Il posto dell’Afghanistan

Afghanistan 1
“Trombe alle porte di Jalalabad”

Aveva proprio ragione Henry Durand: l’Afghanistan sta nel posto sbagliato. Dalla sua prospettiva eurocentrica e colonialista, quell’immenso territorio di montagne inospitali era proprio quello che non ci voleva, così come i suoi abitanti. Cosa è venuto in mente all’Afghanistan di stare proprio lì? “Il vostro paese è nel posto sbagliato” è una delle più fulminanti e illuminanti battute della grande epopea di Afghanistan, la serie di 10 atti unici proposti dal Teatro dell’Elfo e da Emilia Romagna Teatro Fondazione. Un progetto intelligente, anzi necessario, che trasforma la geopolitica in teatro e il teatro in quel posto sbagliato dove si può interrompere la logica del Potere e delle strategie mercantili che governano la nostra realtà per comprenderle meglio grazie all’intuito artistico.
Tutto parte dagli inglesi, grandi protagonisti dell’imperialismo e del colonialismo dei secoli scorsi, e come tali – oggi – capaci di avere uno sguardo aperto sulle questioni politiche internazionali (al contrario degli italiani, che furono sì colonialisti, ma con provincialismo) e il bisogno di ragionare sulle proprie responsabilità (al contrario degli italiani, autoproclamatisi “brava gente”). Il Trycicle Theatre di Londra ha commissionato a 12 autori inglesi e americani (Stephen Jeffreys, Ron Hutchinson, Amit Gupta, Joy Wilkinson, David Edgar, J T Rogers, David Greig, Colin Teevan, Ben Ockrent, Richard Bean, Simon Stephens, e un’unica donna, Abi Morgan) altrettanti atti unici sulla storia dell’Afghanistan, a partire dal volume dello storico Peter Hopkirk Il Grande Gioco, che (riprendendo nel titolo un’espressione dello storico John William Kaye, resa poi popolare da Rudyard Kipling nel romanzo Kim) si riferisce a quella specie di Risiko che impegnò militarmente e diplomaticamente Inghilterra e Russia nel XIX secolo a contendersi quel “posto sbagliato”. A scapito, naturalmente, di quelle popolazioni. E a scapito delle generazioni seguenti, che sconteranno quel “gioco” scellerato fino a oggi.

Afghanistan 7
“Miele”

Come ci ricorda la voce ‘narrante’ dello spettacolo, che fa da tessuto connettivo ai diversi atti unici, accompagnata da immagini di repertorio come in un classico docufilm, nei primi dell’800 la Russia aveva inaugurato una vigorosa campagna espansionistica verso sud, invadendo e annettendo vasti territori, in rapido avvicinamento alle montagne afgane, dove vivevano popolazioni in continua rivalità. Come reazione, l’Inghilterra, impaurita dell’avanzata russa verso il cosiddetto “gioiello della corona britannica”, cioè l’India, concepì un altrettanto vigoroso intervento: trasformare quel territorio di clan divisi in uno Stato unico, governato da un emiro collaborazionista. Insomma, parte tutto da qui: un grande territorio strategico e due potenze aliene che decidono di condizionarlo. Con le buone, e soprattutto con le cattive. Si susseguono, così, tre guerre anglo-afghane, accordi e imposizioni, brevi sprazzi nei quali si insinuano antichi rancori (e ulteriori guerre) tribali, subdolamente attizzate e foraggiate dai “grandi giocatori”. Parte tutto da lì, dalla trasformazione di quei territori complicati in casella strategica per gli appetiti di russi e inglesi (che nel ventesimo secolo cederanno il posto agli Usa). Da quel momento, da quel 1839 in cui si scatenò la prima guerra degli inglesi, l’Afghanistan sarebbe cambiato, e agli albori del 2000 anche il mondo sarebbe cambiato proprio a causa dell’Afghanistan, pezzo di terra “nel posto sbagliato” ma nel mirino delle superpotenze, definitivamente defraudato della sua sovranità.

Afghanistan 4
“Legna per il fuoco”

Lo spettacolo, intelligentemente, mette a fuoco proprio le faglie critiche nel rapporto tra l’Afghanistan e le superpotenze che lo vampirizzano da quasi due secoli. E anche questo, in un certo senso, è un modo per colonizzare ancora una volta quel Paese: ancora una volta dando la parola ad autori occidentali, anzi discendenti di quel primo popolo di invasori (a parte Gupta, inglese di origine indiana), che tuttavia sanno affrontare il tema con intelligenza (ed eccellente efficacia drammaturgica), mescolando lucidità storiografica e senso di colpa. Il risultato sono 12 testi potenti, illuminanti, in splendido equilibrio tra pensiero geopolitico e narrazione drammatica. Anzi, 13 testi perché poi il progetto originario, risalente al 2009, ebbe una coda con un ultimo lavoro di Naomi Wallace (e nel frattempo il testo di J T Rogers, trasformato in dramma più ampio, fu sostituito da un altro di Lee Blessing). Di tutti questi, Ferdinando Bruni e Elio De Capitani ne hanno portati in scena in Italia 10, visibili in due grandi blocchi di due ore e mezzo l’uno che rispettano l’ordine cronologico degli eventi storici, dal 1842 al 1996 (Il Grande Gioco) e dal 1996 al 2010 (Enduring Freedom, il nome ufficiale della più recente campagna militare americana in Afghanistan), o in un’unica maratona.
Prima di procedere, si insinua un pensiero. Con le necessarie differenze, anche l’Italia porta una responsabilità storica derivante dal periodo coloniale, della quale oggi raccogliamo gli amari frutti: gli sciagurati interventi in Libia e nel Corno d’Africa sono tuttora ferite aperte e sanguinanti e condizionano fortemente i nostri attuali destini. E se un grande teatro italiano provasse a mettere in gioco una dozzina di autori, con spirito analogo al Trycicle Theatre, per raccontare la storia rimossa o del tutto sconosciuta della Libia o della Somalia, dell’Etiopia, dell’Eritrea, cioè le nostre responsabilità, le radici della destabilizzazione di quei Paesi, l’emergenza umanitaria che li attraversa? In un Paese come il nostro, malato di ignoranza storica e geopolitica, l’azzardo sarebbe forse troppo o non sarebbe semmai doveroso?

Afghanistan 8
“Dalla parte degli angeli”

Torniamo allo spettacolo, che lungi dall’essere un rito di autoflagellazione dell’Occidente è un vero e proprio affondo nella complessità delle dinamiche critiche del rapporto dell’Occidente con l’Afghanistan, anzi oserei dire con tutti i Paesi colonizzati: in questo senso, pur nella precisione di personaggi e fatti storici, l’opera complessivamente assume una dimensione simbolica nella quale si possono riconoscere tanti altri territori del pianeta. Ma soprattutto Afghanistan offre un affondo nella sostanziale incomunicabilità non tanto (o non solo) di culture, quanto di approcci al conflitto. Infatti, oggetto reale dello spettacolo non è tanto quel Paese, quanto il complesso intrico di fascinazione, manipolazione, incomprensione (in un certo senso, quell’orientalismo spiegato da Edward Said) e tanta, tanta violenza, che ha caratterizzato gli ultimi due secoli in cui, al contrario dei precedenti invasori (arabi, persiani, mongoli), gli inglesi, i russi e gli americani hanno alimentato il disastro nascondendo gli artigli dietro il sorriso perbene e progressista della “civiltà”. Del resto, non va mai dimenticato il sottotitolo della prima parte dello spettacolo: Il Grande Gioco, dove gli occidentali colonialisti e post-colonialisti sono i giocatori e dove l’Afghanistan sarebbe… il tabellone. Non c’è simmetria, non c’è equilibrio tra chi gioca e il tavolo su cui sta giocando, tra personalità attive e una superficie inerte, che peraltro starebbe nel posto sbagliato. Peccato che proprio inerte quella superficie non sia: da qui, dallo stupore di fronte alla sua vitalità, nasce tutto.

Afghanistan 2
“La linea di Durand”

Da questo punto di vista, il primo episodio (Trombe alle porte di Jalalabad di Stephen Jeffreys) è incisivo: da una parte un gruppo di soldati all’indomani della spaventosa strage, nel gennaio 1842, di oltre 16.000 inglesi (di cui 12.000 civili), durante la prima guerra anglo-afghana; dall’altra un afghano che con dialettica levantina si insinua nelle tetragone certezze dei militari british forzando la faglia critica di un dialogo impossibile fino all’inevitabile esito di morte. Lo spettacolo, in un certo senso, sta già tutto lì, nell’evidenza logica di errori di valutazione e con l’incapacità di comprendere il contesto. Credevano di stare muovendo pedine sul tabellone di un gioco di società, ma si sono ritrovati nel magma incomprensibile di una popolazione tutt’altro che disposta a rimanere inerte.
La stessa dialettica levantina torna nel notevole secondo episodio (La linea di Durand di Ron Hutchinson), che rievoca l’incontro tra l’emiro Abdur Rahman e sir Henry Durand nel 1893 per definire i confini del Paese. Un dialogo davvero illuminante e brillante, che sarebbe piaciuto alla Joan Littlewood di Oh, che bella guerra!, e che vede da una parte la logica colonialista e normativa dell’inglese, impegnato con apparente distacco scientifico e positivista a erigere confini sulla mappa per dare “ordine”, per “dare forma al mondo”, e dall’altra il governante afghano che rivendica invece la fluidità della terra e il relativismo dello sguardo, con fulminanti scambi di battute che sanno rimettere in gioco ogni nostra convenzione e ci offrono la base per comprendere tanto del rapporto tra gli sciagurati secoli di colonialismo europeo in Asia, Africa e America, e le conseguenze odierne di quelle scelte.

Afghanistan 3
“Questo è il momento”

Il terzo episodio (Questo è il momento di Joy Wilkinson) rievoca la fuga di re Amanullah durante la rivolta delle fazioni conservatrici, nel 1929. Amanullah, l’unico grande e vero leader progressista afghano, aveva rifondato lo stato sulla base dei diritti (delle donne in primis) e dell’educazione obbligatoria, in una sorta di prove di dialogo costruttivo con l’Europa: coraggio che pagherà, appunto, con le rivolte interne oscurantiste, sostenute da agenti stranieri, e con l’esilio. E’ interessante che questo momento sia colto in una terra sospesa in cui assistere a un’interminabile attesa (beckettiana verrebbe da dire, visto che l’atteso Godot-Russia non arriverà a salvare il protagonista, mostrando così tutto il suo cinismo), dove nella neve si staglia uno dei simboli più eclatanti del progresso tecnologico (proprio nell’anno della Grande Depressione che annichilì l’Occidente), l’automobile, ma in panne, inservibile, ridotta a pura apparizione di sedie, tristemente e inutilmente statiche.
Dopo la sconfitta del re progressista, tutto si avvicina pericolosamente ai giorni nostri, e dall’arroganza degli inglesi e dal cinismo dei russi si passa direttamente alla goffaggine degli americani. Nel quarto episodio (Legna per il fuoco di Lee Blessing) il dialogo tra un agente della Cia e un suo omologo pakistano svela le macchinazioni degli Usa durante la guerra fredda: fornire di armi e denaro i ribelli islamisti che combattono i sovietici sul territorio afghano, armi e ribelli che però finiranno nelle mani del Pakistan, ben intenzionato a imporre la sua influenza sulla regione. Più avanti, in Miele di Ben Ockrent, ritroveremo un altro americano, negli anni 90, inviato presso il comandante Massoud per recuperare parte di quella fornitura, in modo altrettanto maldestro, facendo trapelare un ingente finanziamento economico ai talebani, nemici sì dei sovietici, ma anche dell’islamista Massoud, unico argine potenziale all’apocalisse imminente, destinato a morire in un attentato suicida.

Afghanistan 5
“Minigonne di Kabul”

Se qui Amanullah ha la statura del romantico eroe hollywoodiano (percezione favorita non solo dall’intenso scambio con la regina Soraya, ma anche da una sensibilità per così dire ‘cinematografica’ – quasi alla Dottor Zivago – con cui il suo atto unico è costruito), e se Massoud incarna a tratti potenti squarci lirici, il personaggio tragico per eccellenza sembra essere Najibullah, protagonista del quinto episodio (Minigonne di Kabul di David Greig), in cui va in scena l’intervista immaginaria tra una giornalista inglese e il presidente filo-sovietico poco prima della sconfitta da parte dei rivoltosi nel 1996, della tortura e della morte. Personaggio tragico come solo certe figure del 900 sanno esserlo: persa la tragicità classica, permane la sua pallida e ironica ombra. Najibullah, che pure dovrà scontare l’hybris originaria del Grande Gioco di cui non è responsabile, ma nel quale si incastra a perfezione, strattonato dalle potenze aliene, si presenta come un fragile perdente destinato a soccombere pur anelando continuamente alla vittoria, ma intrappolato dalla memoria, da quell’aria progressista che il Paese aveva respirato negli anni laici supportati dai russi, che si focalizza sulle ragazze in minigonna in vecchi filmati in bianco e nero e sulle moderne Spice Girls, fantasmi di un altrove al quale non potrà mai approdare.

Afghanistan 6
“Il leone di Kabul”

La vittoria dei rivoltosi manterrà il Paese in un clima costante di incertezza, dove il ricorso alla sharia, la legge coranica di più stretta interpretazione, è invocato da un po’ tutte le fazioni rimaste sul campo, dagli islamisti ai talebani. Il sesto episodio (Il leone di Kabul di Colin Teevan) mette a confronto, in un dialogo aspro e definitivo, un mullah e la direttrice di un’agenzia dell’ONU a proposito di quel che sia lecito e di come punire chi compie l’illecito. Trionfa lo scontro tra culture e valori, o meglio l’irriducibilità di quella faglia di cui ho parlato prima: sotto altre forme (stavolta ci sono di mezzo la religione e l’ONU) ritorna in un’ennesima declinazione il balletto del Grande Gioco, nel quale – per la prima volta – ci troviamo come spettatori a sentire di doverci schierare. Certo, che diamine!, è talmente evidente che le ragioni del mullah sono inaccettabili e che stiamo dalla parte dell’ONU: ma in quel giudizio, che lo spettatore non può trattenere in cuor suo, torna sottilmente, diabolicamente, l’enfatico orgoglio positivista di sir Durand che vuole, a ragione, mettere ordine, contro le arzigogolate obiezioni di Rahman. Al mullah di questo episodio verrebbe quasi da dire: la tua etica sta nel posto sbagliato. Ed è subito cortocircuito: la faglia si allarga.
D’altra parte, qualunque sia, l’approccio occidentale risulta quasi sempre sbagliato, per colpa di quel peccato originale, quando le due superpotenze iniziarono il Grande Gioco della manipolazione dell’Afghanistan. A metterlo in evidenza in maniera spietata è l’ottavo episodio (Dalla parte degli angeli di Richard Bean), una dura accusa nei confronti di certe organizzazioni benefiche sul limite dei princìpi morali, stiano questi nel cinismo di certe campagne di raccolta fondi o addirittura nell’avvallare dinamiche sociali eticamente ripugnanti per la nostra società. Nell’atto unico, rappresentanti di una ONG privi di scrupolo riescono a risolvere un grave problema in un territorio del Paese, portando alla pace di un conflitto tra clan e a un certo progresso economico con la rinascita di terreni agricoli, ma solo grazie al sacrificio di qualche bambina data in sposa ai potenti di turno. Torna il cinismo, torna la manipolazione: non ci sono i fucili del primo episodio né i missili del quarto e del sesto, ma il volto pulito di colletti bianchi della beneficienza, che si allenano in cyclette e dispensano benessere ai poveri del Terzo Mondo senza entrare nelle sue contraddizioni.

Afghanistan 9
“Volta stellata”

Con questo episodio, la responsabilità dell’Occidente si sposta in casa nostra: il Grande Gioco, partito su quelle montagne, è andato oltre ogni immaginazione e dopo quasi due secoli continua coinvolgendo sempre più chi l’Afghanistan l’ha visto solo in tv. Nel nono episodio (Volta stellata di Simon Stephens), quelle montagne pullulanti di talebani e presidiate da due soldati inglesi dagli atteggiamenti sbruffoni, come soldati yankee di tanto cinema americano, si trasformano nell’interno domestico di uno dei due, quando – al ritorno in patria – il militare non riesce a dimenticare: la faglia entra direttamente nelle case linde dentro i nostri confini, si insinua tra marito e moglie, trasporta la sofferenza dei bambini afghani in quella dei bambini europei. A quale punto è arrivato il Gioco? Al punto di non ritorno, come dichiara il pezzo che chiude l’intera saga (Come se quel freddo di Naomi Wallace), in cui cala il silenzio tombale di una carneficina che accomuna ragazze afghane di un villaggio uccise da un soldato straniero e quello stesso soldato saltato su una mina: un atto unico che porta in scena tre fantasmi e che sembra nutrirsi di quel filone autorale tutto femminile che accomuna certi paesaggi umani di Sarah Kane e certe folgorazioni metastoriche di Caryl Churchill. L’immagine della donna col burqa che porta ai piedi gli stivaloni del militare americano mi sembra che rappresenti visivamente e concettualmente la straziante condizione di un Paese e del Grande Gioco a cui è sottoposto: la violenza dei soldati e quella dei talebani annichiliscono l’Afghanistan, e non a caso la ragazza infine morirà, ma senza burqa né stivali, libera almeno nell’ultima ora, vittima di una campagna militare intitolata con ineffabile ipocrisia Enduring Freedom, che identifica la “libertà duratura” solo con l’annientamento. E alla fine, dopo ore di una maratona teatrale che ci ha coinvolto, istruito, appassionato, inorridito, affastellando episodi e personaggi storici, immagini di repertorio e scenografie allusive, dialoghi raffinati e scontri violenti… alla fine, su quel palco, rimane solo il deserto, una branda, dei sassi, un burqa vuoto, una valigia: ubi solitudinem faciunt, pacem appellant.

Afghanistan 10
“Come se quel freddo”

Afghanistan: Il Grande Gioco di Lee Blessing, David Greig, Ron Hutchinson, Stephen Jeffreys, Joy Wilkinson; traduzione Lucio De Capitani; regia Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani; con Claudia Coli, Michele Costabile, Enzo Curcurù, Fabrizio Matteini, Michele Radice, Emilia Scarpati Fanetti, Massimo Somaglino, Hossein Taheri; scene e costumi Carlo Sala; video Francesco Frongia; luci Nando Frigerio; suono Giuseppe Marzoli; foto di Laila Pozzo; coproduzione Teatro dell’Elfo e Emilia Romagna Teatro Fondazione; in collaborazione con Napoli Teatro Festival. Prima nazionale: Milano, Teatro dell’Elfo, 17 gennaio 2017.
Afghanistan: Enduring Freedom di Richard Bean, Ben Ockrent, Simon Stephens, Colin Teevan, Naomi Wallace; traduzione Lucio De Capitani; regia Ferdinando Bruni e Elio De Capitani; con Claudia Coli, Michele Costabile, Enzo Curcurù, Alessandro Lussiana, Fabrizio Matteini, Michele Radice, Emilia Scarpati Fanetti, Massimo Somaglino, Hossein Taheri, Giulia Viana; scene e costumi Carlo Sala; video Francesco Frongia; luci Nando Frigerio; suono Giuseppe Marzoli; foto di Laila Pozzo; coproduzione Teatro dell’Elfo e Emilia Romagna Teatro Fondazione; in collaborazione con Fondazione Campania dei Festival – Napoli Teatro Festival. Prima nazionale: Napoli, Teatro Mercadante, 8 luglio 2018.

Visti a: Bologna, Arena del Sole, 1 dicembre 2018.

 

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