progetto intelligente e interessante che mostrava una salda personalità artistica in divenire. Ma c’era, soprattutto, poesia. Credo che sia stata l’unica volta, in tutti i colloqui preliminari di tutte le edizioni del Premio Scenario che ho passato, in cui mi sono letteralmente commosso, cercando di dissimulare gli occhi umidi al ritorno delle luci. Le parole di Matteo, recitate con quella voce dal timbro così speciale, in cui riecheggiava un’adolescenza in qualche modo ferita, arrivavano come una preghiera o come un lamento e al tempo stesso con una forza incisiva e una potenza che spezzavano il cuore, con una maturità e una capacità di elaborazione lontana anni luce dal giovanilismo e dal generazionalismo imperanti, e con la capacità di penetrare come un coltello affilato nelle carni. Perché in quelle parole rimbalzava il dolore esistenziale della giovinezza nella nostra società pasolinianamente omologata e pronta a sterilizzare la diversità di ciascun individuo, convogliandola in una massa da macello. Matteo aveva scritto un testo impetuoso, dove la condizione esistenziale si trasmutava nella condizione di un vitello indirizzato verso la stabulazione fissa, l’ingrasso e alla fine il macello. Nelle commoventi parole di quel vitello/ragazzo, in una antropomorfizzazione (o in una animalizzazione) che sembrava riecheggiare le sembianze della “capra dal viso semita” e dal “belato (…) fraterno” di Umberto Saba, si racchiudeva ed esplodeva il mondo interiore di Matteo:
E mi cola tutto il naso.
E lo asciugo con la punta della lingua.
E sento la lingua calda.
E salto mattonelle giù per il corridoio freddo.
E vorrei un bicchiere di acqua,
ma la mia razza non lo permette.
E ho gli occhi gonfi.
E i viaggi non sono tutti comodi.
E quelli scomodi lasciano gli occhi neri.
Chi sta parlando? Il pensiero del vitello arrivato, dopo il trasporto, nella stalla in cui sarà confinato per il resto della sua breve vita, si confonde con le sensazioni di estraneità e alienazione di un ragazzo di fronte al mondo. Di quale razza si sta parlando? Di quale viaggio? L’ambiguità dell’identità del parlante si estende, si riverbera, si moltiplica diventando un sofferto racconto in soggettiva, dall’incalzante incedere della prosa di Koltès (La notte poco prima della foresta): ancora uno straniero, uno di un’altra “razza”, un diverso, espulso dalla società in cui è arrivato (una terra straniera? il mondo adulto? la maggioranza silenziosa?), sospeso tra lo strazio per lo strappo interiore e quello sociale, tra la pericolosa incertezza del presente e la memoria della terra materna. La madre… che nel testo di Matteo Latino ha una centralità potente e determinante:
Arrivato da poco,
mamma.
Arrivato da poco con la calma di chi ha il corpo freddo
e si vede circondato dai fiori.
E in questa stanza immagino fiori.
E li vedo di tutti i tipi.
E riconosco i colori tutti quanti.
Ma che bei colori che hanno questi fiori.
E tre finestre,
mamma.
E quella centrale è la più grande.
Ed è la mamma delle altre due finestre.
E le altre due finestre
sono le figlie di quella centrale.
E non è la stessa cosa,
no mamma.
Non è la stessa cosa.
Non è detto che se una è la mamma
le altre debbano essere,
sono, per forza le figlie.
E’ che una volta.
Una volta si era sicuri della propria mamma.
Ma ora di questi tempi,
come sono messe le cose,
ora anche la mamma,
non è più sicuro che sia proprio la mamma.
E lo sai quanti ho sentito scoprire poi
una mamma che non era la propria mamma.
E per fortuna l’ho sentito quella volta
il profumo dei tuoi capezzoli.
E anche se l’ho sentito solo una volta,
che se non era per quella volta,
sicuramente avrei avuto anche io dei dubbi su di te,
mamma.
Ma quando si respira un odore così buono
non puoi fare a meno di ricordartelo.
Per sempre.
E io sono sicuro che tu sei mia mamma.
Perché mi ricordo lì perfetto
a succhiare il tuo capezzolo.
E che profumava.
E che io mungevo con tutta la bocca.
E che la bocca senz’aria piena di capezzolo.
Nella mia stanza
immagino tutti i capezzoli mamma profumati.
E le tre finestre.

I disegni che accompagnano questo testo nella pubblicazione autoprodotta nel 2012 (un tabloid di 12 pagine, chiamato “fumetto” e contenente, oltre al testo di INFACTORY in italiano e inglese, anche un breve intervento di Massimo Marino) mostrano capezzoli solitari, gruppi di mammelle, prima come un soffitto turgido e poi come una cascata di bombe. In copertina la sinopia di un vitello da cui sgorga sangue vivo. E nelle pagine interne, tra le mammelle, il disegno di un ragazzo triste: la testa chiusa in un quadrato, o le gambe incatenate a un termosifone, sempre ingabbiato da linee rette che contrastano violentemente con il turgore rotondo delle mammelle, tra le quali magari può anche sprofondare in una vasca da bagno. Ma il disegno più forte (purtroppo in bianco e nero, nonostante gli originali di tutti i disegni fossero a colori) è quello della pagina, non a caso, centrale: sopra, una nuvola scura di mammelle dai capezzoli eretti; sotto, appena appena tratteggiato, il ragazzo disteso nudo sul divano, che guarda verso l’osservatore – quasi una Venere di Tiziano riletta da un De Pisis pop –, mentre tra le gambe il suo sesso ben evidenziato sembra uno di quei capezzoli incombenti. Un immaginario che allude a uno scenario psicanalitico, senza però cadere nel tranello freudiano. Il testo e i disegni, infatti, vanno intrecciati con lo spettacolo, che offre l’equilibrio scenico giusto per sfuggire alla facile psicanalisi e riportare il discorso alla descrizione di un universo interiore molto più complesso e molto più dinamicamente e antropologicamente collegato con il confronto con una società omologante.
Il progetto INFACTORY arriva in finale e vince il Premio Scenario 2011, diventando spettacolo definitivo dopo alcuni mesi (e poi, un cortometraggio autonomo rispetto allo spettacolo stesso, dal titolo Inmotion). Nell’opera, la solitudine del protagonista è raddoppiata con la presenza di due interpreti: lo stesso Matteo e Fortunato Leccese. Qualcuno aveva notato che, secondo gli usuali canoni teatrali, la presenza scenica e la recitazione di Matteo erano un poco più deboli rispetto al secondo interprete, a cui peraltro vengono affidate le parti testuali più estese. Ma io non sono d’accordo. La voce e la recitazione di Matteo, che pure era attore eccellente in spettacoli diretti da altri, qui avevano una grana speciale, proprio grazie a un indiscutibile lavoro di sottrazione: perché qui Matteo non recitava, semmai portava sulla scena le sue parole di poeta, le portava nel proprio corpo da cui erano scaturite. Lo spettacolo, poi, disseminava quelle parole, eseguite come una litania, in un’orchestrazione turbinosa di movimenti, azioni, tra teatro fisico, visivo e danza. La scena diventava, attraverso pochi elementi (uno fra tutti, un telo di plastica di protezione che diventava di volta in volta pavimento o sudario) lo spazio della stalla nella quale si esaurisce l’universo del vitello/ragazzo, nel quale si può ballare, muoversi, sognare e pregare, piangere e alla fine distruggere e distruggersi. Il senso dello strappo e dello sradicamento abitavano quello spazio, mascherando la sofferenza dell’esistenza e delle perversioni relazionali in un gioco hi-tech e in un roboante bombardamento musicale. Infine, tutta quella musica, tutti quegli oggetti, tutti quei movimenti non riuscivano a indorare la pillola del vitello/ragazzo costretto al sacrificio: lui – raddoppiato sulla scena, ma unitario nell’io del testo – non poteva che mettere a nudo la propria fragilità, in attesa del sacrificio, ossia la macellazione delle carni a fini alimentari per il vitello o la macellazione dello spirito a fini sociali per il ragazzo. Che fuori dalla stalla, anzi dentro la stalla che è questo mondo, trovava infiniti recinti, elencati mentre sul corpo plastificato del performer scorrono frame vuoti di diapositiva in una squallida luce lattiginosa:
In recinti di bivi dietro casa.
In recinti di piazze.
In recinti di Corso Matino 141.
In recinti di baffi.
In recinti di chi sta seduto sulle panchine comunali.
In recinti di chi non si alza per non perdere il posto.
In recinti di chi è partito.
In recinti di chi è già tornato.
In recinti di vitello straniero per pochi mesi.
In recinti di chi sorpassa in curva.
In recinti di chi saluta alzando il mento.
In recinti di chissà che porta nel cofano.
…e così via lungamente. Una sequenza di “recinti” nella quale possiamo tutti riconoscere abitudini e costruzioni sociali, e che però è fortemente radicata in un orizzonte provinciale, paesano, che è quello delle radici autobiografiche dell’autore (Corso Matino è il cuore di Mattinata, il suo paese): possiamo avvertire il sapore delle lunghe giornate e delle lunghe stagioni passate nel chiuso di un piccolo centro meridionale a ripetere i soliti gesti, a sognarne altri altrove, e poi a ricadere nei soliti gesti ancora. E’ questo il retroterra esperienziale di Matteo, che diventa un mantra risucchiante per gli spettatori di ogni latitudine, che nella moltiplicazione dei “recinti” del ragazzo cresciuto nel piccolo centro del Sud colgono i propri infiniti “recinti” in cui sono costretti – come vitelli ancora giovani o già cresciuti – a vivere e a ripetere gesti, parole e azioni. Il titolo INFACTORY, pur con la sua orecchiabilità trendy, non mi aveva mai convinto: un po’ per l’ammiccamento all’inglese e un po’ per l’imprecisione semantica: Matteo aveva fondato il suo TeatroStalla, e la “fattoria” era al centro del suo pensiero artistico, sia perché rappresentava il rapporto con le sue radici nella tenuta famigliare nel foggiano, sia perché rappresentava anche – in senso vagamente orwelliano – la più precisa evidenza del mondo che intendeva descrivere, proprio a partire dai vitelli costretti alla stabulazione. Ma “factory” in inglese ha un altro significato, e ho sempre pensato che questa imprecisione fosse una pecca, sia pure veniale. Ora invece, pensandoci meglio, credo che proprio l’apparente imprecisione semantica arricchisca il senso del titolo. Non c’è solo la traduzione “sbagliata” di “fattoria”, ma c’è proprio il concetto di “fabbrica” (traduzione corretta di “factory”): non si tratta solo di vitelli ingabbiati, ma si tratta della vera e propria costruzione seriale degli individui di massa. Questo è, dunque, il sentimento dello spettacolo INFACTORY, nel quale assistiamo alla costruzione della massificazione e alla sofferta debole resistenza del ragazzo dagli occhi grandi di vitello destinato al sacrificio.

Il sacrificio, il dolore, la sofferenza dell’esistenza. E della malattia. Quella bestia contro cui ha lottato da uomo, e che tanti problemi gli ha causato anche come artista, impedendogli di essere lucido e presente nei momenti in cui sarebbe servito per cogliere le occasioni giuste. La malattia è stata l’oggetto del suo secondo e ultimo spettacolo, BAMBI SAYS FUCK. Un titolo ancora una volta ammiccante a un immaginario trendy, d’urto, con il cortocircuito tra il piccolo e tenero eroe disneyano, ma destinato a crescere solo dopo aver attraversato lo strappo della morte, e il “fuck” dell’invettiva ma anche dell’azione sessuale. Il concentrato semantico di un titolo perfetto per incontrare un certo pubblico, magari nei circuiti più alternativi, nasconde in realtà – ancora una volta – una qualità alta e poetica, quasi classicamente poetica, della composizione testuale e drammaturgica. Sono convinto che, se il destino non avesse deciso altrimenti, quello stesso destino avrebbe riservato a Matteo una sua strada di centralità nel teatro italiano contemporaneo, ma soprattutto come autore, come drammaturgo poeta. BAMBI SAYS FUCK, che Matteo aveva inseguito a lungo nella sua testa e nella sua penna, frantumandosi in molti percorsi (anche video) tutti interconnessi come un denso zibaldone ribollente, è un azzardo che Matteo affronta con grande coraggio. Dopo l’exploit di INFACTORY Matteo decide di non rispettare (contro ogni furbizia strategica) le aspettative esterne e di sperimentare strade che sente di voler percorrere, con una libertà assoluta e davvero rara in un “giovane artista” che ha avuto un primo grande riconoscimento pubblico. Il nuovo spettacolo, cupo e spietato per lo spettatore, vede in scena, ‘semplicemente’, un danzatore (straniero: la cui fisicità e la cui lingua esprimono di per sé un senso del tutto particolare del sentimento dell’estraneità), alle prese con un testo registrato che parla di solitudine e di rapporti sociali e sessuali, dove la presenza della malattia scorre sotterranea, quasi invisibile, ma condizionante rispetto a tutto, come lo è una malattia silenziosamente presente come l’Hiv o come qualsiasi malattia subdola, che è sì malattia del corpo ma che rischia di essere malattia della mente. Come il sesso:
Il fatto è
Che tutti abbiamo un gran bisogno di scopare.
Di essere lì.
Pronti a diventare stanchi.
E quando finisce il corpo
si ricomincia dalla testa
e si arriva quasi fino alla fine.
E poi si ricomincia.
Con un nome
Se sei fortunato.
(…)
Sarò la puttana
Della tua città
Che pulisce tutto.
Così come fanno i cani.
Con una foto grande
Che ci guarda.
Il mio primo piano
La mia verità.
Non ho paura
Di essere visto.
E ti lascerò entrare.
Nel mio punto giusto.
Così come sai fare.
Ti lascerò rubare
Nel mio punto giusto
Così come sai fare.
Ti lascerò lanciare il casco dei motorini.
Sparare con le pistole a piombini.
Ti lascerò galleggiare.
Come sai stare tu.
Quando respiri forte
E agiti la lingua.
Con tutti intorno che mi guardano.
Con tutti intorno che sanno chi sono.
Con tutti intorno che non chiudono mai un occhio.
Ho le corna.
E quattro zampe
Con forti unghie
E mangio muschio verde.
E salto gli ostacoli.
E ho solo paura di baciarti
Di stringenti al mio corpo sudato.
Di farti mangiare nel mio piatto.
Diventa mio Padre
E io sarò tuo figlio.
Il mio cacciatore
E io sarò la tua preda.
La tua puttana
della tua città
da colpire con un casco di motorino.
(dal testo inedito dello spettacolo)

Al debutto, BAMBI SAYS FUCK mostra ancora qualche segno impreciso (qui un estratto delle prove), che Matteo capisce di dover risistemare e che non farà in tempo a risistemare. E’ l’ultima immagine che ho del suo teatro: la ruvidezza di una visione buia e irrisolta, nella quale si allarga impetuoso un bellissimo testo che non farà in tempo a pubblicare, dove ritornano gli accenti dolenti (ma mai rassegnati!) di un poeta di fronte non tanto alla caducità della vita, quanto alla caducità dei rapporti e alla “stabulazione” di esistenze a cui non è permesso vivere la propria diversità. E parlo non solo e non tanto di omosessualità, che è la filigrana di una scrittura e di un’ispirazione scenica profondamente necessitata da una condizione di sentimento omosessuale che scorre in profondità e che solo a tratti riemerge (più nel secondo che nel primo spettacolo), ma soprattutto di diversità come condizione universale dell’umanità. Ancora una volta, è l’unicità complessa della persona a rendere diversa quella persona, e perciò irriducibile ai condizionamenti. Matteo cercava di raccontare questo, perché era questa l’esperienza più potente e determinante che aveva potuto fare: proprio come ogni poeta che scopre prima di tutto la diversità del suo esprimersi in maniera differente dagli altri che lo circondano, e che vanno pigramente su e giù nel corso del suo paese (e ancora una volta c’è il radicamento e lo sradicamento dal suo villaggio così concreto e ormai assurto in modo così potente a un livello simbolico), ormai incapaci di avvertire quel su e giù come falso movimento. Inseguendo e dileggiando puttane, in un’attitudine maschilista che è altro elemento dominante di quella cultura da cui Matteo si sentiva diverso.
La morte di un giovane poeta è sempre un dolore. Ma i poeti sono giovani sempre, e la morte è sempre la loro compagna. Il dolore maggiore, a prescindere da quello umano e personale, è nell’assenza di loro parole nuove. E così, non posso che chiudere ricordando gli ultimi versi di INFACTORY:
Poi di colpo,
ho visto un vitello correre in salita.
E mi sono messo a correre anch’io.
E’ che quando uno muore.
E’ che muore in silenzio.