Una terra occupata, un movimento di liberazione, la repressione e la dolorosa epopea dei prigionieri politici, ridotti a uno stallo di vita e d’azione: “Invece di una tomba, mi divorò una prigione”, ha scritto uno di loro, a nome di tutti i resistenti incarcerati per troppo amore della libertà e del diritto. Si chiamava Silvio Pellico, ma si sarebbe potuto chiamare anche Nasser Majed Taqatqa: il primo fu arrestato dagli occupanti austriaci esattamente due secoli fa nella sua Italia, a 31 anni, mentre il secondo è stato arrestato dagli occupanti israeliani un mese fa nella sua Palestina, sempre a 31 anni. Pellico uscì dopo dieci anni e poté raccontare il suo calvario nel celebre romanzo autobiografico Le mie prigioni. Taqatqa no: è morto lo scorso 16 luglio, neanche un mese dopo il suo arresto, nella cella d’isolamento del carcere di Nitzan dopo essere stato sottoposto ai famigerati durissimi interrogatori dell’esercito israeliano. Nella spietata contabilità delle carceri israeliane, Taqatqa è solo uno dei 220 morti in prigione dall’inizio dell’occupazione nel 1967. Ma soprattutto è solo uno degli almeno 750.000 palestinesi (uomini, donne, bambini) imprigionati dall’esercito occupante su una popolazione di circa 4 milioni di abitanti. In media 15.000 arrestati ogni anno e la certezza che ogni famiglia palestinese abbia o abbia avuto almeno un familiare in carcere per ragioni politiche. In questo quadro, come poter raccontare le loro prigioni? Come raccontarle prima di tutto a sé stessi e alla propria società, e poi come raccontarle al mondo, così colpevolmente distratto o complice? L’ultimo film di Raed Andoni Ghost Hunting azzarda una strada difficile e intrigante, dove autobiografia e narrazione collettiva si intrecciano, così come fiction e documentario, film e backstage, cinema e metacinema, in una inquietudine formale che rende conto dell’inquietudine sostanziale nella quale annaspa da decenni la Palestina.
Andoni ha deciso di raccontare la propria esperienza in carcere, quando a 18 anni fu condotto nel famigerato centro di detenzione di Al-Moskobiya. E lo fa portando davanti allo schermo le esperienze di altri uomini passati per la stessa prigione. L’inizio del film è un classico provino. In un ampio livido sotterraneo vediamo il regista stesso ricevere attori e tecnici che hanno risposto a un annuncio in cui si cercano artisti e maestranze per un film purché siano stati detenuti ad Al-Moskobiya. Superate le audizioni, inizia il lavoro, ossia l’allestimento delle scene che dovranno ricostruire esattamente il carcere sulla base della memoria condivisa da tutti quanti. La costruzione degli spazi e la rievocazione (e riproposizione) degli interrogatori riferiti da qualcuno procedono di pari passo. Così come si confondono l’euforia per la realizzazione di questa sorta di psicodramma collettivo e la sofferenza per ciò che – da uomini liberi – si è ‘costretti’ a rivivere di fronte alla cinepresa. L’attore carceriere che rischia di soffocare davvero l’attore detenuto durante il routinario interrogatorio-tortura spalanca vertigini di sofferenza mai più superate, così come la confessione amara di chi ricorda di non aver voluto aiutare il fratello nella cella accanto e di non averlo mai detto prima. E intanto il film procede, con un taglio tipicamente da backstage: le liti tra i carpentieri per come si tira su un muro, le chiacchiere tra un ciak e l’altro, gli scherzi e gli aneddoti. L’oggetto di questo film continua a spostarsi man mano che si va avanti: raccontare la prigione, raccontare come si può raccontare la prigione, raccontare il film sulla prigione, raccontare il racconto di un film… Raed Andoni è sempre presente: sta davanti e dietro la macchina da presa, e sta sopra tutti, regista-despota e amico confessore, in uno dei più sottili e inquietanti film metacinematografici, dove il punto non è il rapporto con il Cinema o con gli Attori, come già Truffaut o Fassbinder, per esempio, ci hanno raccontato egregiamente, ma il rapporto con la rimozione e il recupero della memoria che trasforma gli esseri umani in altro da sé. Tutto questo, insomma, non può avvenire che dentro la macchina cinematografica, cioè dentro la finzione: è nella finzione che si può dire la verità (e mai come in questo caso la riflessione shakespeariana risulta così calzante), è nell’orizzonte claustrofobico del sotterraneo trasformato in set cinematografico, senza spiragli di luce o di cielo, è nella solitudine collettiva di una società temporanea tutta grevemente maschile, che le confidenze possono acquistare la voce e così la narrazione può procedere. Ma non c’è alcuna narrazione, neanche qui. Ci sono solo frammenti di memoria che rimandano a torture, privazioni, costrizioni, dispositivi di sopravvivenza, perfino umoristici o surreali (una scena sembra ricordare la poesia di Mahmoud Darwish: Da dove viene tutta quest’acqua? / L’ho portata dal Nilo. / E questi alberi? / Dai frutteti di Damasco. / E la musica? / Dal battito del mio cuore. / La guardia s’infuriò. / Mise fine al mio dialogo. / Mi disse che non gli piaceva la mia poesia. / E sprangò la porta della mia cella). impossibile trarre da tutto ciò una ‘storia’. La propria esperienza in prigione si sottrae al racconto, diventa ‘impressione’, al massimo si può provare a metterla in scena, a recitarne le schegge che più hanno trasformato quell’esperienza in ferita: magari il pisciarsi addosso durante l’interrogatorio proseguito per giorni nella stessa stanza senza poter dormire o andare in bagno.
Nella cinematografia mondiale esiste la categoria del prison movie. Sono un’infinità le pellicole che raccontano il carcere, e il solo tentare un primo sommario elenco ci riporta alla mente sofferenze e soprusi, ingiustizie e voglia di riscatto, soprattutto mondi infernali da cambiare: Animal factory, Fuga di mezzanotte, Bad boys, Brubaker, Fuga da Alcatraz, Rivolta al blocco 11, Le ali della libertà, Papillon, Nel nome del padre, Il bacio della donna ragno… tutti propongono la solita vecchia storia dell’uomo che lotta contro un potere sovrastante, per sopravvivere o per sottrarvisi. Ma quella che Andoni vuol raccontare è davvero un’altra storia. Perché l’alternativa alla prigione israeliana è un’altra prigione israeliana. Anche in ‘libertà’, il popolo palestinese vive in quella che è da considerare, come suggerisce il titolo del libro dello storico israeliano Ilan Pappé, The Biggest Prison on Earth, la più grande prigione sulla Terra. Parliamo di Gerusalemme Est, Cisgiordania e Gaza, ovvero territori assediati ai bordi e all’interno da muri e infiniti checkpoint e controlli, aggrediti da colonie che divorano la terra per lasciare sempre meno spazio vitale ai palestinesi in nome della pulizia etnica. Mentre in nome dell’apartheid i palestinesi sono sottoposti ai tribunali militari al contrario dei cittadini israeliani, riconducendo tutto alla retorica securitaria, ma anche – di fatto – riconoscendo che ogni palestinese in prigione è un prigioniero politico, e il suo essere politico nasce dal suo essere parte della Resistenza, peraltro declinata in modi molto diversi: resistenza armata, resistenza nonviolenta, resistenza intellettuale, resistenza economica, fino al puro e semplice esistere per resistere, che accomuna tutti (bambini compresi), perché ogni palestinese in sé, per il solo fatto di esistere nelle sue terre ataviche che Israele vuole espropriare, è una minaccia alla brama espansionistica, e dunque è un resistente. Per Andoni, come per qualsiasi palestinese, raccontare la prigione significa dunque non raccontare un’esperienza ‘straordinaria’ come accade in qualsiasi altro Paese del mondo, ma qualcosa che potenzialmente riguarda tutti, perché tutti – per l’occupante – sono partigiani da sottomettere o annientare.
Non solo. Come già ricordato, i numeri dei prigionieri palestinesi sono altissimi in percentuale rispetto alla popolazione. Sono uomini, donne, perfino bambini, e spesso sono detenuti a oltranza senza sapere perché e senza sapere se e quando mai usciranno (in base a una norma del codice militare che consente la detenzione senza giustificazione). Il fenomeno è così vasto e condiviso da aver reso la prigione una presenza quotidiana nella società e nelle famiglie di Palestina. Ne ha affrontato la complessità Assia Zaino nella sua inchiesta Des hommes entre les murs. Comment la prison façonne la vie des Palestiniens, uscito nel 2016 in Francia per le edizioni Agone (e ancora non tradotto in italiano), in cui prende in esame il caso esemplare dei massicci arresti nel villaggio di Nabi Saleh. La prigione fa parte della vita quotidiana dei palestinesi, è luogo topico della storia familiare, declinabile nelle infinite forme che questa realtà può rappresentare: luogo di formazione (esistenziale, culturale, politica), luogo mitico e mitopoietico, luogo da “lessico famigliare” o da “rito di passaggio”, arrivando a diventare una tappa biografica per intere generazioni, un luogo dove ritrovarsi e riconoscersi, una ‘medaglia’ di lotta, talvolta con un orgoglio che a malapena riesce a nascondere le umiliazioni inenarrabili della costrizione e delle torture. Luogo talmente entrato nella quotidianità e nella condivisione da non rappresentare più qualcosa di eccezionale. E infatti, queste cose non si raccontano. Difficilmente un palestinese si metterà a riferire in dettaglio delle sue prigioni, anche perché troverà poco interesse in chi già conosce tutto quanto o in chi, fuori dal suo Paese, ignora il fenomeno: il carcere politico in Palestina è la regola, non l’eccezione. Come scrive giustamente Julien Salingue nella prefazione del libro di Zaino, “come i resistenti all’occupazione nazista, che rifiutavano di raccontare le loro storie, considerando che non avessero niente d’eccezionale, gli ex prigionieri palestinesi pensano che la loro esperienza sia così tristemente banale che non possa presentare molto interesse. Farli parlare implica (…) anche di far capire che la loro parola ha un valore in sé”. Cioè, recuperare la possibilità di un racconto di sé, e non solo per l’eccezionalità di qualche personaggio o di qualche episodio, ma proprio perché ogni detenzione è di per sé qualcosa di eccezionale se quella detenzione avviene per ragioni politiche (cioè tutte) all’interno di un carcere dell’occupante che oltre a imprigionare l’intero territorio imprigiona anche le persone, per motivi reali o arbitrari.
Ci è voluto un europeo per portare in evidenza le carceri israeliane e la loro eccezionalità, come ha fatto nel 1980 Bruno Bréguet nell’autobiografico La scuola dell’odio. Sette anni nelle prigioni israeliane. In realtà il cinema palestinese ha provato in molti modi negli ultimi anni a raccontare questa parte quotidiana nella vita personale e collettiva. L’esempio forse più eclatante è 3000 Nights di Mai Masri (2015), dove la dura condizione delle donne prigioniere è raccontata attraverso la storia di una giovane madre innocente che partorisce in carcere e percorre le stazioni di un calvario di crudeltà, violenza e razzismo: un film potente e devastante, interamente svolto tra i muri della prigione, da cui solo a tratti si intuisce il sole oltre le grate; un racconto di sofferenza e privazione, cupo e luminoso al tempo stesso, che è anche e soprattutto un inno graffiante alla libertà e alla giustizia. E poi ci sono numerosi cortometraggi che focalizzano l’attenzione su dettagli talvolta inimmaginabili dell’esperienza carceraria: Detained dreams di Nisreen Silmi (2016) si focalizza sul racconto in prima persona dei bambini imprigionati; Se Asmaa avesse parlato di Yafa Atef (2016) rievoca la figura di una ragazzina arrestata, torturata e diventata delatrice fino al suicidio; The bitter ink di Elia Ghorbiah (2017) porta alla luce il fenomeno dei detenuti scrittori e dei modi per far uscire dal carcere i loro libri; A Pen from Majido di Lana Sadaqa e Mohammad Houshieh (2017) e Bonboné di Rakan Mayasi (2017) vanno ancora oltre, raccontando diversi modi per portar fuori dalla prigione il seme di mariti detenuti per consentire la fecondazione artificiale delle mogli. Altri registi non palestinesi hanno aperto ulteriori spiragli. Per esempio Julia Bacha con Naila and the uprising (2017), in cui la prima Intifada è raccontata attraverso la storia vera di una delle protagoniste, Naila Ayesh, di cui viene raccontato anche il calvario in carcere e le torture (fino al procurato aborto in cella). O per esempio Rachel Leah Jones con Advocate (2019), ritratto di Lea Tsemel, “avvocata del diavolo” impegnata in casi “impossibili”: una israeliana che difende i palestinesi accusati di terrorismo, e che ci offre un viaggio nelle aberrazioni del sistema giudiziario di quel Paese e nelle continue violazioni dei diritti.
Ma il film di Andoni è qualcosa di diverso, e non solo per l’alta qualità cinematografica di un artista che ha saputo rappresentare in modo originale e geniale i tormenti personali dei palestinesi di fronte alla tragedia in cui sono rinchiusi (nel precedente bellissimo Fix ME, 2009), ma proprio perché rinuncia al racconto “eccezionale” per addentrarsi nella “banalità” del male subìto, e in fin dei conti rinuncia al racconto in sé, trasferendo la prigione reale in una sorta di prigione mentale nella quale gli occupanti israeliani vorrebbero relegare le loro vittime. Così, in Ghost Hunting Andoni si impegna, come dichiara il titolo, a cacciare fantasmi: i fantasmi personali degli ex detenuti, i fantasmi collettivi di una società, i fantasmi rimossi di una comunità internazionale distratta o complice, e in qualche modo anche il fantasma di sé detenuto, rievocato attraverso il disegno d’animazione. Una caccia faticosa e ambigua che trova nella presenza corale il punto di forza per poter evidenziare la valenza collettiva di singole storie individuali e ‘banali’. E’ il tentativo, insomma, di rievocare lo spirito di Silvio Pellico, che attraverso il racconto apparentemente dimesso e marginale di una sofferenza personale faceva intravedeva il poema eroico della sofferenza di un popolo e dei suoi combattenti.
E poi c’è un altro aspetto: Al-Moskobiya è stata ricostruita sotto gli occhi dello spettatore. Là dove c’era un sotterraneo vuoto, le maestranze palestinesi hanno ricostruito di fronte alla macchina da presa il simulacro simbolico del loro calvario. Ripeto: lo hanno costruito. Mostrandone l’artificio strutturale, se ne mostra la storicità, l’arbitrarietà, la precarietà, la finzione. Non c’è un set predisposto in Ghost Hunting: la prigione è un manufatto umano, non un Moloch atemporale, e quindi quel che viene costruito può – deve – essere distrutto. Il meccanismo della messa in discussione si intravede sul finale, quando al termine delle riprese (quando un giovane della troupe annuncia che sta per sposarsi: la vita continua, oltre il set, oltre la prigione) entrano nello spazio del film alcune donne e alcuni bambini. L’ambiguità del finale è vertiginosa, perché immette un’alterità che dà aria fresca e positività, ma anche perché le donne stesse sono ex detenute, e i bambini sono forse destinati a diventarlo, come viene spiegato interpretando un loro sconcertante disegno sulla vita dell’uomo: si nasce, si cresce, si va in prigione, ci si sposa, si fanno figli, ecc…
Il film si conclude con una dedica ad Abdallah (uno della troupe), che subito dopo le riprese è stato di nuovo imprigionato. E ai 7000 palestinesi, bambini compresi, tuttora in carcere. E ai 750.000 palestinesi finiti in prigione dal 1967 a oggi. Le luci si spengono nel sotterraneo trasformato per qualche giorno nel fantasma di una prigione israeliana. E per la prima volta dopo 90 minuti si può uscire alla luce del sole, finalmente liberi dalla prigione ricostruita, liberi (?) dalla prigione della memoria incapace di diventare racconto, liberi dalla… tirannia del regista di un film spietato. La luce del sole filtra nel riquadro sbilenco di un pertugio su cui si affaccia un po’ di terra brulla assediata dagli alti e anonimi palazzoni popolari di Ramallah. Uscimmo a riveder le stelle? No, ancora non è il momento.
Ghost Hunting (Istiyad Ashbah, Palestina-Francia-Svizzera-Qatar-Italia, 2017), regia e sceneggiatura di Raed Andoni; con Ramzi Maqdisi, Mohammed Khattab, Wafa Mari, Atef Al-Akhras, Bashar Hassuneh, Wadee Hanani, Raed Andoni, Adnan Al-Hatab, Abdallah Moubarak, Anbar Ghannan, Raed Khattab, Mohammed Nimer, Mahmoud Abu Srour, Monther Jawabreh, Firas Nasr-Allah; fotografia Camille Cottagnoud; suono Nicolas Becker; montaggio Gladys Joujou; produzione Les Films de Zayna.
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