Sono due angeli del vuoto, quello interiore, quello che riempiono con una bontà violenta, con una generosità aggressiva, con una perfidia spalancata sulla compassione. Due potenti che scoprono dentro di sé l’impotenza e la miseria, e ce le rigettano in faccia tutte quante. In una lenta epifania che si manifesta là dove l’idea sacra dell’altezza – cioè della montagna – si sposa con il concetto misterico della soglia – cioè del confine – svelando la verità dietro le simulazioni: un road-movie tanto picaresco quanto spirituale, graffiante e disperante. Modest reception (Paziraie sadeh) di Mani Haghighi (anche co-sceneggiatore insieme a un potente drammaturgo come Amir-Reza Koohestani) è un film bizzarro, spiazzante e complesso, divertente e disturbante, capace di toccare le corde profonde della corruzione umana con un racconto morale beffardo e patetico al tempo stesso.
Saranno le altitudini, ma è quasi inevitabile che la rivelazione avvenga su un monte. E non parlo solo di montagne sacre o montagne incantate, come sarebbe normale, e neanche di vette inaccessibili. Parlo di quelle montagne inospitali, poco spettacolari e apparentemente insignificanti, pronte ad accogliere visitatori ignari di affrontare un viaggio dentro sé stessi, all’inconsapevole ricerca della verità. Che, com’è prevedibile, non è mai quel che ci si può aspettare. E che, com’è altrettanto prevedibile, coinvolge anche lo spettatore in un viaggio condiviso con i protagonisti. L’inizio del film Modest reception non ha molto da invidiare ad Amici miei: il litigio parossistico tra lui e lei in automobile di fronte all’esterrefatta guardia di confine sul valico arriva a un esito imprevedibile, come uno scherzaccio vernacolare, e cioè il lancio di sacchi pieni di soldi alla guardia, seguito dalla fuga dei protagonisti tra le risate. Si capisce immediatamente dopo cosa stia accadendo: i due, con la macchina stracolma di sacchi di denaro, di cui sono legittimamente (e misteriosamente) in possesso, stanno percorrendo le montagne per regalare a tutti un po’ di quella fortuna. Ma lo fanno in modo originale e irrituale: mai come atto tradizionale di carità, ma sempre con un grande dispendio di energie e filmando la consegna. Di fronte al primo personaggio, per esempio, viene allestito un vero e proprio teatrino: un violento battibecco coniugale che ha come unico spettatore il beneficiario finale. Il secondo beneficiario, una sorta di eremita, è invece vittima di un’aggressione più profonda: prima obbligato a sorridere e ringraziare di fronte allo smartphone che ne dovrebbe riprendere la gioia per il dono, poi insultato perché osa dire che quei soldi non gli servono. Gli viene anche semi-distrutta la capanna, e infine viene convinto a tenere provvisoriamente quei sacchi grazie a una grossolana panzana. Il terzo episodio è più complesso. L’ambientazione è una taverna in cui i due “angeli del vuoto” si dividono. Lei nasconde una sacca nel retro e un’altra nel cesso pregustando il ritrovamento fortuito da parte dei rispettivi beneficiari, ma in entrambi i casi viene scoperta senza riuscire a imporre la propria elemosina. Lui, invece, prende di mira due bambini, che carica in modo eccessivo di sacchi di denaro purché rispondano in modo sbagliato a domande di matematica. Salendo in zone sempre più impervie, incontrano poi un povero contrabbandiere, la cui mula si è azzoppata e deve essere abbattuta: un beneficiario ideale. Nel gioco ormai estremo delle simulazioni, lei finge di essere una veterinaria che può – contro ogni logica – curare la bestia, la quale – contro ogni logica – sarebbe perfino incinta (i muli sono sterili). E’ la prima soglia importante a essere attraversata: il potere di vita o di morte sulla mula agonizzante ha un sapore inebriante; o meglio, la simulazione di questo potere, l’affermazione del possesso sulle vite. Il povero trafficante alla fine accetta il denaro lasciando la mula azzoppata; quando lui si allontana, i due ritornano sul posto per ammazzarla – come sarebbe stato logico fin dall’inizio –, ma l’animale è scomparso. La realtà si sottrae alla simulazione ricreata egoisticamente dai due “angeli”: il vecchio eremita, i frequentatori della taverna, la mula stessa sfuggono in modi diversi alla loro rappresentazione/falsificazione imposta dai due visitatori alieni, dispensatori di ricchezza non richiesta e soprattutto di alterazione della realtà (l’eremita e gli uomini della taverna devono, in quanto montanari, essere poveri e volere il denaro che è la misura identitaria della modernità cittadina; la mula deve essere incinta per sostenere l’arrogante carità dei due).
Il beneficiario successivo è vittima di un vero e proprio agguato: gli viene fatta trovare la borsa come per un caso, poi gli vengono richiesti indietro i soldi, adducendo giustificazioni ricattatorie (la vita di un bambino in pericolo). Ne segue un violento conflitto, dove al disperato bisogno di denaro del povero operaio di confine, che difende quei soldi della provvidenza sputati dalla terra scavata con sudore, si oppone una spudorata, rabbiosa e infantile volontà di affermazione di un torto. Ancora una volta, l’esplorazione del limite arriva quasi a un punto di non-ritorno che i prevaricatori stessi non osano toccare. Perché questo è un film di limiti, tutto giocato sul confine tra Iran e un altro paese verso cui tentare un inutile espatrio: un film di viaggio liminare, sia sul crinale geografico che su quello interiore, come fosse un road-movie di Bahman Ghobadi in cui Iran, Iraq e il negletto Kurdistan si incontrano, ospitando storie di ricerca identitaria, come in Marooned in Iraq o Half Moon. Ma il confine, proprio come Ghobadi ha mostrato in altri suoi film, non è una semplice linea di demarcazione, bensì una waste land di violenza e dolore. In Modest reception la guerra non è mostrata e non si avverte neanche, se non nelle parole, quasi come a ribadire la sua permanenza al di là dell’effettiva realtà. Quel “monte Verità” solcato dai due angeli neri di Teheran non è altro che uno squallido paesaggio bellico, dove esseri umani si trascinano schivando le bombe, che forse fanno meno male dell’arroganza dei ricchi cittadini che affrontano l’altrove dai loro caldi appartamenti per prendersi gioco dell’umiltà di chi sta in trincea, ai confini del mondo.
Non c’è fine agli incontri che si sviluppano in siparietti sempre più allucinati e allucinanti. Due camionisti che devono fare una consegna urgente di terra per un cantiere vengono omaggiati del denaro purché buttino via il carico e purché uno giuri sul Corano di non dare neanche un centesimo al fratello bisognoso. Il senso dell’onnipotenza, dovuta non tanto al possesso di denaro (possesso temporaneo: i due sono solo distributori, non proprietari) quanto al fatto di poter determinare arbitrariamente a chi elargirlo e di poterlo fare in modi scelti a propria discrezione, pervade i due protagonisti fino a spingerli verso confini sempre più temerari. Anche a costo di una rottura tra di loro, dovuta a una sorta di auto-disgusto per quella anomia che li sta spingendo verso l’incontrollabile. (Si potrebbe parlare di anomia del potere, in un certo senso: l’intero film si candida anche a una lettura come metafora sull’onnipotenza dei politici che gestiscono così il denaro pubblico, e sull’arbitrarietà del potere tout court). Punto di svolta è l’incontro con un povero padre che, solitario, sta scavando una fossa per seppellire la figlia neonata e subito morta: uno scavo doloroso, ma anche difficile per le condizioni del terreno ghiacciato. Come un diavolo tentatore, velenoso e mellifluo, l’angelo offre denaro per “comprare” il minuscolo cadavere e poterlo dare in pasto ai lupi. La scena è spietata, oltraggiosa, insostenibile: il padre resiste mentre il tentatore brucia il denaro per sfregio, promettendone tanto per la numerosa famiglia senza cibo, finché il primo accetta. Ora il potere è assoluto e conclamato: il protagonista ha verificato che tutto è possibile, perfino un tale oltraggio supremo, ma soprattutto ha esplorato gli abissi più oscuri e inimmaginabili del proprio cuore. In gioco non era il denaro né il potere: in gioco era la possibilità di conoscere a che punto l’essere umano può arrivare – non importa giustificato da cosa. Il monte della verità si mostra, folgorante, su questo pendio gelido, dove una neonata viene comprata per essere data ai lupi e dove un essere umano ha scoperto a cosa può arrivare. Perché il punto è questo: i due “angeli” non sono davvero cattivi, non vogliono davvero il male, vogliono “solo” scoprire il male dentro di sé. E infatti, disperato e con le lacrime agli occhi, in una sequenza di sconfinato dolore, corrusca di fiamme infernali e assordata dagli ululati, l’ “angelo” che ha scoperto di essere “demonio” si mette per pietas a scavare la fossa per seppellire il corpicino.
Intanto, lei è tornata indietro mentre cala la notte e il gelo si fa insopportabile. Ha ritrovato l’eremita, ancora in attesa che quei soldi tenuti in custodia vengano ripresi dai sospetti donatori. Ma soprattutto ritrova il beneficiario del cesso della taverna, insieme a decine di amici motorizzati, che circondano la macchina in un rombante carosello di bikers senza volto in una notte minacciosa come fosse l’ultima notte prima dell’Apocalisse. Saranno loro a prendere le decine di sacche di denaro ancora rimaste. Ricongiunti, ormai senza più la ragione prima del loro viaggio – la distribuzione di denaro, ma soprattutto la ricerca di sé –, i due ripartono all’alba, spossati di fronte alla rivelazione del vuoto. Troveranno nuovamente – contro ogni logica – la mula, e avranno un’ultima decisione da prendere: un corto circuito inatteso, quasi uno sfalsamento della realtà verso il presagio metafisico. Perché sulle montagne sacre e incantate può accadere anche questo, come ricorda un altro potente film iraniano come Fish & cat (girato l’anno dopo da Shahram Mokri), che racconta il campeggio di giovani cittadini sulle montagne dove forse troveranno la morte. Lì lo spazio attraversato da un unico spettacolare piano-sequenza e il tempo relativizzato da continue sovrapposizioni portano allo stordimento metafisico. E anche lì il luogo è un “monte Verità”, dove la rivelazione non riguarda tanto l’interiorità di ciascuno quanto il reticolato sociale in rapporto al contesto, in cui la natura preponderante schiaccia le figure umane che non ne avvertono la carica misteriosa.
Modest reception è un viaggio spietato, che inizia come la strampalata avventura di due pasticcioni, si sviluppa attraverso tappe di una via dolorosa distesa al termine della notte, e finisce come un’opera di profonda riflessione spirituale, che ci parla di morale e di perversione della morale, che ci parla di noi e di ciò che non abbiamo il coraggio di riconoscere in noi stessi. Perché ne avremmo paura. O forse fascino.
Modest reception (Paziraie sadeh, Iran 2012) regia di Mani Haghighi; sceneggiatura di Mani Haghighi e Amir-Reza Koohestani; con Taraneh Alidoosti, Mani Haghighi, Saeed Changizian, Esmail Khalaj, Saber Abar, Mohammad Aghebati, Danial Fathi, Himan Dehghani, Naghi Seyfjamali, Nader Fallah, Vahid Aghapoor, Mohammad-Reza Najafi, Ghorban Najafi; direttore della fotografia Hooman Behmanesh; montaggio Haydeh Safiyari; musica Feuermusik; scene Amir-Hossein Ghodsi; costumi Negar Nemati; produttore Jalal Shamsian.