La geometria si addice a Calderón. Lo aveva intuito da subito Luca Ronconi, primo regista della tragedia di Pier Paolo Pasolini. Aveva sfondato il palcoscenico, con l’aiuto di una scenografa come Gae Aulenti, sollevando l’intera platea, risucchiandola nello spazio scenico (diventato abnorme e pervasivo), nel quale i personaggi si muovevano seguendo traiettorie geometriche. Era il 1977 e l’intuizione aveva la coerenza di una scelta ideologica: l’impossibilità di Rosaura di sfuggire dal cerchio avvolgente della borghesia si manifestava visivamente attraverso la riproposizione di figure geometriche chiuse e ridondanti come il cerchio e il quadrato, evidenziate sul pavimento e ripercorse dai movimenti degli attori. D’altra parte, Calderón è di per sé opera geometrica, non foss’altro che per la rigida struttura tripartita dei tre risvegli di Rosaura, prima in un contesto familiare aristocratico, poi sottoproletario, infine borghese.
Federico Tiezzi sembra recuperare proprio la visione del primo regista di Calderón, sovrapponendo alla propria interpretazione la sensazione di un omaggio, che torna in alcune scelte (peraltro non del solo Ronconi) come quella di utilizzare tre attrici diverse per Rosaura o quella di far calare dall’alto i costumi vuoti che compongono il quadro di Velásquez Las meninas. Ma anziché confrontarsi con cerchi e quadrati, si mette a giocare con il filetto – o come si chiama il gioco che un tempo compariva nel retro delle scacchiere –, gioco semplice ma di sottile strategia, in cui le pedine si muovono su alcuni quadrati concentrici. Il disegno geometrico steso sul pavimento della scena sembra proprio richiamare quel gioco. E, d’altro canto, sembra la spia di un pensiero più articolato. Tutti, o quasi, i personaggi indossano costumi che sono variazioni sul tema del clown e delle maschere, Arlecchino compreso, e alcuni si comportano proprio nel senso di un gioco teatrale che rimanda alla Commedia dell’Arte e alle sue infinite reincarnazioni. Ma in quale jeu / play / Spiel stiamo entrando?
Un passo indietro. In questa tragedia, come in tutte le altre, Pasolini corre sul doppio binario dell’analisi critica della società e della vertigine ossessiva dell’indicibile. Il discorso razionale e intellettuale, esposto in versi cristallini dalle nuances saggistiche, si intorciglia in un magma incandescente in cui si spurgano osceni (cioè da non mostrare sulla scena) umori corporali e desideri indicibili come in sogni, incubi, visioni, deliri. Racine alimentato da Sade, verrebbe da dire. Da una parte, abbiamo l’esposizione di un teorema: l’individuo ‘straniero’ assorbito dall’omologazione sociale, prima nel contesto aristocratico, poi in quello sottoproletario, infine in quello borghese, nel quale ogni alternativa precedentemente presente viene azzerata fino alla prefigurazione del lager come condizione attuale. Dall’altra, abbiamo vertiginose sciabolate di ‘orrore’: la prima Rosaura aristocratica è innamorata del vecchio rivoluzionario, ma scopre di essere frutto della violenza sessuale da lui compiuta sulla madre che fa parte del ‘sistema’; la seconda Rosaura prostituta è innamorata del ragazzo, ma scopre di esserne la madre; la terza Rosaura borghese, dopo aver sovvertito le regole linguistiche della sua classe e aver fatto l’amore ‘in sonno’ con un giovane sessantottino borghese, approda alla visione del lager. La tragedia è scandita da sogni (non ricordati), da risvegli, da psichiatri, da ripetizioni e da continui riferimenti alla Spagna, che dalla normale contestualizzazione sfociano spesso nell’ironia: una Spagna quasi immaginaria, o perlomeno reinventata. Una tragedia umoristica, come tutte quelle di Pasolini, dove umorismo significa assunzione della cifra ‘umoristica’ che Pasolini riconosce nella borghesia e che serve alla borghesia per distaccarsi – giocando – dalla realtà.
Rifacciamo un passo avanti. Torniamo, cioè, allo spettacolo costruito da Tiezzi, con un protagonista come Sandro Lombardi (con cui condivide la drammaturgia, insieme a Fabrizio Sinisi) col quale aveva già esplorato il teatro pasoliniano in un’importante realizzazione di Porcile nel 1994, tutta giocata sul filo del grottesco, della complessità psicoanalitica (con una inedita distribuzione dei personaggi) e di un cromatismo acceso in bilico tra Francis Bacon e il pop. In questo caso, invece, la scelta punta su altro: al grottesco si sostituisce l’ombra sbiadita di una clownerie tradizionale, alla complessità si sostituisce una linearità che scioglie la psicoanalisi nella fenomenologia familiare, al cromatismo acceso si sostituisce una predominanza del bianco e nero – ancora una volta di grande impatto visivo – che stilizza le immagini, allontanandole e al tempo stesso quasi riducendole a fotogrammi di una vecchia pellicola espressionista. Altro elemento significativo è la scenografia, pesantissima: tre pareti che delimitano la scena offrendo il senso di una chiusura claustrofobica; quasi muraglie piuttosto che muri. Tutto accade dentro questo spazio che sembra non promettere nulla fuori da sé, una sorta di prigione atemporale e identica in ogni diverso contesto (aristocratico, sottoproletario, borghese: nessuna variazione!), dove la ‘chiusura’ formalmente geometrica del filetto scandisce gli spostamenti del letto (che qui è al tempo stesso podio, totem assoluto, paradigma dello spazio scenico come spazio dove i sogni diventano materia) e le posizioni di sedie e persone. Il combinato dei muri e del filetto a terra ci restituisce una sorta di macchina diabolica, dalla quale è impossibile uscire – nonostante l’apparente sfondamento conclusivo (che però ‘sfonda’ verso la rievocazione verbale del lager, e dunque è solo apparente) –, come nel film “Cube” di Vincenzo Natali del 1997, dove le geometrie dello spazio chiuso nascondevano come in un gioco possibili vie di fuga sistematicamente fallaci. Come in un brutto sogno.

Gioco, sogno: proprio questi due concetti sembrano dunque essere i perni del lavoro di Tiezzi, che arriva a Calderón per raccontare l’omologazione borghese attraverso la prigione/dissoluzione familiare (lo spettacolo è presentato come ultima parte di un trittico su questi temi), ma che poi si ritrova con un meccanismo diabolico, un congegno a orologeria che schizza altrove. Nel gioco, nel sogno, appunto. E così Calderón recupera un’identità finora trascurata, quella del gioco di ruolo, esaltando proprio l’aspetto più strettamente ludico. Perché, in fin dei conti, è proprio sui ruoli sociali e sulle relazioni interpersonali giocate da ciascuno che la tragedia di Pasolini fonda la sua essenza più – al tempo stesso – teatrale e ludica, mostrandosi come puro jeu / play / Spiel (non a caso rifacendosi alla Vita è sogno di Calderón de la Barca, anch’essa impostata proprio sull’assunzione del ruolo e sul perfido gioco del Potere). Ecco allora che lo spettacolo, costruito su uno schema da filetto, si rivela attraverso la capacità di ciascun personaggio di riconoscere e mantenere un suo ruolo, arrivando ad accettare l’assunzione delle maschere, fossero pure quelle di un clown invecchiato o di un Arlecchino svogliato, evanescente e sghembo come quello di Cézanne e infantile e triste come quello di Picasso. Perché poi, il problema è centrale: qual è la maschera di Rosaura? Qual è il suo ruolo? A quale gioco sta giocando o quale gioco si rifiuta di giocare?
Il discorso impatta, coerentemente, con l’aspetto più propriamente teatrale voluto da Pasolini: il tableau vivant del quadro di Velasquez Las meninas. L’autore ne immagina una sua riproposizione fedele, una vera ricostruzione. Già Ronconi lo aveva in qualche modo distillato e molti registi lo avevano piegato e reinventato. Tiezzi, invece, lo ricrea man mano, ma solo con piccoli tratti allusivi, prestati dai suoi personaggi, come se essi – che già fanno parte di un gioco di ruolo – si prestassero a un ulteriore gioco di ruolo (al quadrato) impersonando i fantasmi pittorici voluti da Pasolini. Non c’è riproposizione de Las meninas, ma c’è un giocare con la sua prossemica e la sua gestualità. Come quando si cerca di ricordare un sogno per allusioni e memorie incerte. Al punto che lo spettatore che non conosce il testo di Pasolini o il quadro di Velasquez non è in grado di riconoscere quei segni che pure per Pasolini sono fondamentali nella sua tragedia: perché il punto non è più quello, così come non è più la funzione allegorica che l’autore aveva affidato a quel quadro rispetto alla rappresentazione del Potere e alla collocazione dell’intellettuale dentro e fuori l’opera (e dunque dentro e fuori l’oggetto che denuncia e a cui pure aderisce, e la cui ultima epifania sarà la pianista di Salò). A Tiezzi non interessa tutto ciò: ciò che gli interessa è esaltare soprattutto l’aspetto dell’ingranaggio ludico della ricostruzione e della sua riconoscibilità, risucchiando nel gioco del riconoscimento (o del mancato riconoscimento) anche lo spettatore.
Il Calderón di Tiezzi è insomma la messa in evidenza della centralità del sistema del gioco di ruolo nella tragedia pasoliniana. La scelta stessa di limitare la presenza dello Speaker al solo monologo iniziale (che fonda, appunto, le ‘regole’ del gioco) ne è una spia. Tanto più se, in questo allestimento, lo Speaker non è personaggio altro (o addirittura non-personaggio) come nella volontà di Pasolini, ma è dichiaratamente Basilio, anzi – esplicitamente – l’attore che interpreta Basilio: insomma, ruolo all’ennesima potenza, in un gioco che è gioco all’ennesima potenza.
In tutto questo ha una sua legittimità la domanda che si fa Laura Marano su Paper street, che parla di questo spettacolo come di un appiattimento in quanto “ritratto onirico di una borghesia estinta” che allontana il dramma dalla nostra realtà: “ha ancora un senso oggi (…) la denuncia contro quella classe borghese, in cui la società contemporanea ha smesso di riconoscersi e di cui siamo il frutto più maturo?”. Il punto, insomma, sarebbe capire quanto sia pertinente un nuovo allestimento odierno di Calderón nel momento in cui la borghesia sembra aver annullato la percezione stessa di sé come classe, cioè nel momento in cui – come Pasolini aveva esplicitamente detto proprio a cominciare dagli anni in cui scriveva le sue tragedie – non esiste alcun’altra identità sociale al di là della borghesia. E soprattutto, se capisco bene ciò che intende Marano, quanto sia pertinente questo allestimento nel sollevare queste questioni, lasciandole apparentemente in secondo piano rispetto a quello che sembrano essere i nuclei portanti dello spettacolo, che credo di aver individuato nella famiglia e nel sogno uniti da un’idea di gioco di ruolo come chiave dei rapporti e dimensione umoristica della realtà tragica in cui viviamo. Su questo sospendo il discorso. Lo spettacolo sembra in effetti allontanarsi da una chiave più strettamente politica, così come da una chiave più prettamente tragica: il punto è capire se il congegno ludico in cui si incuneano schegge sibilanti di analisi critica della società, che dagli anni ’60/70 rimbalzano fino a noi, riesca ad avere quel valore di teatro critico che era sostanziale per Pasolini. Insomma, se oggi la borghesia non è più una classe, ma una condizione ormai ontologica del nostro essere, ineliminabile ma di cui occorre avere coscienza (critica), è più utile un’opera di denuncia della borghesia o un’opera che ne metta in luce le ‘regole’ come in un gioco di ruolo?
Calderón di Pier Paolo Pasolini; regia Federico Tiezzi; drammaturgia di Sandro Lombardi, Fabrizio Sinisi e Federico Tiezzi; con Sandro Lombardi, Camilla Semino Favro, Arianna Di Stefano, Sabrina Scuccimarra, Graziano Piazza, Silvia Pernarella, Ivan Alovisio, Lucrezia Guidone, Josafat Vagni, Andrea Volpetti, Debora Zuin e con la partecipazione straordinaria di Francesca Benedetti; scene Gregorio Zurla; costumi Giovanna Buzzi e Lisa Rufini; luci Gianni Pollini; movimenti coreografici Raffaella Giordano; canto Francesca Della Monica; assistente alla regia Giovanni Scandella; la canzone Ahi desesperadamente è stata appositamente musicata da Matteo d’Amico; foto di scena Achille Le Pera; produzione Teatro di Roma e Fondazione Teatro della Toscana. Prima assoluta: Roma, Teatro Argentina, 20 aprile 2016.
Visto a: Bologna, Arena del Sole, 12 maggio 2016.
[…] quel Nuovo Teatro che lui aveva indicato, anche a costo di ‘tradirlo’. Dalla visionarietà dei Magazzini (Porcile) si arriva ben presto a nuove generazioni cresciute lontano dai modelli teatrali […]
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