
Nei primi giorni di settembre 2022 si è svolta la finale del Premio Scenario infanzia, con la partecipazione di 10 giovani formazioni artistiche impegnate a presentare i loro progetti di teatro per l’infanzia e l’adolescenza. In questa occasione è stato rinnovato per la sua terza edizione il “tavolo critico” di osservatori “speciali” che hanno seguito tutti i lavori e alla fine hanno scritto una propria riflessione. Questo che segue è il mio contributo al termine del tavolo critico di Scenario.
Il Premio Scenario infanzia è una piattaforma di osservazione del pensiero e della pratica teatrale dei giovani artisti under 35, attraverso progetti proposti per un pubblico infantile o adolescenziale, presentati in una condizione di cantiere aperto (della durata di 20 minuti). Ecco un attraversamento in 21 lettere dei 10 progetti presentati alla finale.
A come Analogico
La prima grande sorpresa è l’assenza quasi totale dei media digitali, in un’epoca in cui questi strumenti sono sempre più pressanti, anche pensando alla loro presenza massiccia in altri anni. La scelta analogica coincide a tratti con un’orgogliosa essenzialità scenica. Niente schermi, connessioni, collegamenti, reti, smartphone, computer, social network: l’incremento digitale di questa epoca e la sua indigestione durante la pandemia sono neutralizzate dal trionfo della parola e del gesto, dello spazio vuoto e dell’oggetto, in sostanza dell’immaginazione e della fisicità che ignorano il virtuale e il collegamento remoto. Quasi ogni progetto, senza essere stravolto, potrebbe utilizzare i nuovi strumenti, ma non lo fa. Solo alcuni sembrano alludervi, ma solo per mostrarne la fragilità. In Ninnoli di Seppur (menzione speciale) gli occhi della madre sono ‘curati’ con occhiali da realtà virtuale, che tuttavia non solo non producono alcun effetto scenico, ma si rivelano inutili. In Happy B-day TO ME! del Collettivo Komorebi la ragazza rimasta sola a casa a festeggiare il compleanno cerca supporto amicale in un assistente vocale Google, per scoprire rapidamente la sostanziale impotenza. Solo in La festa di fine anno di Salvatore Cannova gli strumenti digitali sembrano avere una certa centralità, come gli smartphone e l’ossessione da ‘like’ sui social, ma questi elementi prendono presto la strada del caricaturale, mostrandosi anche qui ipocriti e fallaci. Altrove non c’è spazio per il digitale, e il remoto è assente: le cose sono solo qui e ora, con la loro materialità, e le connessioni sono quelle della prossimità e della presenza. Nel momento in cui la realtà quotidiana, alimentata dalla pandemia, ha reso abnorme la funzione del digitale, il teatro delle giovani generazioni per le giovanissime generazioni lo ridimensiona o espelle dalla rappresentazione.
B come Bufale
La disinformazione è uno dei gangli più importanti e delicati della convivenza civile di questi anni. Il potere manipolatore del linguaggio e la narrativa del “sentito dire” sono determinanti in almeno due progetti. Ne Il Minotauro – Senza fili di Adamah Teatro Arianna parte alla ricerca del terribile mostro con tutta la necessaria aggressività per ucciderlo, ma arrivata di fronte a lui ne scopre una ben diversa identità, come già l’Asterione di Borges aveva suggerito, amichevole e dimessa. La creazione del mostro, del nemico, del diverso, una pratica che dalle pagine dei giornali di un tempo si è trasferita alla famigerata gogna mediatica dell’era internet, rimbalza in questo progetto, che ne indica l’antidoto: l’esperienza, la prossimità, la conoscenza. Anche California Under Routine di Baladam B-side (altra menzione speciale) ci porta al confronto con un temibile mostro, la Borda, obbligando i bambini ad affrontare l’intero percorso di disinformazione e conoscenza: la manipolazione della narrazione falsificata, la credulità e l’adesione alla bufala, la diffidenza e l’ostilità, e infine l’esperienza diretta e la responsabilità del comportamento individuale. Il progetto riflette in piccolo, e con i piccoli, la complessità delle strategie di manipolazione e delle risposte. Quando sono entrato io nello spazio della Borda, dopo il terrore montante alimentato dagli attori che (non) descrivevano il mostro spaventoso che avremmo visto di lì a poco, i bambini hanno trovato una ragazza fragile, che chiedeva aiuto o perlomeno solidarietà: qualcuno si è avvicinato, qualcuno è rimasto titubante, uno è scappato. Qualche adulto ha sorriso alla reazione infantile, ma il cedimento alla forza delle parole e alla costruzione della paura, capaci di superare perfino l’evidenza della realtà nell’esperienza diretta, non è affatto una questione infantile se ci sono migliaia, milioni di adulti nel mondo che credono a mostri e complotti che non ci sono. E prendono decisioni di conseguenza. E se il Minotauro e la Borda sembrano introdurci a scenari dove il fantasy rispecchia la credulità nei rettiliani o, più semplicemente, negli stranieri da cui difendersi secondo una ben nota narrazione xenofoba, va ricordato che la bufala nasce nei piccoli orizzonti dell’esperienza infantile e adolescenziale, sotto forma di strumento del bullismo, dove la creazione del mostro è condivisa irrazionalmente da una microsocietà votata alla distruzione psicofisica dell’individuo. La festa di fine anno è l’agghiacciante descrizione di un linciaggio perpetrato con crudele pseudo-innocenza vestita di risate e divertimento all’interno di una micro-comunità adolescenziale. Dove vittima e carnefici giocano una partita ambigua, dall’atmosfera alla Non si uccidono così anche i cavalli? calata nella classica festa studentesca pronta a trasformarsi in un gioco al massacro: la parola che simula e che uccide. Non è strano che una canzone di lotta per la libertà come Bella ciao entri nella playlist della festa in versione techno per far ballare a tutti una quadriglia: la neutralizzazione del significato, anticamera di una orwelliana riscrittura della storia: oggi per molti Bella ciao è solo la canzone della serie tv La casa di carta, e proprio in questi giorni la versione techno di Bella ciao circola nei social come jingle della pubblicità di un oggetto per automobili.

C come Cura
Ci sono malattie, ci sono fragilità e ci sono semplicemente umanità che chiedono cura. Siamo storicamente nell’immediatezza del superamento della fase acuta della pandemia e se già il tema della cura era importante prima, diventa centrale oggi, soprattutto rispetto a fasce d’età più fragili come l’infanzia e l’adolescenza. La malattia che nasce dal contagio: in Californiai bambini che hanno attraversato ignari lo spazio della Borda sono ‘contagiati’ e devono rientrarvi per curarsi affrontandola. La malattia dell’anima: in Ninnoli la fragilità di una donna di fronte agli eventi della vita e a un grande trauma si sovrappone a una condizione di ipovisione. Tocca al figlio prendersi cura della madre, fornirle presidi medici, come un paio di occhiali speciali, ma soprattutto starle semplicemente vicino, ritrovando nei tratti quotidiani e dimessi di un amor filiale, sofferto e forse morboso, il senso del loro stare insieme. Prendersi cura è la parola d’ordine reclamata da vicende che parlano di dolori piccoli e grandi. Anche gli studenti de La festa di fine anno avrebbero bisogno di questo senso della cura. Ne avrebbe avuto bisogno il giovane suicida de Il soggetto perfetto di Bartolucci/Selvatico, e sicuramente ne hanno bisogno il fratello sopravvissuto e la ragazza, incapaci di gestire nella realtà il vuoto e la perdita. Ci sono cure ormai impossibili se non con l’esercizio della memoria e dell’esempio, come nei confronti del ragazzino migrante inghiottito dal mare in May you live di Francesca Tres. Ci sono cure che devono essere inventate da zero, dentro di sé, per vincere la solitudine, come in Happy B-day, in cui non a caso la protagonista ascolta la canzone La cura di Franco Battiato. E c’è la cura più forte, quella rappresentata dall’intima sorellanza di Inciampo – Nà e il filo rosso di Bellini/Costantini, che si esprime nella condivisione serena, nel sostegno reciproco, nelle carezze e nel sereno spazzolare i capelli dell’altra. La cura è un piccolo gesto che esprime il sentimento della vicinanza.
D come Diversità e Doppio
Le due ragazze diInciampo (almeno a questo punto del progetto, prima dell’evoluzione narrativa prevista dopo i primi 20 minuti) si riflettono una nell’altra: si chiamano Lu e Nà, insieme sono luna, e si sa, la luna ha un volto doppio, o multiplo come nella mitologia classica. Attraverso Inciampo si affaccia a Scenario infanzia uno dei temi più classici del teatro, il doppio. Un doppio Cappuccetto Rosso che attraverso piccoli segni di differenza mostra come questa sia complementare alla somiglianza. Un altro modo per riconoscere nel diverso un altro sé. E anche nel mostro. Il Minotauro è l’antagonista di Arianna, l’altro, che tuttavia è destinato a richiamare l’identità profonda della protagonista, quando si saprà che è intimamente connesso alla sua storia familiare: non proprio un doppio, ma, se si può dire, un doppio complementare. E la Borda di California, non certo un doppio del bambino, è pur sempre l’alieno nel quale lo spettatore è costretto a rispecchiarsi, come la Sfinge in cui si rispecchia Edipo. In questa edizione di Scenario infanzia il tema della diversità non è così conclamato come in altre edizioni, ma entra sottilmente richiamando prima di tutto la necessità di riconoscere la diversità come proiezione dell’identità.

E come Età
Lo spettatore adulto osserva giovani che si rivolgono a giovanissimi, e nello spazio intermedio tra quelle due generazioni, dove la più grande proietta le proprie visioni e tensioni sull’altra, quasi alternando pedagogia e interlocuzione ‘alla pari’, i progetti ci parlano di entrambe, proponendosi come finestra su un tempo contemporaneo in cui convivono tutte le generazioni. Inciampo è rivolto alla fascia di età più piccola, dai 3 ai 7 anni: due attrici come bambine di fronte a bambini a cui chiedono la visione di un viaggio fiabesco, quasi ai limiti dell’esoterico, sicuramente dell’esistenziale. Nella fascia dai 6 ai 10 anni si concentrano Il Minotauro, California, Happy B-day, Nunc (in realtà dai 5 anni), dove il fiabesco ha il sapore del fantastico e del mitico, sia pure declinato in modi diversi e per narrazioni diverse, con l’eccezione dell’affondo nell’esperienza quotidiana della mancata festa di compleanno. Ma se i primi sono tarati su un pubblico anagraficamente omogeneo, l’ultimo si proietta verso un pubblico ben più ampio. May you live sceglie un destinatario tra gli 11 e i 16 anni, e anche qui forse il tema del lutto dei migranti annegati può aspirare a un pubblico più ampio modificando di poco, o forse per niente, il linguaggio scelto. Mentre la fascia 14-18 anni incontra con molta precisione esattamente il suo pubblico di riferimento, andando a cogliere temi nevralgici, come la ricerca della storia dei genitori (e il recupero della Storia recente d’Italia) in Ornella, ancora il rapporto genitore-figlio adolescente in Ninnoli, il confronto con il lutto adolescenziale in Il soggetto perfetto e la questione sostanziale del bullismo nella Festa di fine anno.
F come Famiglie
Dove sono i genitori? Le famiglie nei progetti di Scenario infanzia vivono una crisi profonda, e al tempo stesso si rimodellano per empatia. In una rete sociale sempre più complessa l’orizzonte genitoriale e delle altre figure di riferimento del mondo adulto semplicemente evapora. I giovani artisti che si rivolgono all’infanzia ignorano i genitori, come in Happy B-day dove la ragazza passa da sola la festa di compleanno, delusa dall’assenza degli amici e incongruamente senza riferimento agli adulti. Oppure sviluppano le reti familiari in orizzontale: c’è la rivelazione della fratellanza tra Arianna e Il Minotauro nel colpo di scena che arriverà, come rivelato, nello spettacolo compiuto; c’è la sorellanza virtuale di Lu e Nà in Inciampo; e c’è la fratellanza di Sami e Hamid, il primo morto nel naufragio e il secondo approdato in Europa, nella saga dei migranti di May you live. Più complesso è il ritratto familiare proposto dai giovani artisti al pubblico adolescente. Il soggetto perfetto è, come in May you live, la storia di una fratellanza spezzata: il suicidio di uno dei due frantuma le coordinate esistenziali del protagonista, che si sottrae al confronto con un prete, surrogato di un mondo adulto distante e formale e forse di una genitorialità assente, per rivolgersi all’invenzione di un mondo fantastico. In Ornella di Gaia Amico entra potentemente la storia familiare della giovane artista, anzi, la vicenda del padre, terrorista delle Brigate Rosse nell’Italia degli anni ’70. Una vicenda scoperta casualmente e traumaticamente a 15 anni e ora esorcizzata in un progetto teatrale che si propone di raccontare ai coetanei di quel suo momento – gli adolescenti di oggi – quella scoperta e quella storia, soprattutto attraverso il racconto della sua carcerazione. Eppure, ancora una volta, i genitori non ci sono: l’artista decide di mettere in scena la propria zia, grazie alla quale ha ricostruito la storia, nella sua odissea per ottenere colloqui con il terrorista carcerato. Ma lui, il padre, non è in scena, rimane un fantasma, lontano, fisicamente rimosso. Un solo progetto porta in scena, anzi al centro, una madre: Ninnoli. Ma i rapporti familiari sembrano invertiti. Lei è come una bambina in balìa di un terremoto fisico ed esistenziale che non riesce a gestire, e accanto a lei è il figlio, dolorosamente destinato a una maturità gravosa sulle sue giovani spalle, a prenderla per mano, per guidarla e poi, come si fa con i figli, lasciarla andare.

G come Graphic novel
Ninnoli è ispirato alla graphic novel di uno degli autori del progetto, che in scena accompagna gli attori con il live painting, immergendoli nei paesaggi rievocati dalle parole della memoria e da quelle del desiderio. Il disegno forma sotto i nostri occhi ambienti naturali, edifici, oggetti, animali, dettagli, per poi farli svanire o precipitare in un tratteggio nervoso, cupo, demolitorio, che riempie lo schermo di strisciate nere, risucchiando nel gorgo ogni segno riconoscibile. Corpo performativo e segno grafico si compenetrano, restituendo una visione unica e organica, ma anche divaricando i due piani: quello della realtà di persone e parole che cercano affannosamente di ricostruire fili perduti, e quello di un immaginario volatile che calamita lo sguardo degli spettatori, irretito in un continuo ottovolante di immagini evanescenti. Divaricazione che è ricerca di armonia (la donna che disperatamente cerca di ricucire un mondo svanito), ma anche contrasto, lotta tra corpo e immagine. O anche, e soprattutto, appiglio, zattera di salvataggio, come anche nel Soggetto perfetto, dove il fumetto inventato dai due fratelli bambini rimane l’unico oggetto di condivisione dopo il suicidio di uno dei due. Anche qui il fumetto, uno dei linguaggi più frequentati dagli adolescenti, è protagonista in un progetto teatrale, anche qui per una fascia d’età tra i 14 e i 18 anni. Nel Soggetto perfetto il fratello superstite affida alla rievocazione di quel fumetto, alla sua materializzazione, il conforto per sostenere l’insostenibile. Di fronte allo sconforto, ecco il supereroe The Man e i suoi antagonisti abitare non la pagina né lo schermo, ma lo spazio fisico della scena, condiviso con il protagonista in lutto, che anche qui vive il suo rapporto con il disegno nella divaricazione vista in Ninnoli: ricerca di una ricomposizione ormai impossibile, lotta ideale tra la fisicità immanente e l’impalpabile realtà di un mondo di carta, contrasto rispetto a un aiuto psicologico che quel fumetto forse non riesce a dare.
H come Help
Aiuto: è ciò di cui hanno bisogno molti personaggi dei progetti di Scenario infanzia. Nel mondo delle ferite, quando c’è bisogno di cura, c’è qualcuno che chiede aiuto. Come il ragazzo del Soggetto perfetto, che sembra sottrarsi all’offerta di aiuto del sacerdote, cercandolo semmai nelle pagine del fumetto fraterno. O come la madre di Ninnoli, offesa dal terremoto che ha distrutto il paese, la casa e gli oggetti, e dai segni di disturbi fisici, come l’ipovisione, e soprattutto psichici, che coinvolgono un figlio a cui chiede aiuto quando forse sarebbe lui ad averne bisogno per crescere. O come i ragazzi e le ragazze della Festa di fine anno, carnefici e vittime degli altri e di sé, fragili nella loro esibita sicurezza, pronti a massacrare psicologicamente il dj, che uscirà di scena, senza riuscire a chiedere aiuto, con un suicidio. Vale la pena notare come ben due progetti su dieci (Il soggetto perfetto, La festa di fine anno) parlino di suicidio, portando a nudo sensibilità profonde e ferite, a cui le relazioni sociali non sanno evidentemente rispondere, mostrando la necessità di un confronto su questo tema con una popolazione adolescenziale che non sa, non può, non vuole chiedere aiuto. Pochi giorni dopo la finale di Scenario infanzia, Alessandro si è ucciso a 13 anni a Gragnano per sfuggire ai bulli, come nella Festa di fine anno: è uno dei circa 1200 suicidi di adolescenti ogni anno in Europa, e forse il teatro è uno spazio per parlarne, con delicatezza e rabbia, ma senza edulcorare o minimizzare. E se l’aiuto richiesto dagli adolescenti ha a che fare con la vita fisica, quello dei bambini ha a che fare con la vita simbolica creando risposte diverse, come in California, dove la paura per il mostro genera richiesta di aiuto ma anche strategie di superamento, pensieri e comportamenti, soprattutto in un contesto di condivisione collettiva, e quindi superamento, della paura.

I come Informazione (e Storia e Cronaca)
La Storia e la cronaca entrano nei progetti per gli adolescenti, unendo alla narrazione la necessità dell’informazione. Il tema delle migrazioni, ma soprattutto delle tragedie umane che le accompagnano, è al centro di May you live, che prende origine dalla straziante storia del piccolo migrante del Mali, con la pagella cucita nella giacca, annegato nel mare della speranza verso l’Europa. Il dato di cronaca è rievocato attraverso la voce della pagella stessa, che diventa strumento di informazione di quel singolo fatto di cronaca e quindi della Storia rappresentata dall’epopea di tutti i migranti e dal loro calvario. Un teatro d’informazione che lambisce la classica narrazione documentaria per farsi piuttosto narrazione fiabesca, pur nella dolorosa memoria della morte. Il racconto della Storia passa attraverso la rievocazione fiabesca, e ancora dolorosa, anche in Ninnoli, dove il terremoto di Amatrice, anche se appena alluso, assume le forme dell’illustrazione che prende vita sullo schermo. E passa anche attraverso la memoria personale e familiare, come in Ornella. Qui è la stagione del terrorismo nell’Italia degli anni di piombo a irrompere e imporsi all’attenzione di un pubblico adolescente nato decenni dopo la fine di quell’esperienza storica. E si rinsalda con un tema invece attuale, come quello delle condizioni carcerarie. La strada scelta è inevitabilmente non fiabesca, ma neanche informativa, e passa attraverso la memoria personale: l’artista testimone è garanzia di ciò che è accaduto, nel punto di saldatura tra, come si sarebbe detto proprio in quel periodo, personale e politico. L’auspicio è che gli anni di piombo perduti nel passato, i terremoti che a periodi alterni ritornano dal passato nel presente, e le stragi dei migranti che ci mostrano come la Storia sia costruita attraverso i tasselli dell’attualità, non rimangano pure evocazioni sceniche, ma diventino, grazie a queste evocazioni, oggetto di rivelazione emotiva, e dunque di curiosità e di volontà di ricerca e approfondimento, spostando l’asse della responsabilità dell’informazione verso la scelta personale dello spettatore.
L come Lockdown
È il convitato di pietra del teatro post-Covid: il lockdown e il distanziamento hanno creato una frattura impossibile da ignorare. E infatti, pur senza espliciti riferimenti alla chiusura e all’isolamento imposti per la pandemia, la solitudine appare in alcuni progetti proprio con quelle caratteristiche. Non tanto la solitudine dell’adolescente fragile, come nel Soggetto perfetto e nella Festa di fine anno, con l’ombra pesante del suicidio, quanto la solitudine di chi rimane confinato in uno spazio chiuso. È il destino della ragazza che festeggia da sola il suo compleanno in Happy B-day, in una condizione fortemente connessa con l’esperienza che ha accomunato gli italiani nei primi mesi del 2020, a cui – nella presentazione del progetto in finale – si è aggiunta la casuale coincidenza con ciò che è accaduto all’attrice, obbligata davvero a un compleanno in solitaria per un infortunio. La protagonista si offre come specchio di una situazione ben conosciuta, che tuttavia non è legata esclusivamente al lockdown, ma si allarga più in generale all’esorcismo di quella condizione. Forza del progetto è aver trattato la solitudine in modo da ridefinirla da mancanza a risorsa. La solitudine innesca la fantasia, stimola la creatività, porta a riconoscere in sé non un recipiente rimasto vuoto, ma una sorgente feconda di azioni e invenzioni, complice la performance circense, e quindi esuberante, prevista nel progetto. Ma il lockdown è anche il destino del Minotauro, chiuso in una torre-casa a sua volta chiusa nel labirinto. Il suo lockdown è una difesa verso un esterno che non conosce, che gli permette di ricostruire nello spazio angusto delle mura domestiche il conforto di una casa accogliente ma tristemente senza amici. La pandemia che lo chiude non è una malattia fisica, ma una società che ne ha determinato la reclusione. Una solitudine da risignificare nello spazio del mito. Come è quella della Borda di California, l’essere mostruoso che abita lo spazio chiuso violato dai bambini, nel quale occorre penetrare una seconda volta per riportare alla luce l’umanità del mostro, strappandolo non tanto alla solitudine a cui è votata, quanto alla solitudine nella quale l’abbiamo mentalmente relegata.

M come Mito
Il mito è il campo privilegiato della narrazione di almeno metà dei progetti. Inevitabilmente a partire dal Minotauro, il cui prologo, come in un classico incipit da fantasy letterario o cinematografico, rievoca in rapida sintesi situazioni e nomi decisamente ostici e incomprensibili per un pubblico dai 6 ai 10 anni, ma che servono soprattutto a ricreare l’atmosfera di un’epoca aliena, in cui veniamo calati anche grazie alla teoria di nozioni che ipnotizza l’ascolto, aprendo la mente alla ricezione del mito. Così come in California, dove il gioco manipolatorio dei trabocchetti narrativi squaderna un mondo di improbabile mitologia esotica, tra mostri e sciamani, di fronte a bambini convinti di essere venuti ad assistere a uno spettacolo sul surf, sul mare, sulla California. Il mito sovrasta e annulla l’auspicato edonismo balneare, ricacciando pubblico, attori, spazi e parole in un inquietante e terribile orizzonte leggendario, in cui i performer che compaiono come attori-guida rivelano la propria natura magica, e in cui elementi della quotidianità come una porta o una sala si trasformano in soglia incantata o spazio terribile della vertigine. E se il mito arriva perfino a toccare l’adolescenza, come nel fumetto del Soggetto perfetto e nella lotta archetipica tra il supereroe e il cattivo, è sempre nei progetti per l’infanzia che assume maggiore densità. Come in Inciampo, che recupera Cappuccetto Rosso enfatizzando l’aspetto epico-poetico, a cominciare dalla figura doppia in cui la luna si divide in Lu e Nà, per continuare con una narrazione imperniata sulla ripetizione di gesti e parole, dove il meccanismo iterativo fa parte della comunicazione della prima infanzia, ma anche dell’epica mitologica, riconnettendo insomma infanzia e mito attraverso lo strumento linguistico-narrativo che le accomuna e attraverso una simile elementarità espositiva. Ma è nel progetto risultato alla fine vincitore del Premio Scenario infanzia, Nunc di BRAT, che il mito prende forma anche nel suo aspetto figurativo più evidente. Il progetto, non a caso presentato con un’epigrafe introduttiva di Tolkien, ci porta in una waste land che può essere l’origine del mondo o un futuro postatomico, sostenuto da una sonorità in cui fa breccia l’ancestrale didgeridoo, nel quale abitano tre figure misteriose e mascherate, con una grande tunica, presenze arcaiche, pre-umane o post-umane. Assistiamo alla lenta semina ritualmente circolare nella terra brulla che inonda la scena. Poi ai loro tentativi di catturare insetti di cui cibarsi, in una lotta per la vita che ha il claudicare misero di un’umanità derelitta o primitiva, ma anche l’incedere maestoso di divinità della fertilità. L’incanto, lo stupore, abilmente mescolati con l’ironia e il divertimento, ci spingono ad assistere allo spettacolo come all’epifania di un epos indicibile (effettivamente non ci sono parole), ma rappresentabile soltanto attraverso evocazioni fantasmatiche. E in tutto questo, il mito si impone, non solo nel pauperistico vagabondare delle tre misteriose figure, ma anche nell’improvvisa, folgorante apparizione di un oggetto che si fa subito mito, irrompendo come il monolite in 2001 Odissea nello spazio: un forno a microonde, mito d’oggi, totem del consumismo, anzi dio assoluto di una modernità che squarcia il lento susseguirsi di un tempo arcaico e naturale, accelerando i processi.
N come Natura
La natura è la vera protagonista, nel mito e nella Storia, di Nunc, nell’altrove di uno spazio assoluto e metatemporale, e al contempo hic et nunc, qui e ora, nell’esperienza temporale delle nostre vite. Il rituale misterioso delle tre figure è la trasfigurazione visionaria di un tema di fortissima attualità e a fortissimo impatto sulle nostre vite: la crisi ambientale e alimentare, che entra nella comunicazione verso gli spettatori attraverso i tratti multisensoriali di una narrazione composta da segni allusivi, simbolici, filosofici, concettuali, ma sempre inequivocabilmente e profondamente teatrali: l’idea che sta alle origini del progetto si materializza subito e abilmente in gioco teatrale, capace di toccare non solo il pensiero, ma prima di tutto la godibilità dell’accadimento attraverso la quale passa un pensiero importante. Il rapporto tra la lenta semina iniziale e l’apparizione del microonde è fulminante nella sua valenza simbolica, e al contempo brillante nella sua funzione scenica. Il tempo lento della natura contro la corsa del consumismo, attraverso la saga del chicco di mais che diventa pop-corn. E da lì, l’inizio di un (non) racconto che ci porta in una dimensione pre- o post-storica, che immerge la figura (non) umana in un contesto di natura da conquistare o a cui sottostare. Non c’è didattica dell’ecologia, c’è semmai l’ecologia come substrato ideale, che sostiene uno spettacolo che insegna più di tanti altri, attraverso la sollecitazione della fantasia interpretativa del giovane spettatore. La natura compare in altri due progetti: non ci sono, però, elementi naturali, come la terra stesa sul pavimento in Nunc, bensì allusivi. In May you live è il mare ad apparire all’inizio, folgorante nella sua terribilità di abisso in cui sprofondano le vite dei migranti, alluso da una pellicola trasparente che, agitata dalla performer e attraversata da luci blu, diventa un mostro suggestivo, ipnotico e inquietante. In Inciampo, invece, lo spazio di riferimento è il bosco, meta delle due protagoniste, attraente e pericoloso, alluso da un gioco di luci geometrico e da un tappeto sonoro straniante. Una natura antinaturalistica, sublimata, che diventa spazio immaginario e onirico, specchio dei desideri e delle paure interiori.

O come Oggetti
Quando Arianna arriva alla torre del Minotauro, quest’ultimo si difende lanciandole contro una miriade di oggetti. Colorati. Il nero della scena si illumina improvvisamente dei colori sgargianti di cose buffe e improbabili. Il viaggio cupo della vendicatrice termina di fronte a un bosco variopinto, come se l’incontro tra l’io e l’altro, tra il normale e il diverso, generasse arcobaleni e partorisse cose. E se manca l’incontro con l’altro, come in Happy B-day, sono proprio le cose a trasformarsi da paesaggio della solitudine a miniera di possibilità, dove gli oggetti – non l’assistente vocale, ma cose concrete – diventano quegli altri che non sono venuti alla festa di compleanno: altri da sé e al tempo stesso proiezioni della protagonista sola. Più generalmente gli oggetti, anche pochi, abitano lo spazio quasi sempre spoglio, in allestimenti azzerati, sottratti alla scenografia, come in Ornella, dove nei 20 minuti presentati tutto è sintetizzato in una triangolazione materiale: la macchina da scrivere dello scrittoio, emblematica dell’elaborazione ideologica del terrorista; la valigia trascinata dalla protagonista su e giù per l’Italia nella speranza di incontrare il fratello carcerato in un colloquio; e il telefono, tramite comunicativo con il resto del mondo, in una cabina telefonica che al tempo stesso richiama lo spazio chiuso della prigione. Nella scena spoglia anche May you live si nutre di pochissimi elementi allusivi e soprattutto evocativi, dal già citato mare di cellophane alla farina che diventa materia scenica ed elemento atmosferico. Di segno opposto è invece la scena di Nunc, concepita con un’idea forte di allestimento (la distesa di terra) sulla quale campeggia il forno a microonde: oggetto potente nella sua concretezza casalinga, che richiama altri utensili da cucina – una pentola, un colino e uno scolapasta – usati dai misteriosi personaggi come mezzi di ricerca del cibo nella landa desolata (e dal compositore della colonna sonora per creare originali campionamenti), sottolineando il tema dell’alimentazione e del consumo, con la loro presenza di strumenti per così dire analogici contro l’elettronica del forno. Ma anche presentandosi, in definitiva, come strumenti di conoscenza del mondo, come bacchette rabdomantiche in un universo da tornare a comprendere e con cui rapportarsi.
P come Paura
Con quale atteggiamento le giovani generazioni si affacciano al futuro? E come gli artisti di queste generazioni immaginano si possano affacciare al futuro le giovanissime? La parola chiave saliente è paura. Magari non remissiva, magari reattiva, ma pur sempre paura. Il futuro non è qualcosa da dominare ma da cui difendersi. È il futuro minaccioso dell’emergenza climatica, a cui in questi ultimi anni si sono aggiunte altre paure mondiali. La paura corre come un sottile, spesso invisibile, filo sotto i progetti di Scenario infanzia, quasi un campionario di fobie che non hanno nome: più sensazioni di malessere o disagio che vero terrore. Certo, Il Minotauro e California vertono esplicitamente sulla paura. Quella più narrativa del primo, che nasce dalle aspettative del mostro che divora i bambini, e quella più strutturale del secondo, dove il terrore del mostro è alimentato dalle incertezze: cos’è la Borda?, continuano a chiedere i bambini impauriti, mentre l’attore-sciamano elude le domande, sostenendo l’inquietudine grazie all’indefinitezza. La paura della solitudine in Happy B-day e nel Soggetto perfetto e la paura delle relazioni che svelano i veri mostri nella Festa di fine anno. E ancora la paura per un orizzonte domestico perduto e per un’incertezza esistenziale in Ninnoli. Tutto richiama all’inquietudine, e reclama, come detto prima, la necessità della cura e dell’aver cura.
Q come Quotidiano
Il Mito. La Storia. Ma soprattutto l’esperienza del quotidiano, che magari riemerge in forma di reperti decontestualizzati negli utensili casalinghi di Nunc, e che si riflette soprattutto nel confronto diretto con la realtà di tutti i giorni. Magari in un confronto fecondo tra quotidiano e fantasia: ancora Happy B-day, in cui la cameretta della solitudine, territorio amorfo privo di sollecitazioni, si trasfigura per accogliere acrobazie funamboliche. E ancora Il soggetto perfetto, in cui non sono lo spazio e gli oggetti a trasformarsi, ma i personaggi, che entrano ed escono dalla condizione più naturalisticamente quotidiana (il prete in chiesa, l’amica che accoglie il protagonista in casa) per avventurarsi in un capovolgimento della realtà in chiave fantastica, dove il supereroe del disegno si materializza in una condizione di coabitazione con il quotidiano senza soluzione di continuità. In May you live il quotidiano è chiamato a mostrare e in qualche modo alleviare la realtà estrema dell’ecatombe marina dei migranti, e la scena quasi ordinaria e rassicurante del dialogo tra il fratello sopravvissuto e la fornaia, interpretati dall’unica attrice, riporta proprio alla dimensione quotidiana e misurabile il tema incommensurabile della strage e l’episodio straziante del piccolo con la pagella. Il flusso dell’epos marino dell’inizio e la narrazione poetica della morte del ragazzo per voce della pagella si spezza con l’irruzione di una quotidianità che arriva teatralmente al suo apice nella fisicità pulviscolare della farina. E ancora, La festa di fine anno, iniziata proprio in mezzo al pubblico, come a dare il segno di una continuità di ciò che si vedrà nello spettacolo rispetto all’esperienza del quotidiano dello spettatore, incornicia l’accadimento in una condizione che ben presto si trasfigura: la quotidianità dell’extra-quotidiano (la festa) accoglie i segni inquietanti di un incubo terribile per planare infine sulla gelida quotidianità della cronaca nera di un suicidio.

R come Relazione
Spettacolo e spettatore: sulla relazione tra questi due poli si giocano diversi progetti, come appunto La festa di fine anno, che vede i personaggi aggirarsi tra il pubblico prima dell’inizio, chiedere di essere seguiti su Instagram, e poi chiamare in scena alcuni spettatori per farli partecipare al concorso per la miglior barzelletta. In questo caso, le potenzialità della relazione sono molto alte, senza necessità di esagerazione dei punti di contatto, ma basandosi soprattutto sullo spazio in cui viene fatto lo spettacolo, che – nell’ipotesi di sviluppo del progetto – potrebbe essere proprio la palestra o l’aula magna di una scuola, inserendo cioè il racconto della festa studentesca all’interno stesso della cornice fisica scolastica, quindi sollecitando gli spettatori adolescenti a una relazione di ciò che di terribile accade in scena con il proprio quotidiano (e con quanto di terribile vi possono trovare). La stessa volontà di non uscire a prendere gli applausi al termine chiude il cerchio di un accadimento fortemente legato da una parte al quotidiano e dall’altra alla relazione con il pubblico, implicitamente invitato a considerare ciò che vede non teatro ma strettamente connesso alla realtà esperienziale. Lo spettatore è sollecitato anche in altri modi, come il coinvolgimento nel Minotauro, con piccole forme di aiuto chieste ai bambini, ai quali viene consegnato all’ingresso un kit con cui dovranno guidare Arianna (anche se in questa fase ancora progettuale il meccanismo rimane ancora in mezzo al guado delle potenzialità). O come in California, dove il rapporto è diretto e il coinvolgimento totale, fino a culminare nell’incontro con il mostro, per poi approdare a un epilogo (in fase progettuale ancora ipotizzato) in cui i bambini spettatori dialogano reciprocamente per affrontare l’analisi di quanto accaduto. Oltre al rapporto con gli spettatori, è evidente come le relazioni interpersonali siano strategiche nel racconto teatrale, in particolare in alcuni progetti, come Happy B-day e Ornella, dove la solitudine delle protagoniste esprime l’urgenza e la necessità proprio delle relazioni. O come in Ninnoli e Inciampo, dove le due presenze non raccontano semplicemente una storia, ma si mettono in scena in quanto poli di una relazione: quella affiatata e simbiotica delle due ragazze sul limitare del bosco come un Cappuccetto Rosso diviso in due, che ritrova nel doppio il senso della sua unità; e quella della madre e del figlio, che vivono la frattura di una simbiosi estrema, sul limitare di una svolta esistenziale di entrambi, che faticano a trovare nella differenza il senso delle loro identità.
S come Spazio
La definizione dello spazio scenico, anzi il rapporto tra spazio scenico e narrazione dello spazio è una chiave importante per alcuni progetti, tenendo presente, come già detto, una prevalenza di spazi vuoti e di allestimenti estremamente leggeri. Il labirinto è lo spazio concettuale portante di due progetti. Nel Minotauro l’evocazione del labirinto è totalmente immaginaria, richiede la fantasia, e si sviluppa fisicamente nel suo contrario: uno spazio vuoto al centro del quale si erge una torre. In California, invece, il labirinto è la condizione logistica del teatro o della scuola in cui verrà fatto lo spettacolo: i bambini si ritrovano in uno spazio con l’attore-guida; superano una prima porta che li immette in una sala ‘misteriosa’; attraversano quella sala per ritrovarsi al di là di un’altra porta; scoprono di aver attraversato un luogo infetto e di doverlo riattraversare; e così rifanno il percorso inverso. Lo spazio quotidiano si trasfigura in spazio magico: i tre ambienti vivono una doppia identità e una doppia funzione, che tocca allo spettatore portare a comprensione e accettazione. Anche in Ninnoli lo spazio raddoppia, semplicemente grazie al rapporto tra la fisicità dei corpi degli attori e la visione immateriale dei disegni sullo schermo. Lo schermo porta contemporaneamente a una estensione dello spazio e a una sua compressione: i paesaggi disegnati non sono affatto uno sfondamento delle pareti del teatro verso una dimensione per così dire cinematografica, ma semmai un’enfatizzazione di quella chiusura, perché proiettano la memoria e il desiderio dei personaggi in una giostra grafica che apparentemente spalanca ma effettivamente finisce per costituire un accumulo di segni che impediscono ai personaggi di essere liberi. Molto interessante è anche l’approccio allo spazio offerto in Inciampo, dove la scena vuota è attraversata da fasci di luce che ridefiniscono sul pavimento disegni geometrici precisi, che alludono ad ambienti più ‘dell’anima’ che concreti. Le semplici ma raffinate geometrie luminose si offrono come materializzazioni del rapporto altrettanto raffinato e, per così dire, geometrico tra le due protagoniste, arrivando a presentare il teatro al pubblico della prima infanzia come luogo di ordine e armonia, recuperando quindi la ‘magia’ del teatro proprio attraverso la pulizia estrema dello spazio. E se La festa di fine anno è profondamente legata a un’idea di spazio scenografato (con elementi quotidiani) estremamente significativo, come s’è detto, nel rapporto con la quotidianità, Nunc al contrario, insistendo su una concezione simbolica, fantasy, anti-quotidiana, è il progetto che più si espone in un pensiero scenografico, concependo uno spazio materico, ai bordi del quale sta la presenza del musicista che accompagna lo spettacolo dal vivo.

T come Terremoti
Il terremoto solo accennato in Ninnoli è determinante per la storia raccontata: si intuisce che la madre ha vissuto il sisma come un trauma che va ben al di là della distruzione fisica di casa e oggetti, e che ora fa fatica a riprendersi. Ma la storia è molto più sottile, dove le coordinate temporali, come quelle spaziali definite dai disegni proiettati, si confondono in una relatività cronologica che ben presto ci fa capire che il vero terremoto sta altrove: non nei fenomeni sismici che spezzano le linee del disegno e arruffano le forme in grande macchie nere, ma in qualche condizione psichica, non necessariamente patologica, che porta la protagonista in disequilibrio esistenziale. Il terremoto è prima di tutto dentro di sé e nella relazione con il figlio, vero perno concettuale del discorso. Ce ne sono di terremoti in questi progetti, a ribadire come certe voci ricordate prima – la Paura, la Cura, la richiesta d’aiuto – si colleghino tra loro, restituendo una condizione di dolente precarietà. Il terremoto innescato dal bullismo nella Festa di fine anno è insopportabile per tutti i personaggi, fino ad arrivare alla vittima sacrificale che non saprà sopportare il violento spaccarsi della terra sotto le sue fragili certezze. Non sappiamo quale sia stato il terremoto per l’altro suicida, nel Soggetto perfetto, ma siamo testimoni di quello che sconvolge il fratello superstite, obbligandolo a ricostruire un delicato presente in quella roulotte precaria che è la fuga dal mondo reale. Mentre conosciamo bene il terremoto che porta all’esodo di massa dei migranti verso l’Europa e alla morte del ragazzino raccontata in May you live: il progetto è presentato come una serie di quadri, come oasi di speranza o disperazione tra un terremoto e l’altro. Fino al sisma globale che potrebbe aver dato il via alla visione post-atomica (?) di Nunc: il terremoto prossimo venturo di un’apocalisse ambientale e antropica che coinvolge tutti.
U come Umorismo
E tuttavia ci sono i margini per il sorriso. Proprio la profezia apocalittica di Nunc procede ironicamente stuzzicando il riso, grazie alla buffa performance delle tre figure misteriose, che ricordano vagamente i Jawa di Guerre stellari, e che zompettano sul terreno polveroso agitando utensili di cui cercano di capire il funzionamento, in costante ricerca di insetti di cui cibarsi, che poi ingollano emettendo bizzarri gorgoglii. L’umorismo è registro portante anche nella Festa di fine anno, che parte appunto come una simpatica festa, con tre protagonisti fortemente caratterizzati, se non proprio caricaturizzati, soprattutto la ragazza più simpatica ed empatica, tanto divertente e travolgente, da allargarsi pian piano a fagocitare l’intera situazione, attirando tutti e tutto nel gorgo della simpatia e della risata forzata, che impercettibilmente si trasforma in deformazione grottesca e infine in minaccia. Ridi all’inizio, ridi durante, e a un certo punto ti rendi conto che c’è ben poco da ridere in quel che sta accadendo: che è poi esattamente l’evoluzione delle dinamiche del bullismo. Così come non sai mai se ridere o no in California. Visto il progetto con tanti adulti, è inevitabile che il sorriso e il riso abbiano fatto capolino spesso, a cominciare dallo spiazzante inganno per cui sei venuto a vedere uno spettacolo e ti ritrovi dentro un’altra cosa, decisamente assurda e strampalata, e continuando con battute autoironiche e metateatrali piazzate con curata nonchalance (per esempio, l’insistenza del performer nel cercare di sottrarsi al suo dovere di sciamano, professione che ha abbandonato per fare l’attore), e con assurdi coinvolgimenti dello spettatore (ma gli occhiali da sole che tutti gli spettatori sono invitati a indossare, a cosa servono?). Ma anche per i bambini, il confine tra paura, indefinitezza e umorismo credo che giochi una parte importante, che forse solo la presentazione dello spettacolo senza adulti può indagare appieno.

V come Viaggio
Il tema del viaggio è quanto di più diffuso e usuale negli spettacoli, in termini propri o simbolici, e anche a Scenario infanzia ritorna con alcuni progetti stimolanti. Abbiamo visto come Il Minotauro e California si sviluppino proprio nel senso del viaggio della protagonista nel primo e dell’intero pubblico nel secondo, all’interno di un labirinto in cui scoprire e ridefinire l’altro in un’esperienza di conoscenza e maturazione. Più complesso è il viaggio in May you live, con il viaggio spezzato per il ragazzino annegato e quello compiuto per il fratello che ce l’ha fatta. Il viaggio della crescita, insomma. Come quello di Lu e Nà in Inciampo, dove a dispetto del titolo non ci sono inciampi (e forse l’intero titolo andrebbe ripensato, non solo per questo motivo), e dove invece si parla di un viaggio nel bosco, altra forma di labirinto esperienziale e formativo. È un viaggio ben diverso quello di Ornella, che si compie su diversi piani. In scena assistiamo all’odissea della protagonista su e giù per l’Italia, con la sua valigia, nella speranza di incontrare il fratello, continuamente trasferito di prigione in prigione. Ma ben più significativo (e auspicabilmente da recuperare nella compiutezza dello spettacolo) è il viaggio della giovane artista nella memoria familiare, alla ricerca della vicenda biografica del padre terrorista e carcerato, attraverso le parole di quell’anziana zia Ornella, che vediamo nello spettacolo come giovane protagonista. L’esperienza extrateatrale del viaggio nella memoria familiare, e dunque nella costruzione della propria identità, è autobiograficamente sconvolgente e diventa molla per provare a risucchiare gli spettatori adolescenti in questa rivelazione, certo non altrettanto sconvolgente, ma sicuramente importante, anche perché non richiama soltanto un pezzo di Storia italiana, ma in qualche modo sollecita i ragazzi e le ragazze del pubblico a interrogarsi sui rapporti con i genitori, e sui tanti segreti, più o meno innocui, che li rendono stranieri ai loro occhi.
Z come Zoo (e Maschera)
Nell’apice dell’attacco dei bulli alla vittima della Festa di fine anno la realtà si trasfigura su un piano onirico, in cui la vittima è assediata da corvi predatori: gli attori vestono le maschere degli uccelli e circondano inquietanti e minacciosi il corpo del giovane bullizzato. L’immagine dell’attore con la testa animale è ormai un topos di molto teatro contemporaneo che si rivolge ai giovani, cogliendo nell’età di passaggio dell’adolescenza i segni di un’infanzia ancora presente (gli animali di peluche, i travestimenti carnevaleschi) che si mostrano nella loro ambiguità. E quella figura metà uomo e metà animale rimbalza dalla trasformazione metamorfica del corpo e della psiche verso un immaginario febbrile, recuperando la folgorazione concettuale e visiva proposta dal mito. E infatti ritroviamo l’uomo-toro proprio nel Minotauro, rappresentato nella forma che conosciamo: la figura umana con in testa una maschera da toro. Gli animali si presentano con maschere posticce, reclamando la loro intimità con l’essere umano: maschere facilmente rimovibili, se solo si volesse, e perciò in qualche modo rassicuranti. Non rimovibili sono invece le maschere, non certo animali, che portano le figure di Nunc. Maschere astrattamente grottesche, dal colore scuro che si uniforma alle tuniche, diverse una dall’altra (riuscendo in pochi tratti, tra Commedia dell’Arte e teatro greco, a dare leggere differenze ‘caratteriali’), create direttamente dalla compagnia. Maschere che offrono l’immagine di figure compatte nella loro identità bizzarramente terrigna, su figure che esprimono un’umanità a suo modo animale, nelle quali è difficile riconoscersi, ma nelle quali è inevitabile farlo. Riconoscendo, insomma, un po’ di maschera anche nel nostro essere abitatori di quel bizzarro, insidioso e suggestivo universo post-apocalittico.
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CREDITI
Adamah Teatro, Il Minotauro – Senza fili; di e con Cecilia Bartoli, Margherita Galli; idea e musiche originali Margherita Galli; scenografia Pietro Galli; tecnico audio Jacopo Vescio; tecnico luci Gerardo Bagnoli. Baladam B-Side, California Under Routine; regia Pierre Campagnoli; drammaturgia Pierre Campagnoli, Elena Pelliccioni; interpreti Selene Demaria, Pierre Campagnoli, Elena Pelliccioni, Guido Sciarroni. Collettivo Komorebi, Happy B-day TO ME!; autrice Erika Salamone; regia e drammaturgia Mariasole Brusa; in scena Erika Salamone e Mariasole Brusa; musiche originali Filippo Bonelli; piano luci Alex Turano. Gaia Amico, Ornella; un progetto di Gaia Amico; dramaturg Davide Tortorelli; costumi Ilaria Amico. Seppur, Ninnoli; regia e drammaturgia Salvatore Crucitti; disegno dal vivo e drammaturgia Emanuele Cantoro; costumi Valeria Forconi; con Gabriele Anzaldi, Matilde Vigna; sound design Gabriele Anzaldi, Michele Febbraio; ispirato al fumetto Grazie di Emanuele Cantoro. Bellini/Costantini, Inciampo – Nà e il filo rosso; di e con Francesca Bellini e Giulia Costantini; audio e luci Matteo Gusmini. BRAT, Nunc; regia Claudio Colombo; drammaturgia Pier Lorenzo Pisano; musiche Paolo Tosin; con Agata Garbuio, Michele Guidi/Aron Tewelde, Claudia Manuelli, Irene Silvestri. Bartolucci/Selvatico, Il soggetto perfetto; regia e drammaturgia Consuelo Bartolucci, Marco Selvatico; interpreti Marco Selvatico, Domenico Pincerno, Michele Scarcella, Vanda Colecchia, Federico Nardoni; tecnico luci e audio Alessia Giglio. Salvatore Cannova, La festa di fine anno; testo, regia, elementi scenici e costumi Salvatore Cannova; con Salvatore Cannova, Aurora Catalano, Antonio D’Angelo, Valentina Medda; luci Michele Ambrose; musiche e sonorizzazioni Stefano Bossi; assistente alla regia Alessandro Accardi. Francesca Tres, May you live; drammaturgia, regia e interprete Francesca Tres; scenografia, disegno luci e tecnica Davide Stocchero.
Visti a: Premio Scenario infanzia 2022 – 9° edizione, Festival Scenario, Bologna, DAMSLab, 1-2 settembre 2022.
Tutte le foto degli spettacoli sono di Malì Erotico.