Sono passati 90 anni da quando Walter Ruttmann decise di raccontare una città attraverso una partitura visiva incalzante e strabiliante. Berlino era soggetto e oggetto di una vera e propria Sinfonie der Großstadt: un maestoso concerto visivo-sonoro che si sviluppava nel tempo reale che va dall’alba alla notte, cogliendo l’incessante vitalità metropolitana, umanistica e urbanistica al tempo stesso, lasciando che le luci naturali e artificiali della città fossero il filtro per la nostra visione. La città di B./Berlino ci arrivava con tutto il suo splendore e le sue contraddizioni, sostenuta da un verismo lirico che dal documentarismo non aveva paura di sfociare nell’astrattismo o nella grande epopea post-futurista. Sono passati 900 anni da quando Bologna ricevette il diploma di città dalle mani dell’imperatore Enrico V, che riconobbe ai suoi cittadini una qualità più alta rispetto all’essere semplici cives, cioè quella di essere concives. Alla città di B./Bologna nel suo nono centenario Andrea Adriatico ha dedicato Bologna, 900 e duemila, composto da tre diversi spettacoli raccordati in modo unitario, i cui testi sono stati commissionati ad altrettante scrittrici: Porta della Rocca Ostile di Simona Vinci, Bo Bohème di Grazia Verasani e Per amor del cielo di Milena Magnani. Ne è uscita una Sinfonie che, come il film di Ruttmann, coglie la vitalità e le contraddizioni della città con uno sguardo al tempo stesso documentaristico e lirico, umanistico e urbanistico, lasciando che le luci naturali e artificiali della metropoli stessa guidino lo spettatore nella visione. Anzi, nella condi-visione di un’esperienza di viaggio.
Perché, in realtà, la città, poderosa nella sua staticità (“immota manet” è l’antico motto di L’Aquila, città natale del regista, beffato dal tragico terremoto del 2009), baluardo di fermezza rispetto al senso di fluidità dato da altri esempi di consorzi umani – la città, dicevo, è soprattutto un’esperienza di viaggio. Così Ruttmann decide di inaugurare la rappresentazione di Berlino con l’immagine di un treno che arriva alla stazione. Così Adriatico decide di aprire la rappresentazione di Bologna con l’immagine di un folto gruppo di viaggiatori in nero (magari usciti dalla stazione che sta proprio lì dietro), osservati in campo lungo sull’ampia piazza di Porta Galliera, che avanzano lanciando petali di rose e avvicinandosi fino al primo piano degli spettatori, su su fino alla cima della Scalinata del Pincio. Sarà seguendo quei viaggiatori dal Pincio (sede del primo spettacolo) al Giardino del Guasto e infine alla Torre degli Asinelli (sedi degli altri due), che gli spettatori potranno assistere a questa rappresentazione della città di B., partecipando cioè a un viaggio dentro la città. I testi stessi di Vinci, Verasani e Magnani ribadiscono in maniera quasi ossessiva l’identificazione di città e movimento: di questa città e di un certo movimento. Quella Bologna che Francesco Guccini cantava personificandola in “una vecchia signora / dai fianchi un po’ molli” che racchiude i suoi cittadini tra i “portici-cosce”, dunque con un’idea fortissima di staticità e chiusura, viene invece raccontata nei testi delle tre scrittrici, e poi nella loro reinvenzione registica, come una città legata all’idea del movimento incessante.
In Porta della Rocca Ostile Vinci racconta B. con gli occhi di una ragazza – una “creatura di luce” – che arriva dalla provincia e, attraverso di lei, racconta sprazzi della storia secolare della città. Lo spettacolo è allestito sulla scalinata monumentale umbertina che va alla Montagnola: di fronte agli spettatori si intuiscono la stazione ferroviaria oltre Porta Galliera e – pochi chilometri più in là in linea d’aria – l’aeroporto, dal quale si levano aerei in continuazione per tutta la durata dello spettacolo, rendendo potentemente evidente il senso di una città votata al movimento. Le vicende della studentessa fuorisede tra scoperta della vita, desideri e memorie, si intrecciano con la rievocazione di momenti storici e di qualità della città, che lentamente portano a una sovrapposizione tra la ragazza e la città stessa, che dunque ci appare personificata da una giovane migrante fragile ma resistente, che festeggia i suoi 900 anni adolescenti mentre attende alla stazione delle corriere insieme a un gruppo di teppisti che la insediano. Bologna non è una vecchia signora dal fisico sontuosamente ‘emiliano’, ma una creatura di luce esile che incarna il senso più puro del viaggio, dell’immigrazione e del movimento: “Della città le piacevano i varchi”. Del resto, B. sembra coincidere con la sua stazione ferroviaria (quella della strage del 2 agosto), la sua stazione delle corriere, il suo aeroporto da cui continuano a decollare e atterrare aerei mentre il sole inizia a calare tinteggiando di luce la punta delle chiome degli alberi della Montagnola, e infine con i suoi canali che ne fecero una piccola Venezia, dove un tempo esistette anche un porto rievocato ora sul limitare del Pincio bolognese rinominato “Porta della Rocca Ostile”: “L’undicesima porta, che a Oriente, sotto la protezione del segno zodiacale di libertà e indipendenza dell’Acquario accolse uomini e imbarcazioni nel suo porto fluviale, poco distante, e nel tempo, col tempo, ogni nodo di movimento prendeva forma da qui, treni, corriere”.
Gli spettatori sono risucchiati dal movimento, molti di loro ne sono parte in una città che – secondo le statistiche – cambia il 25% della propria popolazione ogni 10 anni: “Sempre arrivano nuove persone nei posti della terra, spingono valigie con le ruote, portano sacche, zaini, borsoni”. Del resto, B. “è una nave”, nelle parole del coro femminile che declama le parole attraverso piccoli megafoni sfidando il rumore incessante di auto, moto, autobus, musiche e schiamazzi sullo sfondo di passanti che indugiano o che si affrettano verso una fermata d’autobus o verso la stazione. Del resto, B. è a “forma di cuore”, con dodici entrate, dodici porte attraverso cui passano altrettante strade, dalle quali entrano ed escono in continuazione le persone. La fine del primo spettacolo, coerentemente, non è una vera fine: i viaggiatori ripartono con i loro trolley tutti uguali, in fila, muti, seguiti dagli spettatori. Il percorso a piedi verso il secondo spazio è parte integrante dell’intero spettacolo, anzi, forse ne è la parte concettualmente più sottile. Non è semplice spostamento, ma messa in scena della città: teatro documentario allo stadio più limpido. Mentre la luce diurna digrada lentamente verso il crepuscolo e il tramonto, seguiamo i sedici viaggiatori e intanto osserviamo il giardino della Montagnola nell’ora in cui si attardano passanti e podisti; Piazza 8 Agosto, sede del grande mercato che si è da poco concluso, e che ora è invasa da cumuli di scatoloni e spazzatura varia, ripulita dai macchinari del Comune che corrono all’impazzata su e giù schivando la colonna degli attori e degli spettatori; le strade strette del quartiere più vissuto dagli studenti, come la studentessa-Bologna che abbiamo conosciuto poc’anzi, fitto di ragazzi dediti all’happy hour e all’apericena, dentro e fuori locali, pub, kebab, trattorie, che osservano straniti l’incomprensibile processione muta.
Si arriva così alla seconda tappa, dove alla vivace coralità del primo e all’ampiezza panoramica si succedono ora – come in un formidabile zoom – il dialogo intimo di due personaggi e l’hortus conclusus del Giardino del Guasto, che, proprio come la precedente location, è una piccola altura che sorge sulle rovine di un palazzo distrutto anticamente dalla furia popolare contro il potere di ricchi e nobili. Il Guasto è un giardino di cemento, chiuso da muri di cemento e dalle case che lo circondano: è qui che prende forma Bo Bohème di Grazia Verasani, che vede protagonista una vecchia pseudo-cantante punk alternativa degli anni 70/80 dal nome Ketty Frega, sfiorita nel ricordo di amici morti o riciclati nel sistema e soffocata dalle nostalgie per una B. che sembra aver rinnegato gli ideali e le azioni di un’epoca libertaria già svaporata. Lei, ormai ridotta su una sedia a rotelle, è accompagnata da uno studente volontario, che rappresenta davvero un altro mondo: il dialogo è tra due mondi distanti eppure disponibili in qualche modo a entrare in rotta di collisione, il mondo di chi sembra vivere nel passato eppure sente con forza la vitalità di una B. che non può tradire, e quello di chi sembra proiettato nel futuro ma è paralizzato da un’apatia ben poco giovanile. Più incontro che scontro generazionale, che assume l’immagine potente di un mezzo di locomozione inusuale: una bicicletta speciale che consente il trasporto di una sedia a rotelle.
L’anziana e il giovane sono parte dello stesso macchinario che dichiara la sua funzione di movimento, ma al tempo stesso blocca entrambi, quasi fosse un cyborg bicipite, un’entità unica – ancora una personificazione della città? – che unisce la memoria e il presente, in una sovrapposizione temporale che ha il fascino di una contraddizione inestricabile. Il ragazzo spinge sui pedali, spostando il mezzo sulla base degli ordini secchi della donna – “Buio! … Luce!” – in una dinamica beckettiana non distante da quel finale di partita che sembra essere la condizione attuale di questa città. Anche qui, come in Beckett, siamo visivamente in una sorta di bunker (a cielo aperto), uno spazio angusto, quasi claustrofobico, dove i movimenti avanti e indietro della bicicletta-carrozzella-cyborg sono falsi movimenti, così come i dialoghi, che parlano di una B. libertaria che non c’è più, di generazioni incapaci di comunicare, di uno stallo sociale e politico incancrenito, restituito come una tragedia umoristica. Sul fondo del giardino che ospita questa strana coppia, che si confida a bassa voce come in un monologo interiore, illuminata a stento dai lampioni gialli del giardino, stanno gli altri viaggiatori, sparsi a piccoli gruppi o solitari, in riposo, a disegnare un paesaggio quasi giorgionesco, dove natura e figure umane si dipanano in misterioso e languido contrappunto. Anche la fine del secondo spettacolo comporta la ripartenza del gruppo di viaggiatori e, a seguire, gli spettatori. Questa volta il percorso è da Piazza Verdi e via Zamboni fino alle Due Torri: il cuore della movida notturna studentesca, che ci viene presentata ancora una volta come un secondo squarcio documentaristico e che rivela, nell’oggettiva epifania della realtà di veri studenti disseminati tra pub, locali e gruppi in strada, quella mutazione antropologica che Bo Bohème ci aveva descritto a voce poc’anzi. Il cammino è ora non solo parte indispensabile dell’intero lavoro, ma chiosa necessaria al dialogo appena ascoltato, estensione reale di un discorso teatrale.
Il viaggio termina, ormai a notte, ai piedi della Torre degli Asinelli, cuore emblematico di B. che Milena Magnani interpreta nel suo Per amor del cielo come materializzazione del secolare sogno di ascesa della città. Ascesa sociale, politica, ideale, capacità di immaginare, desiderare, creare: Babele mai crollata a cui spetta il compito di memento di un fulgore passato che deve ritornare. La torre è oggetto di un’occupazione: dalla terrazza un gruppo di donne scandisce slogan femministi e movimentisti, brandendo fumogeni. Alla base, la Grancontessa reclama di ritornare in possesso della sua torre, circondata dalla Guardiana e dai Cortigiani: medioevo e contemporaneo si intrecciano giocando sul paradosso e creando situazioni comiche. Dagli spazi definiti del Pincio e del Guasto, che allo spettatore richiedono in modi diversi un’attitudine alla ricezione prettamente teatrale, si passa a uno spazio che evoca il teatro di strada e richiede al pubblico un’attenzione diversa: non pubblico di un evento teatrale, ma cittadinanza convocata ad assistere a un netto scontro tra due forze contrapposte, quella delle donne che occupano da dentro la Torre degli Asinelli urlando slogan dai megafoni e quella della corte antiquata e paludata che da fuori reclama il proprio diritto a entrare dentro il simbolo della città e ad ascendere verso altri orizzonti. Storia di uno sgombero di occupanti, come B. ci ha abituato negli ultimi tempi chiudendo centri sociali e case dove avevano trovato rifugio poveri e immigrati, ma storia di uno sgombero inattuato e inattuabile, con i cortigiani che cercano invano di convincere in tutte le lingue le occupanti a scendere e queste ultime che dall’alto dei 90 metri dell’edificio gettano su di loro e sugli astanti gomitoli di lana rossa, chiedendo “che questa torre con le sue basi di selenite torni ad essere / un luogo di fantasie! / Che si rimetta al centro di uno spazio aperto, / dove le infinite direzioni del vivere / si possano spalancare”.
Il crocevia dove sorge la torre è ombelico di un movimento radiale che schizza verso un altrove, che siano l’altezza o la distanza, ma solo idealmente, perché oggi B. “fa il rumore di una barca a motore spento”, altro che nave! E allora, per ridare linfa alla città, per ripartire, ecco snocciolato dall’alto della torre un pantheon che sfugge alle aspettative dell’occasione celebrativa, nomi che hanno rappresentato per Bologna altrettanti momenti di orgoglio per pensieri o azioni da cui occorre ripartire: da Roversi a Pasolini, da Leo de Berardinis a Patrizia Vicinelli, dal giovane anarchico Anteo Zamboni al militante gay Stefano Casagrande, da Francesco Lorusso ucciso dai carabinieri a Irma Bandiera uccisa dai fascisti, da Mario Barbani obiettore di coscienza a Tullio Contiero prete cooperante, dal sociologo Giuliano Piazzi al giuslavorista Marco Biagi. Una cascata di nomi ed emozioni che si materializza in una pioggia di veri e propri ‘santini’ lanciati dalla torre sul pubblico. Un invito a “sfidare le alte quote” che dà senso nuovo all’identificazione di città e movimento che ha caratterizzato l’intero progetto di Bologna, 900 e duemila. Perché B. è una città fluida in orizzontale, come l’evocazione compiuta nel primo pezzo dei canali, delle stazioni, delle porte aveva suggerito; e poi è una città dai movimenti concentrici, implosivi, come aveva mostrato l’immagine della donna in carrozzella nel secondo pezzo; e infine è un città che è chiamata a muoversi in verticale, ad ascendere ripercorrendo le ambizioni di un medioevo che la trasformò in una città turrita come una selva, ma declinate secondo un’aspirazione politica attuale, dove le grandi altezze non si misurano più in metri di mattone ma in chilometri di “mondi liberi (…) diritti indiscutibili (…) rispetto sociale”.
Il film Berlin – Die Sinfonie der Großstadt si conclude con girandole e fuochi d’artificio, mentre dall’alto dell’imponente Torre della Radio, inaugurata soltanto l’anno prima, si irradia un potente raggio di luce. La trilogia della città di B., dal titolo Bologna, 900 e duemila, termina con i fumogeni accesi sulla Torre degli Asinelli, da cui si irradia una richiesta luminosa alla città, mentre questa si affretta verso il futuro, correndo in taxi, in autobus, in auto, in bici, a piedi… e pur sempre in movimento.
Bologna, 900 e duemila; un progetto di Andrea Adriatico per Teatri di Vita. Tre autrici, tre pezzi di storia, una città: Porta della Rocca Ostile di Simona Vinci, Scalinata del Pincio; Bo Bohème di Grazia Verasani, Giardino del Guasto; Per amor del cielo di Milena Magnani, Torre degli Asinelli. Per Anna Amadori, Rossella Dassu, Olga Durano, Angela Malfitano, Francesca Mazza, Eva Robin’s, Carolina Talon Sampieri, Selvaggia Tegon Giacoppo; e per Anas Arqawi, Leonardo Bianconi, Gianluca Enria, Luca Forestani, Francesco Martino, Lorenzo Pacilli, Alberto Sarti, Davis Tagliaferro; prodotto con la cura di Stefano Casi, Daniela Cotti, Saverio Peschechera, Alberto Sarti, Corrado Trincali; supporto tecnico di Salvatore Pulpito, Rabii Sakri; con il supporto tecnico di Protec Ambiente e Dynamo la Velostazione di Bologna, FRIDA’s Italian Flower Stores; produzione Teatri di Vita, con la collaborazione del Teatro Comunale di Bologna e Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna, con il sostegno di Comune di Bologna, Regione Emilia-Romagna, MiBACT e Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna, nell’ambito di CONCIVES 1116 – 2016 Nono centenario del Comune di Bologna sotto l’Alto Patronato della Presidenza della Repubblica. Prima assoluta: Bologna, 15 maggio 2016.
Visto a: Bologna, 15 maggio 2016.