Come si osserva un affresco (in quattro dimensioni)

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Virgilio Sieni “Cena Pasolini” (prove; dal blog nellepieghedelcorpo.wordpress.com)

In Cena Pasolini Virgilio Sieni ha creato un affresco in quattro dimensioni. Un grande affresco, che riempie l’intero Salone del Podestà di Bologna: 61 metri di lunghezza e 14 di larghezza, abitati da 107 persone (tanti sono gli interpreti nell’elenco ufficiale). Un affresco plastico, dinamico, tanto preciso nella sua struttura per blocchi, quanto sorprendente nella sua capacità di scardinarsi e rigenerarsi. Un affresco che, nella notte del Venerdì Santo, mette insieme il rinascimento toscano, Pier Paolo Pasolini e un’incessante processione di osservatori che ‘includono’ quell’affresco nel loro movimento in senso orario o antiorario, e ne sono inclusi. Ma come si osserva un affresco? E un affresco in quattro dimensioni come questo?

Osservare un affresco non è mai solo un’operazione limitata agli occhi. Osservare un affresco significa impegnare il collo e il fisico in una postura innaturale, quella che si riserva per rivolgersi a ciò che sovrasta con la sua incommensurabilità: il sole, il cielo, dio… Bisogna alzare gli occhi e piegare indietro la testa. Spesso occorre anche arretrare, ma non troppo, per non perdere di vista i dettagli e per non sbattere nella parete alle proprie spalle. Eppure occorre arretrare, per non perdere la vista complessiva: cioè, paradossalmente, allontanarsi per poter vedere meglio. E’ un esercizio difficile, appagante per la visione che viene concessa, ma frustrante per la sensazione che ci siano sempre alcune cose – troppe cose – che sfuggono. Osservare un affresco è come osservare il sole, il cielo o dio: ci si sente piccoli, soli e disarmati, e perciò – al tempo stesso – privilegiati ma confusi. L’osservatore intellettuale stringe leggermente le palpebre come per concentrarsi e prendere ulteriormente le distanze, e far passare le immagini dalla strettoia degli occhi verso la testa: il suo sguardo si sofferma sui particolari e valuta la visione d’insieme. Ma c’è un altro osservatore, quello che gli occhi non li socchiude, ma li spalanca, inconsapevolmente per far entrare meglio la luce, le forme, i colori; e come se non bastasse anche le labbra si socchiudono, perché tutto entri meglio dentro il corpo. Ma entrambi gli osservatori devono alzare gli occhi e piegare indietro la testa. E se l’affresco è molto grande e vario o molto affascinante, il collo dopo un po’ inizia a far male e si perde la percezione del suolo su cui si cammina. Non c’è visione di un affresco senza un lavoro inconsueto del corpo. Quello dell’osservatore e quello dei personaggi ritratti, che a loro volta si mostrano spesso nelle pose inconsuete e spesso dolorose di eventi religiosi o militari. Non c’è affresco meraviglioso senza il corpo indolenzito dell’osservatore che ammira corpi inconsueti (e spesso dolorosi) sopra di lui. Viene in mente l’incipit de La religione del mio tempo, l’inizio del “viaggio” di Pasolini nell’Italia della mutazione dalla storia alla modernità. Qui Pasolini descrive un osservatore d’umile estrazione di fronte nientemento che al più straordinario affresco di tutti i tempi, la storia della Vera Croce di Piero della Francesca ad Arezzo:

Fa qualche passo, alzando il mento,
ma come se una mano gli calcasse
in basso il capo. E in quell’ingenuo
e stento gesto, resta fermo, ammesso
tra queste pareti, in questa luce,
di cui egli ha timore, quasi, indegno,
ne avesse turbato la purezza…
Si gira, sotto la base scalcinata,
col suo minuto cranio, le sue rase
mascelle di operaio. E sulle volte
ardenti sopra la penombra in cui stanato
si muove, lancia sospetti sguardi
di animale: poi su noi, umiliato
per il suo ardire, punta un attimo i caldi
occhi: poi di nuovo in alto… Il sole
lungo le volte così puro riarde
dal non visto orizzonte…

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Pier Paolo Pasolini e Ninetto Davoli osservano gli affreschi di Piero della Francesca ad Arezzo.

Piero della Francesca è il compagno di visione di Pasolini nella creazione del film Il Vangelo secondo Matteo, ed è il compagno di visione di Sieni in molte sue opere. Le sue forme, i suoi colori, i suoi spazi, e soprattutto le relazioni gestuali e prossemiche del toscano Piero rimbalzano – mai in un processo di mimesi, ma semmai di riattivazione – nelle coreografie del toscano Sieni: al centro un umanesimo antico e reclamato a gran forza nell’epoca della disumanità moderna. Le relazioni fisiche tra le figure ‘dipinte’ da Sieni sono spesso atti di sostegno: mani e braccia sostengono braccia, corpi e teste, in gruppi assemblati in immagini dinamiche riecheggianti compianti o deposizioni. La danza di Sieni è una danza di bellezza e anche di solidarietà umana, quella che ha bisogno del sostegno dell’altro, che ha bisogno di sostenere l’altro. Da Piero e da altri artisti rinascimentali arriva la lezione di un’architettura corporea del sostegno che Sieni reinventa nelle sue opere in modo dinamico. E da qui bisogna partire per poter assistere a Cena Pasolini, perché quello che si vede non è altro che uno straordinario affresco che racconta la solidarietà umana. Non è, banalmente, una ultima cena, anche se i rimandi iconografici ci sono, ma semmai una prima cena, quella che apre il nostro sguardo a una scoperta quasi primigenia dell’umanità. Sotto il segno di Pasolini, della sua umanità, del suo sguardo verso l’umanità di corpi e spiriti autentici.

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Virgilio Sieni, “Cena Pasolini” (foto di Virgilio Sieni realizzata durante la prova generale).

Cena Pasolini è una cena simbolica moltiplicata per cinque: sono cinque i grandi tavoli disposti a uguale distanza uno dall’altro, ben separati, attorno ai quali agiscono altrettanti gruppi di persone (che non sono danzatori professionisti): ci sono i bambini nel tavolo centrale, poi i giovani, infine gli anziani in uno dei due tavoli all’estremità, e dall’altra parte altre due formazioni di adulti. Ciascun gruppo compie azioni coreografiche attorno al proprio tavolo, con suadente lentezza, in gesti che si incontrano proprio nel segno del sostegno fisico (e quindi spirituale) dell’altro, dove non esiste dissidio, ma partecipazione comunitaria a un rito. Tranne il gruppo dei bambini, che invece agiscono nel segno dell’energia scatenata, quasi senza toccarsi, e che a un certo punto sfondano la separazione immaginaria tra i diversi blocchi dello spazio per irrompere in mezzo alle coreografie altrui, correndo allegramente tra i giovani, gli adulti, gli anziani, in un contrasto dinamico di fortissimo impatto e gioiosa levità. A una delle due estremità, quella opposta agli anziani, un sesto gruppo: il coro. Coro tragico in quanto testimone e motore poetico dell’azione, con i suoi Agnus Dei e Miserere, ma anche con i suoi vocalizzi, con la sua gestualità (le mani in alto o battute, i movimenti del corpo…). L’intero Salone del Podestà si presenta all’osservatore come un affresco suddiviso in quadri: e come un affresco, come l’affresco di Piero ad Arezzo per esempio, i quadri sono autonomi e al tempo stesso dialogano tra loro. E come un affresco, il dialogo deve essere percepito dall’osservatore, che qui si muove attorno ai tavoli senza poter aver mai un’accurata visione d’insieme: gesti difformi o ricorrenti da un tavolo all’altro, rumori o espressioni vocali, composizioni di gruppo… c’è una raffinatissima composizione e orchestrazione, che all’osservatore in quasi costante movimento è dato solo percepire parzialmente senza individuare fino in fondo. Finché improvvisamente il coro rompe la propria staticità per avanzare verso l’altra estremità della sala, ‘travolgendo’ i tavoli fino all’ultimo, e ingrossandosi passo dopo passo con l’aggiunta dei gruppi fino a diventare una grande massa di viva umanità, dietro alla quale rimangono i tavoli in uno spazio vuoto, mentre tutt’attorno gli osservatori si riassestano rapidamente (quasi una coreografia involontaria), cercando il punto migliore per osservare questo potente tsunami di corpi, di volti, di donne, uomini, bambini. Poi, la grande onda si ritira, e l’intera Cena Pasolini ricomincia dall’inizio, ripetendosi integralmente una seconda volta, fino a una nuova travolgente avanzata, ancora una volta imponente e inarrestabile come il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo, dove all’Agnus Dei e al Miserere si sostituisce un altrettanto sacro e vibrante Bella Ciao, sempre cantato dalla Corale Savani di Cento.

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Virgilio Sieni, “Cena Pasolini” (foto di Virgilio Sieni realizzata durante la prova generale).

E allora, come si osserva questo affresco in quattro dimensioni? Sieni non chiede di alzare lo sguardo verso l’alto, ma di posarlo ad altezza umana, di scambiare lo sguardo con altri sguardi che, magari, si intrecciano dall’altra parte dei tavoli con gli altri osservatori, uniti tutti in una comunità viandante di comprensione e condivisione. Non c’è l’indolenzimento del collo piegato indietro: nessuno, incredibilmente, dà sia pure una sola occhiata agli affreschi incombenti dalle grandi e alte pareti del Salone del Podestà, se non di sfuggita entrando; non c’è dialogo tra la monumentalità dipinta un secolo fa da Adolfo De Carolis e la realtà odierna di questi corpi e di questi esseri umani. Il lavoro fisico richiesto all’osservatore è semmai quello delle gambe: la staticità è accettata, ma solo la dinamicità e il movimento nello spazio consentono di essere davvero parte di ciò che sta accadendo attorno ai tavoli, cioè di far parte, in modo diverso, di una comunità che unisce tutti gli esseri umani. Uguale alla canonica osservazione degli affreschi è semmai la sensazione di essere piccoli di fronte a qualcosa di molto più grande e incommensurabile: piccoli, ma non soli, e quindi neanche disarmati. Questo affresco danzato è un vocabolario gestuale di fiducia nell’essere umano e nelle relazioni, nel quale ci sentiamo coinvolti. Magari, con la bocca socchiusa per far entrare meglio la visione, e con le gambe in movimento per ricordarci che osservare è un lavoro corporeo.

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Foto dalla sequenza finale del ballo metacinematografico di “Salò”, con Pasolini che balla con attori e troupe.

E poi, dopo la fine, dopo gli applausi, ecco un’incontenibile rottura degli schemi: danzatori e coro e spettatori, uniti in un ballo liberatorio su una vecchia canzone rock americana. Qualcosa che sta fuori dallo spettacolo, da Cena Pasolini, e che pure sta profondamente dentro ogni cena e dentro Pasolini. E’ lo scarto vitale che umanizza la ieraticità dell’arte e la tristezza per il dolore. Il dolore di un Venerdì Santo e del ricordo dell’assenza di un grande intellettuale e artista, in questo spettacolo, e il dolore per la perdita dell’umanità e il genocidio culturale raccontati proprio da Pasolini in Salò. Al termine delle riprese di quel suo ultimo film, Pasolini volle una scena non prevista nella sceneggiatura: chiese a tutti gli attori e a tutti i membri della troupe – lui compreso – di ballare. Il film avrebbe dovuto finire così: dopo le più efferate torture, ecco un ballo metacinematografico e sdrammatizzante, che riporta in primo piano l’umanità dopo aver raccontato la disumanità, in un’ultima (consapevolmente illusoria) descrizione di un mondo non ancora supino ai dettami del neofascismo borghese. Di quella scena non esiste più il girato, ma solo qualche foto. E’, idealmente, l’ultima scena cinematografica che ci ha lasciato Pasolini, anche se… non esiste: proprio come il suo ultimo “romanzo”, Petrolio, che non ha inizio né fine ed è solo un fascio di “appunti” incompleti. Ecco la vera fine di Salò, che arriva dopo, quando il rito simbolico è esaurito e lo spettatore sta per tornare alla vita reale; ecco la vera fine di Cena Pasolini, quando l’osservatore si unisce alle figure della “sacra” rappresentazione prima di tornare alla vita reale. Una condivisione gioiosa che trasforma ciò che si è visto in patrimonio della memoria: catarsi, si potrebbe dire, se non fosse che la catarsi vera di Cena Pasolini sta già dentro Cena Pasolini, e non alla fine. La “purificazione” sta nell’osservazione stessa di quei gesti, così solennemente simbolici (dall’allegria individualista infantile ai “sostegni” di giovani, adulti e anziani) eppure così serenamente autentici, al punto che in quel braccio – così “alla Piero della Francesca” – puoi riconoscere il gesto di tua madre o di tuo figlio, e in quel torso che si piega – così “rinascimentale” – puoi riconoscere il tuo corpo allo specchio, e così via. Perché l’insegnamento di Pasolini, forse (e sicuramente una tensione artistica di Sieni) è la ricerca dell’autenticità nella classicità: un neo-manierismo che ribalta il giudizio canonico di inautenticità sul manierismo per ritrovare in quella elaborazione estetica così rarefatta (di “maniera”) i segni più immediati della realtà, che uniscono – al di là di ogni superficiale evidenza – i corpi materici di Masaccio e le evanescenti campiture cromatiche di Pontormo, uniti entrambi da uno sguardo nuovo sul reale e da una raffinata sperimentazione del gesto.

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Pier Paolo Pasolini nei panni del pittore giottesco che osserva le persone da ritrarre, in “Decameron”.

Perché poi torniamo sempre lì: allo sguardo. Quello dell’artista e quello dell’osservatore. Pasolini lo sapeva bene. Nel Decameron veste i panni di un pittore trecentesco, diciamo un giottesco, che deve realizzare proprio un affresco. La posizione alta e lontana dell’affresco dall’osservatore non sottrae Pasolini-pittore dal ‘dovere’ della ricerca dell’autenticità: in quella sequenza, che rappresenta la metafora più chiara e intensa del lavoro del poeta (cinematografico) di realtà, Pasolini inquadra con le proprie dita, incrociate a mo’ di obiettivo di cinepresa, i volti delle persone incontrate al mercato, per poi riprodurli negli affreschi, a diversi metri di altezza. Lo sguardo orizzontale dell’artista, e di tutte le persone, verso un soggetto della realtà cambia di direzione quando il soggetto è trasferito dalla realtà alla rappresentazione, che comporta un mutamento fisico dello sguardo: l’affresco va osservato dal basso in alto, e quindi la realtà – quando è rappresentata – va vista in modo diverso dalla quotidianità. In barba alle forme d’arte che dissimulano i propri oggetti nel continuum quotidiano. Sieni riporta lo sguardo dell’osservatore a quella orizzontalità che apparterrebbe all’artista, ma è un’orizzontalità diversa, perché richiede comunque un atteggiamento nuovo: l’osservatore viene accompagnato dall’artista stesso (che non a caso si aggira nello spazio, confondendosi con gli spettatori, diventando egli stesso osservatore, altrettanto stupito, della sua opera in fieri) nella scoperta non – si badi – della quotidianità da trasferire nella rappresentazione, ma al contrario della rappresentazione da trasferire (idealmente) nella quotidianità: ancora una volta, la solidarietà umanistica del sostegno. E allora, come va osservato un affresco (in quattro dimensioni)?

 

Cena Pasolini, ideazione e coreografia Virgilio Sieni; musica Corale G. Savani di Carpi, direttore Giampaolo Violi; assistenti al progetto Gaia Germanà, Daina Pignatti, Giulia Mureddu; cura del progetto Lorenza Paniccià; spettacolo commissionato da Emilia Romagna Teatro Fondazione all’interno del progetto “Nelle pieghe del corpo_Bologna. Geografia di gesti e luoghi”; produzione Compagnia Virgilio Sieni, Emilia Romagna Teatro Fondazione; interpreti Irene Luce Adagio, Alice Andreoli, Anna Bacchi, Pietro Baldelli, Silvana Barilli, Samuele Baschieri, Iolanda Battini, Lorella Begatti, Sara Bertani, Lara Bertesi, Stefanina Biagini, Giovanna Bianco, Angela Bisi, Antonella Bolognesi, Dante Bonetti, Barbara Bonini, Lorella Borghi, Isa Caiumi, Pietro Caputi, Camilla Casadei Maldini, Silvia Caselli, Eugenia Casini Ropa, Paolo Cervigni, Antonella Cimino, Giorgia Cotza, Paola Cremaschi, Claudia Cuppini, Leocadia De Luca, Sofia De Martino, Giuseppe De Vitti, Giulia Dickmans, Mariateresa Diomedes, Stefano Facchini, Emilio Ferrari, Franco Ferrari, Vanna Fortini, Anna Ganzerli, Emma Gatta, Francesco Germanà, Sofia Gessi, Silvia Gialdi, Gianfranco Giannerini, Carlo Giorgio, Franca Giovanardi, Margherita Giovannini, Lorena Grattoni, Lucia Grugnaletti, Corrado Gualdi, Camilla Guarino, Benedetta Guidi, Enrico Lugli, Loretta Lusetti, Nicole Magrone, Clemente Mai, Guido Malagoli, Mirco Malaguti, Giovanna Marinelli, Irene Martone, Eleonora Massa, Giuseppa Matranga, Vito Melita, Morena Melotti, Giuseppina Monaco, Gianni Monari, Anna Moruzzi, Letizia Obertis, Lea Oppenheim, Giovanna Palmieri, Manuela Palmieri, Andrea Pelati, Maria Grazia Percorari, Caterina Peronce, Licia Pongiluppi, Giovanni Provesi, Ondina Laura Quadri, Anna Raimondi, Claudia Retteghieri, Simona Righi, Michele Rodi, Maria Rossi, Lidia Rovatti, Annalena Ruggeri, Bernardetta Ruini, Lara Russo, Elena Rustichelli, Serena Saba, Osanna Sacchi, Viola Sansone, Antonia Serino, Carlo Alberto Setti, Marisa Sotgiu, William Stefani, Chiara Tabaroni, Luciana Tattini, Marcella Terrusi, Elisa Tinti, Andrea Tiraboschi, Goffredo Togliani, Francesca Toni, Maria Tusino, Francesca Vacchi, Mariavittoria Vecchi, Uliano Vescovini, Flavia Zaganelli Emanuela Zanotti, Enrica Zironi, Chiara Zompa. Prima assoluta: Bologna, Salone del Podestà, 3 aprile 2015.

Visto a: Bologna, Salone del Podestà, 3 aprile 2015.

 

 

 

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