Il primo amore non tocca soltanto il muscolo del cuore, non investe solo i sospiri, l’immaginazione, il desiderio, la trepidazione, l’euforia… nell’esperienza del primo amore sta anche l’invenzione di gesti e posture, stanno tutti i muscoli, che si ricompongono secondo una grammatica nuova, di cui l’età ci farà presto perdere le regole – e le emozioni. C’è una fisicità apparentemente scoordinata, che pure corrisponde a un linguaggio preciso e incalzante. Nella memoria il primo amore corrisponde a una goffaggine dei sentimenti e dei gesti, ma nell’immanenza quei sentimenti e quei gesti hanno la limpidezza di un discorso inevitabile e netto. Il primo amore può essere una persona, un animale, un attore, un atleta, un cantante, una passione che ha il sapore dell’assolutezza infantile o adolescenziale. Che, da adulti, dimentichiamo o ricordiamo con il filtro mitopoietico dell’esaltazione o della delusione. In ogni caso, con un filtro, che sfuma sentimenti e gestualità, perché “il passato è una terra straniera”, come scriveva Leslie P. Hartley, e avventurarsi in quel territorio ignoto può essere affascinante, ma faticoso: per le gambe, i muscoli, la lingua, le emozioni inattese. Così è il “primo amore” raccontato da Marco D’Agostin in uno spettacolo dalla spinta personalissima, che sa interpretare una condizione comune.
Il suo primo amore è stato uno sport, lo sci, che si rapprende nell’immaginario attraverso una figura eroica, una campionessa dello sci di fondo: quella Stefania Belmondo che nel 2002 vinse la medaglia d’oro in una gara impegnativa e leggendaria alle Olimpiadi di Salt Lake City. Marco aveva 15 anni. E quello fu il suggello del suo “primo amore”. Nello spettacolo First love, D’Agostin impone allo spettatore un’equivalenza indiscutibile: il concetto di “primo amore” è sovrapposto alla rievocazione di quella gara di Stefania Belmondo, ed è attraverso la lente interpretativa del “primo amore” che l’intera rievocazione va letta. L’adesione è reale, il viaggio nella “terra straniera” è reale, quello che vedremo è reale… ma sostenere l’autenticità passa attraverso la simulazione, per riproporre con precisione la distanza da cui si guarda ogni volta che ciascuno di noi pensa al primo amore (o comunque al passato). Il rapporto tra autenticità e simulazione è impostato fin dal breve prologo iniziale. D’Agostin, immobile al centro della scena, rivolto al pubblico, interpreta in playback First love di Adele, e mentre muove le labbra con convinzione, fingendo di cantare sovrapponendosi alla voce di Adele, osserva negli occhi gli spettatori: non il pubblico, ma gli spettatori, uno a uno, come per impostare un rapporto personale, come per introdurre una confessione privata, insistendo sul playback come garanzia ironica (nel senso di distante) della memoria. E le parole di Adele suonano come una dichiarazione di poetica di questo spettacolo (“So little to say but so much time / Despite my empty mouth the words are in my mind”), ma anche come la premessa nostalgica e spietata al tempo stesso che introduce ogni nostro ricordo del primo amore: “Forgive me first love”.
Lo spettacolo consiste nella rievocazione della telecronaca di quella gara di Stefania Belmondo. Una sorta di calco aderente, di mimesi verbale, in cui il corpo ci appare in un primo momento come mero supporto di un flusso di parole. Se all’inizio potevamo sentire la vera voce di Adele, mentre il performer muoveva solo le labbra, adesso la voce di Dario Puppo (il cronista di quella gara per Eurosport) è completamente assente, sostituita dalla recitazione di D’Agostin, in un’operazione che per certi versi ricorda quella di Marco Cavalcoli sul film Il mago di Oz in Him. D’Agostin imita con adesione pressoché perfetta (ma con sottili alterazioni e reinvenzioni) il telecronista, con le tipiche inflessioni, le pause, le divagazioni dell’originale; e alcuni appunti e dettagli della telecronaca, privati della visione della gara e del codice del giornalismo sportivo e ‘assolutizzati’ in un’enunciazione teatrale, diventano perfino umoristici.
Dall’iniziale posizione statuaria, D’Agostin inizia lentamente a muovere il corpo, pur senza rinunciare alla posizione centrale in cui sta dall’inizio. La memoria della telecronaca fa riemergere la memoria del gesto. Eppure, non si tratta affatto di un’imitazione dei movimenti della sciatrice, ma di un’allusione. I movimenti atletici vengono decostruiti, distillati e ricomposti secondo una partitura che è atletica e coreutica al tempo stesso: i gesti denunciano il loro essere tracce fisiche e alterate di una memoria personale, intima; come se il recupero della memoria del first love comportasse la ridefinizione di un alfabeto ritrovato e personale. Il divario di enunciazione verbale e partitura fisica, così estremo nel precedente assolo di D’Agostin Everything is ok, si ricompone, anche se a tratti si fa strada quasi un agone, un conflitto, tra il discorso e il movimento, tra la parola e il corpo, tra la voce e la fisicità. Mentre scorrono le parole della telecronaca restituite da D’Agostin, il performer stesso incarna nei movimenti del suo corpo la memoria di un corpo che proviene da quel passato “terra straniera” che si sta rievocando e che ha un nome preciso: first love. Come se la telecronaca non fosse altro che la leva proustiana di un amore che la distanza temporale e soprattutto la mitizzazione ideale hanno trasformato in altro dal vero sé.
D’Agostin è lì, in una ‘sfacciata’ frontalità che comporta la chiamata dello spettatore alla condivisione di un’esperienza personale, che però riconosciamo come condivisa. D’Agostin si mette a nudo, chiamando come testimone/confessore lo spettatore: al suo sforzo fisico e mentale (senti-mentale) cosa corrisponde nello spettatore? Quale adesione? Il “primo amore” è quello di Marco, la memoria della telecronaca è sua, la fisicità esuberante è sua: tutto sembrerebbe respingerci eppure tutto ci risucchia al tempo stesso, fino a riconoscere in quello sforzo – e soprattutto in quel percorso di rievocazione – i sentimenti e i processi che ci riportano ai nostri stessi ricordi, e alla ricostruzione mentale e fisica di quei momenti.
Poi, una parentesi: nell’impianto drammaturgico perfettamente delineato si insinua una crepa. Lentamente, mentre continua la lunga telecronaca, D’Agostin abbandona la posizione centrale, arretrando in un angolo in fondo alla scena, nella penombra. E la telecronaca slitta nella memoria della voce dell’allenatore dello stesso Marco ragazzino (o almeno questa è l’impressione): dal giornalista che incalza Stefania Belmondo verso la vittoria si passa all’allenatore che spinge il protagonista in una qualche competizione giovanile, in un’eco sferzante che sembra risalire dai ricordi più preziosi: “Vai Marco! Vai vai vai vai vai”. E’ un momento incalzante e inquietante, direi dark, sostenuto da un insinuante e potente orizzonte sonoro, con la voce che non lascia spazi di silenzio o di ripresa del fiato: nel passaggio alla performatività il fermo-immagine dei momenti felici (e faticosi) del Marco ragazzino sulla neve riecheggia quasi come un sogno confuso. E’ il nucleo più intimo dello spettacolo (e perciò spazialmente più lontano dal pubblico) e più necessario, anzi necessitante: è il fulcro stesso dello spettacolo, ciò che dà senso al resto, la breccia aperta da cui è scaturito tutto. Nella penombra, come un sogno dove i confini di voci e persone sfumano. O come un incubo. Quanto tempo è passato? Sono io quello lì? Il passato è una terra straniera, ancora…
Chiusa la parentesi, la telecronaca recitata da D’Agostin riprende, ancora al centro in proscenio: ai contorni sfumati della confessione più intima succede nuovamente la chiarezza luminosa dell’imitazione della telecronaca della gara di Stefania Belmondo, con sempre maggior adesione verbale e una sempre più concitata e apparentemente scomposta elaborazione gestuale e fisica: l’esibizione mattatoriale e virtuosistica di D’Agostin si impone, come per cancellare dalla memoria dello spettatore quell’intima parentesi dark, arrivando fino alla rievocazione del trionfo di Stefania Belmondo che chiude la telecronaca. Il ricordo del primo amore torna a essere collettivo, ed è soprattutto fisico.
L’intera performance è fisicamente molto impegnativa: la memoria dell’amore è una memoria faticosa, una memoria del corpo che comporta gesti estremi e molto sudore. E’ così che D’Agostin rievoca il suo (e il nostro) primo amore. Eppure, l’oggetto dichiarato è assente dalla rappresentazione: nessun elemento viene portato allo sguardo dello spettatore come ‘prova’ di quell’amore, di quel ricordo, di quelle emozioni impalpabili e in sostanza indicibili e irrappresentabili. Del primo amore abbiamo la memoria nel movimento, ma è completamente alterata (il gesto non è mimetico). Abbiamo il sentimento di questa memoria (nella parentesi più intima). Abbiamo il ricordo di un evento eroico che dovrebbe riassumere l’eroismo di quel first love. E abbiamo una telecronaca logorroica che è in qualche modo la narrazione di un primo amore, che risuona – da lontano – quasi surreale, ironica, con le parole che vengono a tratti ripetute, distanziate, infrangendo la pura imitazione… quasi come fossero brandelli di memoria che faticano a ricomporsi o che rimbalzano trasformando la stessa parola in qualcosa di sempre diverso. E così, nel finale D’Agostin finisce per “arrendersi” alla memoria, risucchiato nuovamente sul fondo della scena nella penombra e nel silenzio, lasciandosi inondare dalla neve. La neve, finalmente! La prova materiale che aspettavamo! La traccia necessaria e imprescindibile di quanto raccontato! Ma è esplicitamente finta, un trucco teatrale: come nella canzone di Adele, autenticità e simulazione si ricongiungono per comporre un atto di rievocazione della realtà, sulla fiducia.
Ma la neve è soprattutto altro. Evoca la freddezza. Congela quel first love che, dopo il calor bianco dell’intera performance, si rapprende in una sorta di ibernazione della memoria (e dell’amore, del primo amore), ampliando ancor di più la distanza da quella terra straniera. Lasciando allo sguardo dello spettatore l’immagine di una nevicata incessante, quasi funebre, che copre lentamente il corpo immobile, sotto un debolissimo pallido sole.
First love un progetto di e con Marco D’Agostin; suono LSKA; consulenza scientifica Stefania Belmondo e Tommaso Custodero; consulenza drammaturgica Chiara Bersani; luci Alessio Guerra; direzione tecnica Paolo Tizianel; promozione Marco Villari; organizzazione Eleonora Cavallo, Damien Modolo; progetto grafico Isabella Ahmadzadeh; produzione VAN 2018; coproduzione Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Torinodanza festival e Espace Malraux – scène nationale de Chambéry et de la Savoie, nell’ambito del progetto “Corpo Links Cluster”, sostenuto dal Programma di Cooperazione PC INTERREG V A – Italia-Francia (ALCOTRA 2014-2020); in collaborazione con Centro Olimpico del Fondo di Pragelato; progetto realizzato in residenza presso la Lavanderia a Vapore, Centro Regionale per la Danza; con il supporto di ResiDance XL, inTeatro. Prima assoluta: Torino, Torinodanza, Fonderie Limone, 12 ottobre 2018.
Visto a: Bologna, Vie Festival, DAMSLab, 6 marzo 2019.
Foto: Alice Brazzit.