Il colore del coniglio. Con spoiler

 

Nassim Soleimanpour 2
Alcuni attori e attrici internazionali che si sono misurati con questo testo: Whoopi Goldberg, Nathan Lane, Kate Dickie e Darren Criss

E’ forse uno dei testi contemporanei più gravidi di senso e di complessità, e al tempo stesso è un testo che chiede di essere sottratto alla riflessione. Diabolicamente. Come diabolico è tutto ciò che lo riguarda: le parole, lo spettacolo (se poi sia corretto definirlo tale), l’intero meccanismo che precede e segue il tutto. Il punto è che tutto è coperto dal segreto, che nessuno – correttamente – è disposto a svelare. Solo chi è potuto entrare in questo segreto conosce la verità, senza poterla e senza volerla condividere. Si tratta di White Rabbit Red Rabbit (Coniglio bianco coniglio rosso), un esperimento teatrale di Nassim Soleimanpour, raffinato autore iraniano, che con questo testo del 2010 sfida ogni convenzione, riuscendo nell’impresa di essere saldamente depositario non solo delle parole del testo, ma della sua stessa “messa in scena”, ambizione forse di quasi tutti i drammaturghi, che egli riesce vertiginosamente ad attuare: un testo certamente interpretabile diversamente dall’attore che di volta in volta lo assume, ma che attanaglia attori e spettatori in meccanismi implacabilmente fissati senza alcuna possibilità di sovversione. L’unica sovversione possibile è il rifiuto (lo strappo del copione o l’uscita di sala), ma una volta che sei entrato nel gioco, a condurre è lui: solo ed esclusivamente l’autore.

Ecco come funziona. L’attore (o attrice) sale su un palco in cui stanno un tavolo, una sedia (e poche altre cose che qui non svelo) e una scala. All’attore, che preventivamente non sa nulla su cosa debba dire o fare (e questa è la ragione per cui non troverete recensioni dello spettacolo, in una delle congiure del silenzio più inossidabili che abbia visto, e a cui mi attengo pure io), viene data una busta sigillata. Dentro sta il copione di White Rabbit Red Rabbit. L’attore apre la busta e inizia a leggere, per la prima volta in vita sua, ad alta voce, quel testo. E così l’azione ha inizio. Tutto quel che accade in scena (e tra il pubblico) è in qualche modo previsto, anzi pianificato da quel testo che, parola dopo parola, elenca istruzioni o brani narrativi, suscitando spesso (perlomeno nella versione che ho potuto vedere, che ha visto come protagonista Giuliana Musso) risate e applausi, insinuando disagi e spiazzamenti sia nel performer gettato ‘senza rete’ in scena sia negli spettatori che seguono i percorsi logici e ‘illogici’ del testo, cadendo in trabocchetti e ricevendo improvvise illuminazioni. A scrivere questo testo, scopriamo durante lo spettacolo (ma è un’informazione pubblica), è appunto un autore iraniano, a cui è negato il passaporto per le sue scelte antimilitariste, e che quindi è impossibilitato a viaggiare (ma questo accadeva al momento della scrittura del testo, perché poi è riuscito a uscire e ora vive a Berlino). In questa condizione di stallo, dunque, ha concepito non solo un testo che, debitamente tradotto, può essere inscenato ovunque nel mondo, ma ha scritto un testo che lo rende presente in tutti gli allestimenti, in qualsiasi luogo e in qualsiasi tempo (e al tempo stesso lo inchioda, in eterno, alla sua condizione di recluso nel suo paese d’origine). E già la raffinatezza del tema della presenza assente o dell’assenza presente dell’autore (per come viene sviluppata nel testo: cosa che non posso rivelare) basterebbe per indicare questo testo come uno dei più emblematici e insinuanti della drammaturgia contemporanea. Nel momento in cui lo spettatore si rende conto incontrovertibilmente della presenza di questo deus ex machina, è troppo tardi per tentare anche il minimo tentativo di resistenza. Ci sei dentro, maledettamente dentro, e ci godi pure… e in un attimo avverti perfettamente il senso di quel “se dio vuole” cristiano-islamico che qui diventa un rassegnato e piacevole – ma altrettanto definitivo – “se l’autore vuole”.

Giuliana Musso
Giuliana Musso legge “White Rabbit Red Rabbit”

Una conseguenza è che, di fatto, Soleimanpour riesce nel tentativo impossibile di finirla con il giudizio del regista. Non ci erano riuscite le regie collettive, le creazioni di gruppo, neanche gli autori che mettono in scena i loro testi e perfino neanche gli improvvisatori: da qualche parte la presenza di un demiurgo oppure di un autore complessivo del testo-spettacolo è sempre rimasta, pressoché in qualsiasi spettacolo. Qui no. Qui esiste solo un testo, un attore che legge e che obbedisce come può o come crede. Non c’è un pensiero plasmante dello spettacolo se non nella mente del drammaturgo che crea a suo piacimento. Eppure ogni “replica” (le virgolette sono inevitabili) di White Rabbit Red Rabbit è diversa, è un evento a sé, perché l’attore agisce e reagisce come crede e come può alle direttive testuali (ci sono margini di improvvisazione, tuttavia assolutamente residuali e comunque succubi al gioco). Ma manca la classica ‘mediazione’ di un regista, e all’attore stesso è sottratta la possibilità di agire da regista di sé, perché il testo si dipana secondo una scansione precisa e perché fino alla fine nessuno sa cosa possa accadere.

Eppure, al di là del mistero, tutto è, alla fine molto più semplice di quel che ci si possa aspettare. E al tempo stesso propone temi di riflessione importantissimi, non solo metateatrali, ma anche e soprattutto sociali e politici (che si intrecciano acutamente a quelli metateatrali). Sarebbe davvero importante poterli approfondire, ma qui cala – ancora una volta – il silenzio carbonaro che condividono i ‘fortunati’ che hanno assistito allo spettacolo, come fossero adepti di una setta segreta, depositari di una verità di cui hanno avvertito alcuni frammenti senza forse riuscire a comprendere appieno il tutto. D’altronde, quello è o non è un deus ex machina? L’autore divino centellina frammenti di senso a chi lo ascolta, che sia nella parte dell’officiante (l’attore) o nella parte del partecipante al rito (lo spettatore, che alla fine è solo un numero, parte di una compagine sociale apparentemente compatta). I temi sociali e politici si fanno largo pian piano, quasi subdolamente, dichiaratamente in forma di gioco, partendo dal titolo misterioso incentrato sul colore dei conigli (su cui si insiste molto), per poi suggerire derive autobiografiche, che tuttavia sono ulteriori manipolazioni con le quali l’autore ‘inganna’ lo spettatore. Il testo è un campo minato di trabocchetti mascherati da innocue chiacchiere amichevoli. E quando le chiacchiere sembrano innalzarsi verso sensi più complessi, quei sensi si aggrovigliano in apparenti non-sense. Di cosa si sta parlando?
Mi dispiace… per questa volta, nonostante il titolo, nessuno spoiler!

Nassim Soleimanpour
Nassim Soleimanpour

Rimane un’ultima considerazione possibile (non potendo citare e discutere il testo). Cosa rimane, dopo, allo spettatore che si è prestato a questa serata un po’ pazza (e cosa rimane all’attore che ha accettato di mettersi in gioco)? Certo, abbiamo assistito con piacere a qualcosa di molto originale, ma il punto vero è un altro. Siamo stati risucchiati dentro un testo, scoprendo di essere previsti dal suo autore, senza reali margini di libertà, molto più del lector in fabula di cui parlava Umberto Eco, e invece – semmai – come Bastian de La storia infinita di Michael Ende. Vertigine, disagio, voluttà: i sentimenti dello spettatore si mescolano, mentre si cerca di trovare un senso a racconti assurdi o a facili morali, mentre si pende dalle labbra dell’attore cercando di cogliere il suo imbarazzo o la sua sorpresa di fronte a ogni nuova parola. Attore? Dovrei forse chiamarlo primo spettatore, proprio come gli altri, cioè un primus inter pares, incaricato di aprire la fatidica busta: azione che chiunque di noi avrebbe potuto fare con quasi uguale risultato. Perché al di là della simpatia e della bravura dell’interprete (che pure sono il condimento giusto: nel caso di Giuliana Musso, molto gradevole), quello che davvero conta è leggere a voce alta e obbedire ciecamente a quel che si trova scritto dentro la busta. L’attore è esaltato e annullato al tempo stesso, è uno di noi e al tempo stesso parla con le parole dell’autore che è al di sopra di noi. Una sorta di Mosè che riceve da Dio le tavole sul Sinai, e che però è e sarà sempre in sua balìa, semplicemente intercambiabile: e il finale ne è una conferma mozzafiato. Diabolico davvero.
… e non posso dire altro.

 

White Rabbit Red Rabbit di Nassim Soleimanpour; con Giuliana Musso; produzione 369 gradi. Data unica: Casalecchio di Reno, Teatro Laura Betti, 9 novembre 2019.

Visto a: Casalecchio di Reno, Teatro Laura Betti, 9 novembre 2019.

 

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