Il cielo sopra Pekino

Cherstich 1Probabilmente lo spettatore che si accinge a vedere la Turandot ideata da Fabio Cherstich e AES+F non si aspetta di stare per assistere a ben tre diversi spettacoli. Il primo, che irrompe dal sottosuolo ideale del golfo mistico, è quello della musica accorata di Puccini, che basterebbe chiudere gli occhi per godersi. Il secondo è sul palcoscenico, dove si mostra la città di Pekino con i personaggi che si affannano in una delle più bizzarre storie d’amore, fatta di sangue crudele e sfide enigmistiche. E poi il terzo, lassù, sopra il palcoscenico, sopra Pekino, dove sta il cielo, immenso, colorato, ipnotico, dilagante, animato di figure ancor più enigmatiche degli indovinelli di Turandot, vero nucleo – visivo e di senso – dell’intero spettacolo. Che poi sono tre spettacoli. Molto diversi. Perché le storie che raccontano e il modo di raccontarle sono diverse.
L’opera di Puccini è risaputa: la principessa crudele, che non vuole marito, impone ai pretendenti tre indovinelli e fa uccidere chi non risponde bene, cioè tutti. Finché non arriva Calaf, l’eroe che indovina. Lei non vuole cedere, lui le propone il contro-indovinello: come mi chiamo? Lei non riesce a saperlo, ma fulmineamente si innamora e scatta il lieto fine. Era proprio su quel “fulmineamente” che l’ispirazione di Puccini si era impantanata, in uno stallo che non si sarebbe sbloccato fino alla morte. L’opera è incompiuta e si ferma con il suicidio della schiava del padre dell’eroe, innamorata di lui ma pronta a sacrificarsi per non rivelare il fatidico nome. Del resto, con la fine della schiava Liù (che nella versione vista ha la bella interpretazione toccante di Mariangela Sicilia) termina anche idealmente il racconto così come lo potevano concepire Puccini e i suoi librettisti Giuseppe Adami e Renato Simoni, cioè un “dramma lirico” imperniato su amore e conflitto: l’eroe si innamora della bella gelida castigatrice ma non si accorge che solo l’umile serva lo ama davvero, e che sacrificherà la sua vita per non intralciarlo. Il problema è che Turandot in origine non ha nulla del feuilleton, perché è una fiaba, per giunta arlecchinesca, perlomeno nella versione settecentesca più celebre di Carlo Gozzi (e di Schiller). Alla comicità Puccini cede un poco, trasformando le maschere della Commedia dell’arte nel terzetto dei dignitari Ping, Pang e Pong, simpaticamente complementari come Qui, Quo e Qua, ma alla fiaba proprio no. La fiaba pretende che la perfida regina improvvisamente si innamori senza troppe spiegazioni. La narrativa mélo non lo può accettare: perché? come? E così, incompiuto, il melodramma viene finito nell’ultima scena (appunto, l’incongruo innamoramento con lieto fine) da Franco Alfano: a lui il compito di conciliare l’inconciliabile.

Cherstich 2Tra il feuilleton di Puccini, interessato alla vera storia d’amore nascosta nel plot, e la fiaba di Gozzi, interessato invece a esaltare le potenzialità fantastiche e affabulanti della narrazione teatrale, si incuneano gli altri due spettacoli, quelli di Fabio Cherstich e di AES+F, ossia Pekino e il cielo di sopra. Pekino è un non luogo, in cui si racconta una non storia, o meglio tante storie diverse che sembrano accavallarsi in una metropoli delle possibilità, dove personaggi e vicende saltano fuori da un helzapoppin che macina e frulla visioni pop e sottotracce che rimandano a un’idea opprimente e cartoonesca di conflitto. Come le maschere care a Gozzi, i tre dignitari si agitano con i loro cappottoni rosso sangue da funzionari kafkiani passati attraverso la visionarietà cromatica di un Tarsem Singh. L’eroe è una sorta di Rambo del Mid-West che sembra l’irrequieto braccio armato di un padre bardato come il Dittatore di Sacha Baron Cohen. L’imperatore, schiacciato in una spietata immobilità in una sorta di portantina-cappella votiva, ha le sembianze da vecchio saggio-guerriero da anime giapponese, ridotto a larva impotente. Le guardie sembrano figuranti di Guerre stellari, con tanto di spada laser. In mezzo a tanta violenza maschile la presenza femminile si esprime attraverso la positività, per quanto sempre in forma di maschera: Liù è un’infermiera, una sorta di crocerossina assegnata al militare infermo, mentre Turandot veste un manto di luce, più da regina illuminata (e illuminante) che da crudele assassina.
E poi c’è il popolo, vero e complesso antagonista dei personaggi che portano avanti la storia. Nel libretto originale il popolo ha una forza che va molto al di là del semplice ambiente o dell’immancabile coro. E’ semmai la perfetta fotografia della massa informe che oscilla tra la sete di sangue e l’aspirazione alla bontà, specchio di un popolo da social network che Adami e Simoni potevano verificare ante litteram: mentre scrivevano Turandot, tra il 1920 e il 1922, l’Italia passava dai postumi della Grande Guerra al fascismo. E infatti non lo chiamano popolo, ma “folla”. “Noi vogliamo il carnefice! / Presto, presto! Muoia, Muoia!” canta la Folla all’inizio dell’opera, salvo poi accodarsi agli eventi senza poterli o volerli davvero guidare, più vigliacca che inerme. Nella Pekino di Cherstich la folla è una uniforme e anonima distesa di tenui colori pastello assiepata su due gradinate che incombono sull’azione come in un’arena, un po’ plebe romana che incita i gladiatori dagli spalti del Colosseo e un po’ pubblico televisivo da talent show, pronto a incensare o castigare il talento di turno di fronte alla prova impari che lo attende: in questo caso indovinare i tre enigmi. Una folla quasi tenera, impalpabile, e forse proprio per questo ancor più inquietante.

Cherstich 3La storia raccontata da Cherstich è una sorta di incubo, dove i conflitti sono nella forma e non nelle azioni. Le guardie non si scagliano e non percuotono: si limitano ad allungare le loro spade luminose. La folla non travolge tumultuosamente, si muove ordinatamente. Non ci sono le macchine del boia, non c’è violenza visibile. Perfino il vecchio Timur non cade a terra spinto dagli astanti, ma entra prima dell’apertura del sipario e si stende comodamente in proscenio. La violenza sta nelle parole, nell’indifferenza complice della folla, nel supplizio ludico di Turandot, nello stallo raggelato in cui tutti – non solo l’Imperatore – si ritrovano, perfino nella foga impotente del Rambo-Calaf. E’ come se il regista volesse sottrarsi alla storia stessa raccontata da Puccini, come se ne rifiutasse la necessità, come se la volesse frantumare in monadi raggelate. E il clou sta proprio nel finale che Puccini non riuscì a musicare. L’amore improvviso di Turandot per Calaf? Ecco la didascalia con cui Adami e Simoni cercano di spiegare l’inspiegabile: Calaf “rovescia nelle sue braccia Turandot, e freneticamente la bacia. Turandot – sotto tanto impeto – non ha più resistenza non ha più voce, non ha più forza, non ha più volontà. Il contatto incredibile l’ha trasfigurata”. Cherstich non si lascia ingannare, e piazza Turandot e Calaf lontani, immobili, ciascuno perso nel suo canto, frontale verso il pubblico, anti-emotivo e anti-fisico, quasi volesse rendere visibile al pubblico lo stallo in cui si trovò Puccini: altro che “contatto incredibile”! Non solo: Liù, morta in mezzo alla scena, si alza come se nulla fosse ed esce. Il finale è quanto di più artificioso e fittizio si possa pensare, perché artificioso e fittizio probabilmente lo avvertiva Puccini.

E poi c’è il cielo, il cielo sopra Pekino. Il cielo fisico del teatro, tutta l’aria che sovrasta il palco su cui si muovono i cantanti, che qui è riempito interamente da tre enormi schermi che ampliano la visione e al tempo stesso schiacciano lo spettacolo dal vivo con sequenze video di forte impatto, create da AES+F, capaci di sottrarre quasi sempre l’attenzione dal resto. E c’è anche il cielo ideale della città, quello che tarda a mostrare la luna, o che osserva dall’alto l’attesa di Calaf nella notte in cui “nessun dorma”. Ma qui il cielo di Pekino è davvero un’altra cosa, perché qui siamo arrivati al terzo spettacolo.

Cherstich 4Il piano su cui opera l’azione ideata da AES+F è quello dell’allegoria para-mistica, che è poi il fulcro della poetica dei lavori del quartetto di artisti russi. Non è un caso che nel cielo sopra Pekino si libri una fortezza volante che sembra uscita dall’ipotetica versione pulp di un film di Miyazaki: uno spaventoso dragone, che in realtà arriva dritto dritto da un’altra opera di AES+F del 2011, intitolata – guarda caso – Allegoria sacra. Un dragone nel cui interno, come nella balena di Giona o di Pinocchio, sono radunati alcuni giovani seminudi in attesa del sacrificio, che ostentano un corpo da fotomodelli e uno sguardo vacuo verso il nulla, quasi a riprendere la didascalia del libretto pucciniano a proposito della vittima sacrificale: “bellissimo, quasi infantile… vittima smarrita, trasognata, il bianco collo nudo, lo sguardo assente”. Ci penseranno alcuni automi tentacolari dalle caratteristiche femminili a decapitarli in una ironica catena di montaggio. E le loro teste mozzate, anch’esse identiche alle teste che compaiono in Allegoria sacra, riempiono languidamente lo schermo. Nello spettacolo di AES+F Turandot, probabilmente grazie alla chiave fatidica degli indovinelli da superare come fossero le prove del Flauto magico, ha il sapore misterioso e misterico dei riti di passaggio, della palingenesi: prima l’attesa, poi il sacrificio e infine la rinascita dell’uomo nuovo e il trionfo, che alla fine esplode colorando le mutande che prima erano bianche (particolare che mi sembra rivelare una necessaria e auspicata autoironia) e calando le figure in un cielo ancor più vertiginoso di prima, dove giganteggiano una donna-animale e un formoso neonato dalla corporatura confuciana e dall’atteggiamento gestuale del Gesù Bambino benedicente, che sembra annunciare una nuova Età dell’Oro: un giardino delle delizie classicheggiante come lo potrebbero rileggere Pierre et Gilles. Con una sensibilità visiva che dal Rinascimento delle allegorie (tra un Giorgione e un Bosch, per intenderci) attraversa l’onirismo surreale e bizzarro di Topor (quello del film Il pianeta selvaggio diretto da René Laloux nel 1973) e plana verso le frontiere contemporanee del kitsch e del fantapop.

Cherstich 5E del resto, ben più che a discorsi politici, come aveva tentato a suo tempo Bertolt Brecht nel 1953 nella sua Turandot rimasta (anche quella!) incompiuta, la Turandot lirica pare invitare al kitsch più sfrenato e visionario, se il ‘diabolico’ Ken Russell, nell’episodio di Aria diretto nel 1987, aveva immaginato per la sua Turandot uno spazio sospeso e immateriale in cui si aggirano, ieratici quasi come nei video di AES+F, corpi arcaico-ultraterreni tempestati di rubini sfavillanti, che però preludono (davvero diabolico Russell!) all’ancor più kitsch salvataggio di una donna coinvolta in un incidente automobilistico. Nel cortometraggio del regista inglese, il rosso del rubino richiama il rosso del sangue, che è poi il rosso dell’amore. Lo sapeva bene l’inventore della storia di Turandot, il poeta persiano Nizami Ganjavi che nel 1197 inserì nel suo poema epico Le sette principesse la storia di quella nobile russa (non cinese) che poneva indovinelli agli spasimanti uccidendoli uno a uno. La storia di quella Turandot originaria (di cui però non viene fatto il nome) è narrata sotto il segno belligerante di Marte, il pianeta rosso: rosso, appunto, come il sangue versato a fiumi. E non è un caso se poi, dopo l’immancabile lieto fine anche in quegli antichi versi, il poeta si lanci in una lode del colore rosso, diventato ora colore dell’amore, ma anche delle guance, delle rose… La trasfigurazione sembra seguire, anche cromaticamente, l’evoluzione del video degli AES+F, che di quella Turandot del medioevo persiano prende, forse casualmente, non solo la sensibilità cromatica o perfino qualche elemento preciso (come gli automi carnefici, assenti in tutte le altre versioni), ma soprattutto un clima mistico e misterico, che appunto tende all’allegoria, cifra tipica degli artisti russi.

Cherstich 6Il cielo sopra Pekino rimanda a un mondo distopico. Il drago volante vola su una città fantascientifica che richiama un certo paesaggio alla Blade Runner. Siamo in un futuro che si sposa con il passato: fantascienza tecnologica e arcaica brutalità si coniugano sotto il segno di un matriarcato rapace, un po’ come nella sci-fi vintage di Queen of Outer Space, dove quella che, nel titolo italiano di questo film del 1958, diventa La regina di Venere regge dispoticamente un pianeta femminile che rifiuta gli uomini… prima di scoprire l’amore ça va sans dire (è banale ricordare che poi, in fondo, tutte queste storie sono scritte da maschi, e che il “vero maschio” mai sopporterebbe che una donna possa davvero rifiutare le loro avances. Ma questo è un altro tema…). Nel futuro distopico di Pekino, il cielo ospita dunque l’allegoria della rinascita e dell’Età dell’Oro. Il segno artistico di AES+F è riconoscibile: ragazzi e ragazze in posa come belle statuine, che si muovono in modo rallentato, contribuendo con la lentezza artificiale a trasmettere la sensazione di gesti rituali ed enigmatici contro cui si infrange il doppio binario dell’iperrealismo e dell’onirismo. Il movimento è estetizzante, l’espressività anestetizzata: il computer trasforma la storia in memoria, la cultura iconografica secolare trasporta la memoria nell’archetipo; la fantascienza diventa fantasy. Dal loro primo stupefacente The last riot (2007) gli AES+F allestiscono tableaux vivants morbosi e inquietanti, languidi e ipnotici, cruenti e fiabeschi. Nel nome dell’allegoria. E proprio questa è la ragione della divaricazione tra lo spettacolo di Cherstich e lo spettacolo – anzi, la videoarte – di AES+F. Il piano su cui operano questi ultimi è quello dell’allegoria, come s’è detto, mentre il piano su cui Cherstich stende la sua Turandot è quello della simbologia: i costumi, i movimenti (o non movimenti), le azioni, tutto nella concezione del regista è raggelato in una simbologia che prende le distanze da Puccini, ne interpreta il disagio sul finale, ma lo estende a tutto il resto. E’ una regia che si rifiuta di dialogare con l’opera, e invece la distilla nel simbolo e nella maschera, non per interpretarla ma per destrutturarla. I due piani non dialogano, viaggiano separati pur lanciandosi esche da lontano: allegoria o simbolo? Turandot come allegoria del viaggio dell’uomo dalla sofferenza e dalla divisione alla concordia e alla vita nuova, oppure come simbologia di un meccanismo conflittuale e asettico di forze contrarie in campo, che assumono la fisionomia di proiezioni dei nostri incubi?

Cherstich 7Insomma, a Pekino vanno in scena gli scontri, mentre nel suo cielo le costellazioni mostrano un futuro nuovo. Nell’altra Pechino, quella reale, esattamente trent’anni fa, migliaia di giovani cinesi scesero in piazza per chiedere riforme e libertà al governo: popolo consapevole e coraggioso, non folla cieca e vigliacca. Quasi due mesi in cui piazza Tienanmen fu invasa dai contestatori fino alla tragica repressione con i carri armati, quel 4 giugno del 1989, che interruppe il sogno di una nuova Età dell’Oro. Sopra Pechino, trent’anni dopo cioè oggi, il cielo si tinge di fantascienza: nel film The Wandering Earth di Frant Gwo (2019), il blockbuster cinese che fa impallidire le pellicole hollywoodiane, la Terra deve salvarsi cambiando di galassia, e durante il viaggio Pechino, come tutto il pianeta, è diventata una città di ghiaccio. Al posto del drago volante, su nel cielo, orbita una stazione che col suo sacrificio consentirà ai terrestri di viaggiare con la speranza verso un futuro di rinascita. Nessun dorma: all’alba vinceremo.

 

Turandot musica di Giacomo Puccini; libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni; direttore Valerio Galli; ideazione Fabio Cherstich / AES+F; regia Fabio Cherstich; maestro del coro Alberto Malazzi; video, scene e costumi AES+F; progetto luci Marco Giusti; maestro del coro di voci bianche Alhambra Superchi; assistente alla regia Fabio Condemi; assistente alle luci Alberto Cannoni; interpreti: Hui He, Bruno Lazzaretti, In-Sung Sim, Gregory Kunde, Mariangela Sicilia, Vincenzo Taormina, Francesco Marsiglia, Cristiano Olivieri, Nicolò Ceriani, Massimiliano Brusco, Silvia Calzavara, Lucia Viviana; in collaborazione con la Scuola di Teatro di Bologna Alessandra Galante Garrone; Orchestra, Coro, Coro di voci bianche del Teatro Comunale di Bologna; produzione del Teatro Comunale di Bologna con Teatro Massimo Palermo e Badisches Staatstheater Karlsruhe; in partnership per la coproduzione del video con Lakhta Center. Prima assoluta: Palermo, Teatro Massimo, 19 gennaio 2019.

Visto a: Bologna, Teatro Comunale, 30 maggio 2019

Fotografie di Andrea Ranzi – Studio Casaluci.

 

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