
Nel 1966 Pier Paolo Pasolini decide di dare il proprio contributo all’auspicata rinascita della drammaturgia italiana, non con una singola opera, ma con un ‘pacchetto’ di testi sui quali investe molte energie fino al 1968 per lasciare un segno forte e controcorrente. Lo si capisce fin dalla scelta anti-moderna di scrivere tragedie in versi in un periodo in cui le novità sui palcoscenici ripetevano cliché convenzionali da teatro borghese o azzardavano affondi da teatro politico, mentre chi voleva davvero andare controcorrente animava e agitava le cantine underground, spezzando le catene della verbosità e privilegiando la visionarietà e la fisicità. In quel contesto, la scelta di Pasolini sembrò quella di un letterato incapace di rinunciare alla tradizione libresca e di comprendere la vera essenza del teatro. Ma lui tirò dritto, fino a portare in scena egli stesso una delle sue opere, cercando di dimostrare quanto, invece, le sue tragedie in versi fossero la vera alternativa a un teatro impantanato in vecchie e nuove ritualità. Proponendo insomma un nuovo rito, fondato sul teatro di poesia.

Apparentemente le 6 opere che portò a termine (o quasi: Bestia da stile rimase incompiuta) stanno sul solco della tragedia greca, e non solo per le citazioni esplicite, come nel Pilade. Pasolini indicò il suo debito nei confronti della tradizione attica nella struttura delle opere stesse, nella qualità dei personaggi, nel rapporto tra azione e narrazione, che peraltro richiamano anche la tragedia barocca dell’amato Jean Racine. Ma sarebbe sbagliato fermarsi qui. Perché il teatro di poesia di Pasolini ha poco a che fare con la tragedia greca, e sta piuttosto nel solco del grande rinnovamento del verso teatrale che ha attraversato il teatro europeo fin dagli inizi del 900. Pasolini era consapevole del provincialismo italiano nei confronti di questo tipo di scrittura: attori e spettatori abituati al verso alfieriano e dannunziano o alla prosa goldoniana e pirandelliana non avrebbero mai compreso davvero la forza innovatrice del suo teatro di poesia. Sperava che le sue tragedie fossero tradotte all’estero. Cercò perfino dei registi americani, e non è un caso che la prima mondiale della sua Affabulazione sia stata diretta da Peter Lotschak nel 1973 al festival austriaco Steirische Herbst, così come non è un caso che le primi due monografie sul suo teatro siano state scritte in Germania e in Inghilterra negli anni 80 da Jutta Linder e William Van Watson. Per capire il teatro di Pasolini e la specificità della sua scrittura in versi, insomma, occorre la prospettiva europea, evitando il trabocchetto della mera filiazione dalla tragedia greca.

Occorre ripartire da William Butler Yeats, che Pasolini aveva letto e amato negli anni universitari insieme agli altri drammaturghi irlandesi: è lui il fondatore moderno del teatro in versi, che pone la parola poetica al centro della scena, non come esercizio di stile o eco letteraria, ma per la potente carica non realistica ma evocativa della parola, che impone all’attore una grande concentrazione, sottraendogli la facile presa sul pubblico con la mimica e la gestualità, richiedendo piuttosto attenzione al fluire ritmico. Ci penserà poi Thomas Stearns Eliot a sperimentare un teatro di poesia più vicino a un ritmo prosastico, mentre il francese Paul Claudel scriverà i suoi versi obbligando l’attore a ridefinire il ritmo della respirazione. Il teatro di poesia di Pasolini si innesta in questo specifico tracciato della drammaturgia europea ed è contemporaneo a un’ondata più recente, questa volta di lingua tedesca, che vede Peter Weiss agganciare la ritmica del verso alla grande evocazione storica e politica (Pasolini legge Marat-Sade immediatamente prima di scrivere le sue tragedie) e Heiner Müller muovere i primi passi nella versificazione che reinventa i miti classici. Le tragedie di Pasolini sono innervate della tradizione novecentesca e si accompagnano al recupero europeo del verso teatrale negli anni 60, così come dialogano intensamente con la beat generation, di cui si sentono richiami (per esempio nel finale di Affabulazione), e con Allen Ginsberg, che Pasolini conosce personalmente proprio nei mesi in cui inizia le sue tragedie e le cui poesie considera «una lettura fraterna». Forse «fratelli» anche perché figli del verso ostico e intellettuale, ma dal ritmo sofferto e misterioso, di quell’Ezra Pound che Pasolini volle conoscere, sempre in quei suoi due fatidici anni “teatrali”, facendone riecheggiare le parole e la polemica anti-moderna fin dentro le sue tragedie.

Insomma, non c’è letterarietà nel verso tragico pasoliniano, ma c’è tutto il furente ribollire di una scena mondiale che, ripensando alla potenza del blank verse di Shakespeare, scopre la modernità spaesante dell’oralità del verso per portare a teatro temi sempre più impegnativi, in un secolo complesso dove tutto è contaminato e dove poesia e teatro convivono, grazie a Yeats, Eliot, Claudel, Weiss, Müller, Pasolini e altri: non per rimpiangere il passato, ma per ripensare alla funzione del poeta e della sua ispirazione negli anni del trionfo della borghesia e dell’amore borghese per la chiarezza e consumabilità dell’opera. Certo, l’impronta greca nelle tragedie di Pasolini è imprescindibile, e d’altronde il dialogo con Eschilo era già avvenuto direttamente nel 1960 nella vivace traduzione dell’Orestiade per Vittorio Gassman e Luciano Lucignani, che però aveva esplicitamente legato alla lingua poetica delle sue Ceneri di Gramsci. Pasolini non vagheggia Atene, semmai ritrova una nuova Atene nella società italiana che sta distruggendo la tradizione e abdicando alle leggi del consumo e al trionfo della borghesia. Il suo teatro di poesia riparte necessariamente dal senso di Gramsci, o meglio del nuovo intellettuale che si erge contro l’omologazione, e perciò ha bisogno di esprimersi e rappresentarsi in modo nuovo.

Per questo, il grande cruccio di Pasolini fu il non riuscire a individuare attori capaci di interpretare le sue opere, cioè di porgere agli spettatori quelle parole poetiche con la forza dei loro sensi e la qualità ritmica e fonetica del verso. Dalla mediocrità salva solo pochi attori, tra cui Eduardo De Filippo, ma non individua interpreti adatti per le sue tragedie. Ma come andrebbero recitati quei versi secondo l’autore? Stabilire un’ipotesi tecnica non è possibile. Solo due tracce ci possono aiutare, pur nella loro fragilità. La prima sta in un saggio in cui Pasolini accenna alla recitazione di Duse e Petrolini, e poi scrive che Umberto Saba, quando legge le sue poesie, «è uno straordinario fenomeno di “teatro”», grazie alla buffa pronuncia triestina e al «registro melodico»: ovvero, anti-accademismo e sensibilità musicale. La seconda traccia è la registrazione della messa in scena di Orgia, diretta da Pasolini nel 1968 per lo Stabile di Torino, che vede come protagonista Laura Betti, che agli occhi di Pasolini incarna ciò che più si avvicina al nuovo attore che ha in mente, proprio grazie al suo anti-accademismo e alla sua sensibilità di cantante. Durante la rappresentazione la parola non è declamata né enfatizzata, ma recitata con un tono piano, quasi didascalico, che nei passaggi più drammatici assume forti sfumature ironiche, sottolineato dal timbro dell’impianto di amplificazione dei microfoni diffusi attorno alla scena e dalla sostanziale fissità degli attori, con un effetto da recitativo di melodramma.

Quel che è certo è che il teatro di poesia di Pasolini ha assunto con il tempo una potenza sempre maggiore, grazie in primo luogo ad attori cresciuti lontano dai modelli dell’epoca e formatisi sulle complesse stratificazioni della drammaturgia di fine secolo (e inizio del nuovo secolo), e quindi capaci di rapportarsi con quei versi con una sensibilità nuova. E grazie a registi che hanno lavorato su quei testi come su dei classici. Subito dopo la sua morte, tra il 1977 e il 1978, è l’impegno di due mostri sacri a imporre all’attenzione il teatro di Pasolini, mostrandone le potenzialità sceniche: Vittorio Gassman (Affabulazione, di cui farà dieci anni dopo un nuovo allestimento col figlio Alessandro) e Luca Ronconi (Calderón), il quale tornerà più volte su Pasolini con la sua sensibilità sulla parola e sugli spazi (Affabulazione, Pilade e ancora Calderón). Si apre così il confronto del grande teatro col repertorio pasoliniano (dal Calderón politico di Giorgio Pressburger all’anti-pasoliniana Orgia di Massimo Castri), che culmina nella sfida di Cherif all’opera-monstre Bestia da stile, finché negli anni 90 è dalle compagnie di innovazione che arriva la spinta ad affrontare Pasolini come parte di quel Nuovo Teatro che lui aveva indicato, anche a costo di ‘tradirlo’. Dalla visionarietà dei Magazzini (Porcile) si arriva ben presto a nuove generazioni cresciute lontano dai modelli teatrali dell’epoca e capaci di leggere Pasolini come un classico. Tra il 2002 e il 2004 sono registi come Valter Malosti e Andrea Adriatico (entrambi con Orgia) e Antonio Latella con ben tre spettacoli (Pilade, Porcile, Bestia da stile) a sperimentare soprattutto il rapporto tra poesia teatrale e fisicità del corpo dell’attore. Una spinta che arriva ai giovani artisti di oggi, che riallacciano il dialogo con Pasolini con una sensibilità attuale e libera, come fanno tra il 2015 e il 2016 Fabio Condemi (Bestia da stile) e Licia Lanera (Orgia).

Quella che poteva sembrare la velleità teatrale di un poeta ha dimostrato di essere la base di una nuova tradizione drammaturgica: Affabulazione, Bestia da stile, Calderón, Orgia, Pilade e Porcile sono tuttora una sfida per gli artisti e per il pubblico, un gorgo affascinante e disagevole in cui farsi risucchiare rischiando di annegare. E tutto questo non solo per le storie politiche o erotiche, autobiografiche o mitopoietiche, non solo per i temi e le riflessioni, ma anche e soprattutto per l’inquietudine dei versi in cui sono scritte e devono essere recitate: poesia che a tratti finge di essere prosa, che si espande e restringe in versi pulsanti come battiti cardiaci, che riportano lo spettatore a un’idea di teatro e di rito che lega, per vie misteriose, i nostri anni contemporanei agli albori della performatività arcaica, alla tragedia greca sì, e a Racine certo, ma anche all’invettiva di Pound e all’irruenza di Ginsberg, alle sottigliezze di Eliot e alla lucidità di Weiss, al magma di Müller e al respiro di Claudel, insomma al punto più alto della poesia, ossia la poesia che si fa voce: il teatro, appunto.

(Ripropongo qui con qualche modifica il mio articolo pubblicato sul trimestrale “Hystrio”, n. 2, aprile-giugno 2022, nel dossier “Teatro di poesia” a cura di Giuseppe Liotta, Marco Menini e Roberto Rizzente)