
Quanto è difficile dire “ci riuniamo”? Per qualcuno è uno sforzo al limite delle possibilità umane: “ci rinuriamo, ci nuriniamo, ci uriniriamo, ci rinuchiamo, ci ruminiamo…”. Quel verbo – riunirsi – Luca Cupiello non riesce proprio a dirlo. Il suo pietoso, angosciante incespicare in una parola foneticamente così poco complessa (molto meno delle alternative che invece pronuncia) dura a lungo e mette in ansia chi lo ascolta. L’impossibilità di enunciare la riunione sta esattamente al centro del secondo atto che è al centro di Natale in casa Cupiello. Ne è il fulcro. Ne è l’evidenza linguistica. In casa Cupiello “riunirsi” è impossibile, perfino nel semplice uso della parola che descrive l’azione. Di atto in atto aumentano i personaggi, la scena si affolla, ma il condividere lo stesso ambiente non significa essere “riuniti”, e nemmeno uniti. L’illusione dell’unità familiare (e dunque sociale) va di pari passo con il movimento centrifugo delle altre figure, ciascuna a inseguire un tornaconto personale o – nel caso della moglie Concetta – a colmare le crepe di un’unione artificiale. Quella di Eduardo De Filippo è un’opera sulla disgregazione sociale. Peggio: sull’illusione della condivisione sociale. Scritta nel 1931-33, in pieno fascismo, quando imperava la retorica dell’unità, rimbalza ottant’anni dopo in un’Italia dove l’unità è ormai sfacciatamente un’illusione, mostrandoci attraverso un gioco dalle venature farsesche il peccato originale dell’homo socialis: l’utopia della condivisione. Che va di pari passo con l’incapacità di leggere il reale.

Il fatto è che per Luca – Lucarie’ – la realizzazione annuale del presepe è qualcosa di più di un rito natalizio: il presepe assorbe – sostituisce – l’idea stessa di famiglia e di convivenza. Nel presepe tutto è armonico, ogni cosa è al suo posto, e se qualche statuetta si danneggia, è facilissimo sostituirla andando in via San Biagio dei Librai, perché ogni figura del presepe è seriale, un ingranaggio nella rappresentazione, una forma. Ben diversa, però, è la realtà, dove conta la sostanza e dove le sostituzioni non sono possibili, se non cambiando proprio di persona, come accadrà alla fine della commedia, ma inconsapevolmente… o forse no.
Dunque, il lavoro di Luca sotto Natale è la realizzazione di un presepe, che nessuno è disposto ad ammirare: non la moglie, che si sente ostaggio di questo demiurgo innamorato del suo mondo di cartapesta; non il figlio viziato, che ripete ossessivamente che il presepe “a me non mi piace”; non la figlia fedifraga, che in un raptus addirittura lo distrugge; non il fratello profittatore, che lo ignora (e che fin nel nome – Pasquale – si rivela antitetico all’afflato natalizio del fratello: al contrario degli altri, infatti, il fratello non ha alcun contatto né fisico né verbale col presepe); non l’amante della figlia, l’unico che sembra accettare la Weltanschauung di Luca, ma che in realtà lo irride (e che la penna di De Filippo condanna diabolicamente, dopo l’irrisione, a diventare, proprio lui, la nuova statuina di quel presepe-famiglia-mondo voluto da Luca, grazie al presunto errore finale).

La vera partita si gioca sull’asse paterno-filiale (cioè natalizio) della trasmissione di responsabilità e di potere: la rappresentazione della nascita del Figlio di Dio è, infatti, il banco di prova per testare la fedeltà del figlio di Luca. Il punto non è la distanza generazionale, che Luca illusoriamente invoca come causa della disaffezione di Tommasino al suo lavoro: il punto vero è la sottrazione di Tommasino al suo ruolo nella famiglia, la sua ribellione mediocre contro le aspirazioni paterne, che quasi prefigura il Figlio di Affabulazione di Pasolini, anch’egli sfuggente alla chiamata di responsabilità del Padre. Infatti, mentre il padre costruisce il presepe, il figlio costruisce un Pulcinella di carta, segno di una ribellione anarchica e indolente (ma sempre nel segno di una sottile continuità: la costruzione di effigi della tradizione popolare).
E così, Lucarie’ si ritrova solo con il suo presepe, e soprattutto solo con l’illusorietà del mondo che si è costruito e che pretende di applicare anche a ciò che lo circonda. Alla fine del secondo atto, è lui a ideare una bizzarra modalità di consegna dei regali, che è spia fin troppo dichiarata della sua utopia: lui, il fratello e il figlio si dovranno trasformare in Re Magi per portare i doni a Concetta, proprio nel momento in cui la frattura familiare si sta consumando. Nella mente di Luca, loro non “si sono camuffati da Re Magi”, come riporta la didascalia: loro sono i Re Magi.

La commedia di De Filippo è incalzata dalle allusioni e dai simbolismi, che vibrano in ogni battuta: sotto l’apparente struttura e trama da commedia delle beffe, prende forma l’allegoria di una disgregazione sociale che comincia dalla cellula primaria della società, la famiglia. All’inizio Luca si prepara a completare il suo presepe, contro l’insofferenza della moglie e l’ostilità del figlio, che peraltro ruba i vestiti allo zio Pasquale che vive con loro, confidando in una sua prossima dipartita. Senza che Luca lo sappia, la figlia Ninuccia intende lasciare il marito Nicolino: è un segreto che deve rimanere tra madre e figlia. All’opposto dell’asse patrilineare di imposizione-ribellione, l’asse matrilineare comporta una solidarietà nella differenza; e se l’asse maschile oscilla tra la visionarietà naif del padre e l’indolente menefreghismo del figlio, che a livello pratico si traducono in situazioni di stallo, quello femminile vede una madre iperattiva (è la prima a svegliarsi) e una figlia volitiva, che a livello pratico rappresentano i perni reali dell’azione.
Il secondo atto si apre con il confronto tra il portiere e Concetta, che – non a caso – avrebbe dovuto “nascere con i pantaloni”, proprio in virtù della sua forza e visto che si ritrova un marito che alla sua età si diletta ancora con il presepe. Lucarie’ sarebbe dunque infantile. La sua visione della famiglia e del mondo lo è. Sarebbe stato bene nella famiglia estrosa e naif, bambinesca, del film L’eterna illusione, che Frank Capra girerà pochissimi anni dopo. E così è disposto a soprassedere ai furtarelli del figlio e del fratello, che non possono – ai suoi occhi – minare l’armonia di una famiglia di nome Cupiello (che in napoletano significa “mastello”: in verità, un mastello-colabrodo). E così non riesce a vedere o capire che l’uomo che sta invitando al cenone della vigilia è nientemeno che l’amante della figlia, Vittorio, ponendo così le basi, con questa gaffe, per la più definitiva delle deflagrazioni. E così, mentre ormai la famiglia sta andando a pezzi, continua con la sua utopia, diventando perfino – come ho detto poc’anzi – uno dei Re Magi, cioè incarnando nel suo corpo quel presepe che è specchio della sua realtà: cioè materializzando il presepe nella realtà, perché presepe e realtà coincidono.

Il terzo atto si apre con le comari al capezzale di Lucarie’ che, dopo la rivelazione, ha avuto un potente crollo psicofisico. Al punto da non riconoscere le persone, al punto da scambiare la moglie Concetta con Don Basilio, il personaggio del Barbiere di Siviglia sostenitore della pratica della calunnia, cioè quel “venticello” capace di distruggere la reputazione fino al “tumulto generale”: che è proprio quello che Luca crede, cioè che non è vero che la figlia Ninuccia abbia l’amante e stia per lasciare il marito, ma che si tratti di una calunnia che sta rovinando la famiglia e minando la sua salute. Ecco perché nel delirio febbricitante continua a invocare Nicolino, perché sa che se nel presepe si rompe qualcosa, è solo un incidente temporaneo; e a San Biagio sanno come sostituire le statuine rotte. Ecco perché non si accorge di dare la sua benedizione alla figlia e all’amante anziché al marito: perché le mani di Nicolino e di Vittorio (vittoria!) sono mani da presepe, come quelle che fanno a San Biagio, simili, intercambiabili. Ecco perché alla fine può chiedere ancora una volta a Tommasino se gli piace il presepe, ed ecco perché lui gli risponde finalmente di sì: perché il presepe si è infine materializzato nella camera, “grande come il mondo”, e può portare l’armonia desiderata, degna di una famiglia-mastello capace di contenere ogni cosa e di condurla al giusto obiettivo.
Un’armonia ricomposta, che più che manifestarsi come chiusura beffarda della commedia, mi sembra sia ben altro, e cioè l’atto finale con cui la realtà viene piegata alla sua proiezione. Insomma, ben lungi dall’essere il nodo debole della trama sociale e familiare in quanto bambino ingenuo, Luca diventa alla fine motore forte della ricostruzione di quella trama sociale e familiare, ma secondo le sue regole, che sono quelle di una visione del mondo capace di plasmarlo, per creare una nuova realtà dopo aver disconosciuto (non aver proprio visto) la realtà ‘reale’. Non è solo la pietà a trattenere Nicolino dal ribellarsi e dallo svelare al delirante Luca l’errore: è semmai il riconoscere che di fronte al delirio demiurgico e plasmatore di Luca, alla sua costruzione di un presepe non più miniaturizzato ma “grande come il mondo”, non si possono opporre l’ovvietà e la logica della realtà, ma occorre piegarsi alla forza ideale e creatrice di un’utopia. Nella quale, dopo aver ricondotto tutti alla sua visione, dopo aver addirittura rinominato i personaggi secondo la propria logica (e quindi Concetta è Don Basilio, mentre Vittorio sostituisce Nicolino assumendone il nome, come farebbe una statuetta nuova con una rotta), può finalmente attuarsi quella riunione fino a poco prima impossibile. E Tommasino, parallelamente all’Enrico IV raccontato da Pirandello dieci anni prima, può finalmente riconoscere che è preferibile nascondersi dietro un’armonia fittizia, piuttosto che continuare a negarla in nome del principio di realtà: per il bene collettivo. Sì, questo presepe piace proprio a tutti.

Negli attuali anni Dieci, Natale in casa Cupiello è dunque la rappresentazione perfetta di una condizione sociale di negazione della realtà e di percezione e narrazione di quella realtà attraverso occhiali deformanti, che tuttavia plasmano una nuova realtà, in cui i nomi cambiano e le persone diventano personaggi o fantasmi. Nella sua versione scenica Antonio Latella duetta con De Filippo e i suoi simbolismi, portando alla luce molti fili concettuali cuciti nella trama, e provando a materializzare ciò che il testo portava solo a intuire. In altre parole, Latella – come Luca – plasma la realtà di Natale in casa Cupiello dando vita a un mondo potente e credibile non perché sia reale, ma perché è potentemente naif, cioè autorevole. Lo spettatore, che attende di vedere l’ennesima messa in scena “realistica” (o presunta tale) che De Filippo aveva indicato nel suo testo e nei suoi allestimenti, si arrende alla visione di Luca Cupiello-Antonio Latella, che reinventa quel “realismo”, lo trasforma, e gli dà una forma nuova e più convincente, più “reale”. Cioè, come dicevo, materializzando i simboli, allegorizzando l’azione, fino ad aggiungere l’impensabile, e quindi a ribaltare quella realtà, creandone una nuova. Ma procediamo con ordine.
L’idea della “riunione” è visualizzata nel primo atto con una chorus line in cui tutti i personaggi sono in fila in proscenio e recitano, ritmicamente e all’unisono, battute e didascalie, bendati. Il riferimento (il coro come personaggio) è alla forma-tragedia, che dunque per Latella è il punto drammaturgico di partenza di Natale in casa Cupiello. Classicamente, la tragedia fa staccare dal coro il protagonista (Luca), la deuteragonista (Concetta), e poi a poco a poco tutti gli altri, che sbendandosi interrompono l’unisono diventando riconoscibili, e quindi personaggi. Un altorilievo statico, che si presenta sotto l’imponente stella cometa di fiori gialli che campeggia nell’intero spazio scenico: “Tu scendi dalle stelle”, dovranno cantare Luca, Pasquale e Tommasino alla fine del secondo atto, ma nella visione di Latella tutti i personaggi sembrano essere ‘scesi’ da questa enorme stella cometa, rigidi come alieni appena usciti da un disco volante in un b-movie d’antan, solenni come statue, inerti come pupi. Un primo atto violentemente bidimensionale, condizionato da un horror vacui che non lascia buchi visivi nel boccascena. E’ la simulazione di una riunione: quasi mai si guardano o si toccano, stanno con lo sguardo verso il pubblico, quasi sempre mantenendo la posizione in fila. La famiglia Cupiello prende forma nella tragedia, abbozzata pian piano dallo scalpello di uno scultore di metope. E’ questo il presepe sognato da Luca? Tante belle statuine in fila come sulle bancarelle di San Biagio?

Il secondo atto sfonda la bidimensionalità, facendo schizzare i personaggi nel grande spazio semivuoto del palcoscenico nero, come atomi impazziti in una fissione dagli esiti prevedibilmente devastanti. Ciascuno di loro trascina con sé il proprio doppio: un enorme fantoccio che rappresenta un animale da presepe e al tempo stesso le vivande della tanto attesa cena della vigilia. Una Classe morta tanto chiassosa quanto piena di presagi, che culminano nell’ingombrante carro funebre dalle pareti di vetro, continuamente abitato, attraversato, e soprattutto trascinato da una Concetta che cita visibilmente la classica Madre Courage col carretto. Dall’austera presentazione del primo atto si passa, così, a un simbolismo urlato, che sembra nutrirsi della più profonda napoletanità legata alla convivenza con i morti, come se tutte queste anime in pena fossero in fuga dalle Fontanelle per cercare di affermare le loro identità. Dalla tragedia siamo scivolati al dramma. Ma quale hybris, quale catarsi…? La verità è che tutto è calato nella storia, non nel mito, e quindi tutto è molto più complesso e volgare. L’evocazione solenne del presepe nel primo atto lascia il passo alla sua convocazione in forma di pupazzoni animali, e l’ordine sulle bancarelle di San Biagio lascia il posto al caos dei vicoli di Spaccanapoli. Il presepe non è attuabile, il sogno di Lucarie’ non si concretizza, e il secondo atto finisce in un mezzo stupro maritale (inesistente nel testo di De Filippo), come per sporcare definitivamente l’ordine impossibile agognato da Luca. Questa “riunione”, insomma, non s’ha da fare.

Ci penserà, semmai, il terzo atto, con un allestimento anche visivo e coreografico del presepe-mondo. Luca è Gesù Bambino (non avevamo detto che era infantile?) nella mangiatoia al centro della scena, il portiere con le ali scende dal cielo come un angelo (e da anghelos gli toccherà il compito di fare da messaggero), tutti gli altri stanno attorno, e alla fine compaiono perfino il bue e l’asinello per sancire quella che De Filippo aveva chiamato nella didascalia del testo la “visione incantevole” del presepe-mondo: un paesaggio calligrafico di belle statuine. Il moto caotico degli atomi impazziti del secondo atto è ricondotto a ordine e misura. Il dottore, ultimo a togliersi la benda dagli occhi, canta l’aria della calunnia del Barbiere di Siviglia, imprimendo così all’opera una nuova svolta: non più tragedia, non più dramma, ma melodramma. Anzi, opera buffa. La musica e il canto diventano misura (beffarda) delle cose, trasportandoci dal simbolismo del secondo atto a un’allegoria d’impianto barocco, suggerito anche dalle calde luci caravaggesche. Le figure delle Sette opere di Misericordia o del Cristo flagellato che Caravaggio ha lasciato a Napoli sembrano prendere corpo sul palcoscenico, e ci dicono ben altro rispetto all’ordine pacificatore apparente: altro che presepe, questa è una veglia funebre, come ci rendono evidente le figure attorno al Luca Bambino nella mangiatoia, che sono dame in gramaglie con ampie gonne nere e con la lugubre attitudine di prefiche pronte al loro compito.
E qui, Latella si stacca dalla storia di De Filippo lasciando il tema portante dell’illusione che plasma la realtà a dispetto della realtà stessa, e invece portando in primo piano il tema del rapporto padre-figlio. Alla fine Tommasino, dopo aver detto che il presepe gli piace, uccide il padre-bambino nella mangiatoia. La ribellione impossibile suggerita da De Filippo assume ora un inedito tono edipico, che porta Tommasino a diventare protagonista dell’azione e quindi del nuovo presepe-mondo ideato dal padre. Se in De Filippo Luca rasentava le caratteristiche divine di demiurgo, arrivando a dare vita una realtà nuova solo grazie alla sua volontà ideologico-naif e alle sue visioni, in Latella è solo un padre che (anche qui pasolinianamente) regredisce all’infanzia, diventando bambino (Gesù Bambino) fino a ritornare al nulla, per lasciare il posto a un figlio che dichiara di accettare il suo sogno infantile e di abitarlo. Non prima di avere ucciso il bambino-padre… il bambino che è in tutti e che dopo questo atto non sarà più in nessuno… il padre che è Dio nella culla e che dopo questo atto (Dio è morto) lascerà un cielo privo di speranza. Buon Natale.
Natale in casa Cupiello, di Eduardo De Filippo; regia Antonio Latella; con Francesco Manetti, Monica Piseddu, Lino Musella, Valentina Acca, Francesco Villano, Michelangelo Dalisi, Leandro Amato, Giuseppe Lanino, Maurizio Rippa, Annibale Pavone, Emilio Vacca, Alessandra Borgia; drammaturga del progetto Linda Dalisi; scene Simone Mannino e Simona D’Amico; costumi Fabio Sonnino; musiche Franco Visioli; luci Simone De Angelis; foto Brunella Giolivo; produzione Teatro di Roma; prima assoluta: Roma, Teatro Argentina, 3 dicembre 2014.
Visto a: Bologna, Arena del Sole, 15 dicembre 2016.