Le migrazioni sono un trauma? Sì, ma non tanto per l’Europa, quanto per i Paesi africani, mediorientali, asiatici che subiscono un esodo e un impoverimento che possono avere esiti traumatici. Ma come parlare del fenomeno da questo (per noi) inedito punto di vista? E come farlo riuscendo a incidere nel senso più intimo e profondo, senza limitarsi alla semplice documentazione? Ci prova Mati Diop in Atlantique, un film misterioso e insinuante, che – come l’oceano indicato nel titolo – muta identità rimanendo sé stesso. Un film che si può definire sentimentale, drammatico, impegnato, poliziesco, horror… dove ciascun genere si accavalla sullo schermo superando il precedente come le onde impetuose e minacciose dell’Atlantico, per poi essere di nuovo risucchiato e disperdersi nella corrente.
Il film si apre su un cantiere edile a Dakar per la costruzione dell’imponente Muejiza Tower – la Torre del Miracolo – affacciata sull’oceano. Gli operai reclamano inutilmente il salario che non ricevono da mesi. Uno di loro, Souleiman, ha una storia d’amore con Ada: rubano baci e carezze tra i muri scrostati di qualche palazzo in rovina o in costruzione. Una sera Ada promette di concedergli di più. Ma quella sera Souleiman non arriva all’appuntamento nel locale notturno sulla spiaggia, così come non arrivano i suoi compagni di lavoro. Ad aspettarli, Ada e le altre. Inutilmente. Perché Souleiman è salito su una barca con gli amici per lasciare il Senegal e raggiungere la Spagna. D’altra parte, Ada è promessa sposa al ricco Omar, che non ama e a cui deve concedersi. Il matrimonio è una festa nei vicoli disordinati della città e nell’appartamento sontuoso dove spicca un candido letto matrimoniale invidiato dalle amiche.
Quello della regista è uno sguardo di contemplazione. Scruta il paesaggio urbano come i volti dei personaggi, rimanendo qualche secondo in più del necessario. Ogni ripresa dilata leggermente il tempo della visione, obbligando a osservare oltre il momento della comprensione logica e narrativa, quasi suggerendo la necessità di un tempo maggiore di visione delle cose per comprenderle davvero, quasi suggerendo che solo rimanendo con lo sguardo sulle cose e le persone, quelle cose e quelle persone trasmettono un plus di verità, riescono a dire ciò che altrimenti lo sguardo distratto non riuscirebbe a cogliere. Il lunghissimo, ingiustificato primo piano di Souleiman sulla strada del ritorno dal cantiere è una vera e propria dichiarazione programmatica: spettatore, se vuoi entrare in questa storia, devi soffermarti oltre il necessario sulla superficie sensibile della narrazione e delle cose, perché ciò che accadrà scaverà oltre quella superficie, mettendo in gioco altri livelli di comprensione, nello spazio dell’ultrasensibile. La dilatazione dello sguardo sulla realtà come premessa alla dilatazione della percezione oltre la realtà. Il film, iniziato con una denuncia sindacale, chiede immediatamente di andare oltre per recepire una storia che racconta l’oltre.
E l’oltre si palesa ben presto. Fino alla festa matrimoniale, tutto sembra immergerci in una storia come tante altre: lo sfruttamento dei lavoratori, la spinta all’emigrazione, la ragazza divisa tra l’amore per lo squattrinato e il dovere matrimoniale per il ricco, il contesto ambientale di un’Africa che oscilla tra il disfacimento di poveri slum e l’arrembante borghesia che celebra il miracolo (muejiza) economico con il simbolo arrogante di nuove torri di Babele che sfidano il cielo… Ma stranamente durante la festa qualcuno dice di aver visto Souleiman: com’è possibile? E subito dopo, improvvisamente e misteriosamente, un incendio incenerisce proprio e soltanto il letto matrimoniale. Al mattino le indagini sono affidate all’ispettore Issa, che durante la notte della festa era caduto in uno stato di incoscienza. Per Issa il responsabile è Souleiman, ma Ada non può credere che sia tornato. E poi, ben presto le ragazze vengono a sapere che quella barca è stata inghiottita dalle onde e che Souleiman e i ragazzi sono annegati. Il film impenna verso il mistero, quello di un uomo che è morto e che pure continuerebbe ad aggirarsi in città. Ma, ancora, il film ci chiede un ulteriore sforzo.
Nella notte, molte ragazze sembrano essere preda di una qualche sindrome che sconfina nella trance e nel sonnambulismo. In massa si presentano nella casa dell’imprenditore della Muejiza Tower e, trasformatesi internamento nei loro uomini, ma con le loro fattezze e voci femminili e con gli occhi bianchi da zombi, reclamano le paghe dovute. Il film ha preso improvvisamente una piega horror, ma senza gli effetti e senza la temperatura degli horror movie. Le donne parlano con voce pacata, sono possedute dai morti come in un qualche rituale ancestrale tribale o semplicemente come in una rappresentazione teatrale, ma come in una rivendicazione sindacale avanzano la richiesta di un diritto economico. Gli operai morti vengono a visitare la casa del padrone attraverso i corpi delle loro donne, in una riunificazione che è voce di un intero popolo negletto e sfruttato di fronte agli interessi dei pochi potenti.
Ma ormai gli eventi incalzano: Issa pedina Ada, sempre più convinto che lei sappia dove si nasconde Souleiman; Ada ha il coraggio di rifiutare Omar cercando rifugio nel locale; l’imprenditore cede e porta il denaro alle ragazze-zombi in una notte al cimitero. Finché nell’ennesima notte in cui i ragazzi morti riacquistano la parola attraverso le loro ragazze, Ada può finalmente fare l’amore per la prima volta con il suo Souleiman, attraverso il corpo ‘posseduto’ di Issa. E il miracolo, la muejiza, si materializza non nella torre del presunto progresso simil-occidentale del Senegal, ma nell’intima ricongiunzione umana delle persone, nel mistero di una reincarnazione dal sapore arcaico.
Il nucleo di senso centrale del film è indubbiamente quello politico e sociale, sotto lo strato narrativo della storia d’amore. Il racconto della migrazione è fatto attraverso una folgorazione potente, quella dei migranti morti in mare che ritornano in spirito nei corpi di chi è rimasto. E’ il segno evidente di un’assenza e contemporaneamente di un bisogno di presenza: non memoria di chi è andato, ma sua consustanzialità con il corpo collettivo che ha lasciato, cioè il suo popolo, in una incessante comunicazione, destinata ahimè a essere inutile e senza possibilità di progredire. L’emigrazione da un Paese che soffre spalanca una ferita insanabile. Chi emigra è un morto vivente, si può dire, che continua a stare dentro chi rimane, eppure lo trasforma. Le inconsapevoli donne-zombi di Atlantique rimarcano l’abbandono e la solitudine, si fanno trasparenti per far emergere la voce di chi non c’è più, e intanto diventano più forti e consapevoli. E anche questo protagonismo femminile, sottolineato da una donna regista, rafforza il senso politico e sociale del film. Così come il protagonismo dei giovani, che sono la generazione più vulnerabile, perché racchiude il futuro nei suoi sogni e al tempo stesso soccombe di fronte al potere economico o di fronte a un’illusione che porta alla morte. Ada e Souleiman sono giovani, così come il ricco Omar e l’ispettore Issa. Tutti hanno l’impeto dei loro anni, anche Omar che trova nell’affermazione sociale borghese la risposta ai suoi desideri, tra un aperitivo nel club esclusivo e l’ostentazione quasi infantile della sua ricchezza, un perfetto alter ego di Souleiman.
Issa, invece, fronteggia ciò che lo circonda senza riuscire ad avere le coordinate per affrontarlo, perde i sensi, vive in una condizione di continuo disagio: sembra essere il segno profondo di una generazione africana sospesa nell’impasse di un’epoca incomprensibile, lui che fa l’ispettore di polizia e che dovrebbe riuscire a comprendere gli eventi per trovarne i fili e le ragioni, e finisce per non capire neanche quel che succede a sé stesso, cioè il ritrovare in sé le pulsioni irrequiete e generose di Souleiman (era stato dunque Issa in trance a bruciare il letto…) e il trasformarsi in qualcos’altro. Eppure, è lui il Messia (questo il significato del nome Issa), colui che è in grado di compiere il ricongiungimento finale tra Souleiman e Ada, che è molto più del semplice happy end romantico, ma si mostra nel suo altissimo significato allegorico. Perché Souleiman è il futuro tradito ma perseguito, e il suo nome significa pace, mentre Ada è il Senegal, dilaniata tra il matrimonio con quell’Omar che scimmiotta l’Occidente e l’amore per quel sogno semplice di un futuro vitale che può diventare realtà. Ada anela a quella ricomposizione che non può avvenire perché l’altra metà di sé è lontana: lontana perché emigrata e lontana perché morta. E allora ecco la possessione di Issa, il messia, con il quale può avvenire – come avveniva un tempo – una sorta di unione ‘per procura’ con il suo Souleiman, attraverso un atto medianico di trascendenza. Issa è un medium, un filtro platonico tra chi non sa vedere e la realtà. Perché in fin dei conti Ada-Senegal non riusciva a vedere: basterebbe poco, dice la regista, per vedere i nostri cari negli occhi e nei corpi di tutti coloro che vivono attorno a noi. E così Ada ritrova sé stessa rinunciando alla strada razionale di Omar e percorrendo la misteriosa e irrazionale strada di Souleiman-Issa, come una Medea pasoliniana che ritrovi nel cuore della tradizione millenaria il senso di sé in alternativa alle lusinghe di un mondo dove la razionalità si sposa con il consumismo e il presunto benessere.
Atlantique è un film sospeso in una condizione onirica, nel senso che ha il sogno come disvelamento della realtà attraverso lo stupore, lo sguardo irrazionale, il concentrarsi di segni. E’ onirico lo sguardo di Mati Diop che dilata appena i tempi per suggerire la necessità di una visione altra; ed è onirico il sogno di un’Africa nuova, che sappia ricongiungersi con le sue pulsioni più arcaiche per trovare un futuro nuovo, alternativo alla torre dell’arroganza che interrompe la vista sulla distesa marina. Atlantique è un film conturbante e fervente, insinuante e tempestoso come questo Atlantico che compare spesso a tutto schermo scandendo la narrazione, e cambiando forma così come questo film cambia genere. Ora è una distesa di acqua calma che attrae, ora è una barriera compatta che respinge; ora lambisce la spiaggia, ora scatena le sue onde; ora biancheggia nel sole, ora si stempera nel tramonto e si incupisce nella notte. La mutevolezza dell’oceano è segno della sua ambiguità: via di comunicazione e ostacolo insuperabile, mare e muro. L’obiettivo di Mati Diop lo contempla a lungo, pacato e struggente. Con dolore e speranza.
Atlantique (Belgio-Francia-Senegal, 2019), regia di Mati Diop; sceneggiatura di Mati Diop e Olivier Demangel; con Mama Sané, Amadou Mbow, Ibrahima Traoré, Nicole Sougou, Amina Kane, Mariama Gassama, Coumba Dieng, Abdou Balde, Ibrahima Mbaye, Diankou Sembene, Babacar Sylla; fotografia Claire Mathon; suono Benoît De Clerck; montaggio Ael Dallier Vega; produzione Les Films du Bal, Cinekap, Frakas.
Cosa intendi per filtro platonico tra chi non sa vedere e la realtà?
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Mi riferivo al mito platonico della caverna: alla differenza tra la realtà e l’ombra della realtà. Issa è il filtro che si interpone tra la realtà e la sua ombra (nella doppia valenza del filtro che nasconde e nel filtro che va attraversato per riconquistare quella realtà).
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