
La quarta edizione di “resiDANZE di primavera” è stata la prima vetrina italiana della danza creata nell’epoca della pandemia di Covid-19, permettendo uno sguardo in tempo reale sulle reazioni di coreografi e danzatori. Quattro compagnie hanno elaborato i loro progetti di danza contemporanea durante il lockdown e ci hanno lavorato materialmente subito dopo, presentando i loro primi studi non appena è stata possibile la riapertura dei teatri. Si sono confrontate con il lungo blocco dell’attività, con elaborazioni progettuali nelle chat on line tra i diversi componenti, con la ripresa del lavoro in una condizione sospesa tra distanze interpersonali e mascherine, con un pubblico a sua volta distanziato e con mascherina. E i progetti, ideati inizialmente con un preciso obiettivo, sono deragliati in evoluzioni che, lette collettivamente, sembrano parlare proprio (anche se sotterraneamente) dei mesi della pandemia e dello sguardo verso il futuro. Risucchiando in questa lettura anche i due spettacoli ospiti della rassegna, due assoli nati precedentemente, ma che sembrano fare eco ai quattro studi creati in residenza.
Occorre ricordare che i quattro studi sono, appunto, primissime tappe di lavori che avranno sviluppi che potrebbero anche alterare anche profondamente quello che si è potuto vedere a Teatri di Vita. E occorre anche premettere che quello che sto per scrivere non tiene conto delle intenzioni di partenza degli artisti. Quello che voglio proporre sono solo spunti di riflessione che vengono da una visione collettiva della rassegna e dei processi creativi, e alla luce dell’inedita circostanza della pandemia e delle misure di sanità pubblica che hanno inciso profondamente nell’esistenza individuale e sociale di tutti, artisti compresi.

La cosa è evidente fin dal primo progetto, creato da un danzatore, una cantante e un musicista, ossia Daniele Ninarello, Cristina Donà e Saverio Lanza. L’idea di Perpendicolare è nata immediatamente prima del lockdown, che ha impedito il lavoro in scena. Nelle intenzioni degli artisti si sarebbe trattato di un confronto serrato tra la danza e la canzone, non tanto un semplice concerto danzato o una danza con musica dal vivo, ma semmai l’intreccio tra parole e corpi che si rimandano le une agli altri e viceversa, tracimando da una figura all’altra verso un coinvolgimento fisico della cantante e un coinvolgimento musicale del danzatore. Durante il lockdown i tre artisti hanno lavorato a distanza: il lavoro sulla canzone e quello sulla danza si sono sviluppati parallelamente. Il lavoro in residenza a Bologna è stata la prima occasione di un confronto a contatto fra i tre, e ha rispecchiato in modo esemplare proprio questa condizione creativa, grazie alla illuminante presentazione al pubblico di due studi leggermente differenti in due giorni successivi. Nel primo studio ciascuno dei tre artisti ha ‘presidiato’ separatamente una parte di scena, come se tra gli spazi fosse ancora in atto il residuo psicologico del cosiddetto “distanziamento sociale” imposto dalle normative anti-Covid: le due postazioni simmetriche di Lanza e Donà, e in mezzo e davanti alla scena lo spazio per la danza di Ninarello. Nel secondo, a un solo giorno di distanza, lo studio è profondamente mutato nella restituzione proprio delle distanze e degli spazi, più fluidi e con una maggiore interazione, a riprova di un processo di ricostruzione delle relazioni ancora tutto in fieri.

Cristina Donà canta “Ho attraversato giorni da diluvio universale”, e anche se la canzone è di molti anni fa non è difficile percepire in queste parole l’eco di una condizione che ha visto tutti noi chiusi per settimane nelle arche scomode delle nostre case, protetti dal diluvio dell’epidemia. Le parole amare dei brani manifestano un dolore che diventa anche affermazione di una volontà di resistenza, e il “tu” contro cui si avventano le canzoni rafforza maggiormente l’ “io” che con orgoglio affronta la risalita: da un amore finito, da un rapporto sbagliato, da una quarantena dell’anima e del corpo. E proprio il corpo di Ninarello si carica del compito di esplorare le vie di fuga di questo “io” amareggiato ma indomito, solcando le direttrici, tracciando intenzioni con le braccia, invocando insomma il suo orgoglio, in un dialogo ravvicinato con le parole delle canzoni. Dialogo che rompe i confini del distanziamento solo nel secondo studio, quando Ninarello prende la chitarra e affronta il corpo di Donà, riverso a terra in un atteggiamento di apparente sconfitta ma in realtà pronto, come Anteo, a risollevarsi con maggior potenza proprio grazie al contatto estremo con la terra, che qui è proprio il terreno di un campo con l’erba bruciata dal sole estivo. In questo pezzo, il dialogo a distanza si rinsalda in qualcosa di diverso, in una prima possibilità di congiunzione, forse di due anime lontane o forse di un io dissociato che sta lentamente tornando a riprendere fiducia in sé. Immobilizzando per un attimo la visione perpendicolare di un incontro.

Il rapporto tra il prima e il dopo lockdown è forte anche nel progetto di Sara Marasso e Stefano Risso, anche in questo caso una danzatrice e un musicista. L’idea originale era racchiusa nel titolo Wall Dialogue Resistance con l’obiettivo di indagare il rapporto con i muri, in un approccio ad ampio raggio su un simbolo – il muro, appunto – gravido di numerose connotazioni esistenziali, filosofiche, sociali, politiche, estetiche. Il Covid ha arricchito e probabilmente piegato il progetto verso altre direzioni, che sono state esplorate nella residenza dopo mesi di confronto a distanza tra i due artisti. Lo studio è presentato dentro la piscina vuota di Teatri di Vita, dove stanno anche gli spettatori, che con gli artisti condividono dunque la “chiusura” di quattro muri: una scatola, la proiezione della propria casa, l’evocazione di un lockdown oltre il quale svettano gli alberi del parco verso il cielo. E’ l’idea di un muro non opprimente quello esperito da Marasso e Risso: un muro senza pesanti stratificazioni morali, senza giudizi, e perciò aperto alle interpretazioni. E così la domanda iniziale “Cosa c’è al di là del muro?” si stempera in un dialogo con il muro inteso non come ostacolo ma come condizione strutturale. Il muro delimita lo spazio, imponendo ai performer traiettorie interne che si scontrano con le pareti ma senza angoscia: sono esplorazioni e tentativi di forzatura, non assalti alla distruzione. E la domanda ottiene una risposta obliqua: “It’s about us and invisible things”, che Marasso scrive a caratteri cubitali sul muro, rimandando il senso del confine e della chiusura a una responsabilità individuale e sociale (riguarda noi), ma anche cose che non vediamo, che stanno al di là del muro ma che potrebbero starne anche al di qua, o al di dentro. E come per magia, l’enorme graffito con la scritta lentamente svanisce, come assorbito dal muro stesso, risucchiato dalla porosità di una parete di cemento che sembra respirare come cosa viva.

Altrettanto semplicemente, anche il lockdown ideale dentro questa scatola svanisce, con i performer che salgono sopra il muro, mentre il tappeto sonoro si amplia con tante voci (“us” e “invisible” anch’esse: quelle voci siamo noi, e sono una folla invisibile), a ribadire una moltitudine di flussi di pensiero quasi intrappolati e pur sempre liberi. Sopra il muro, Risso suona il contrabbasso. Ma non è il violoncello di Rostropovich sulle macerie del Muro di Berlino: il segno porta non alla distruzione del muro ma alla convivenza con una barriera che fa parte inevitabile della nostra natura. Nell’immagine finale il muro, che ha ormai riassorbito i graffiti presentandosi come una parete immacolata, resiste al nostro sguardo, ma sopra di esso i due performer ribadiscono la vitalità del corpo e della musica, sullo sfondo di un muro di alberi e di un cielo blu intenso, mentre su una parete laterale un video rimanda i loro corpi che vanno e vengono verso un altro muro: e così, il muro immateriale del video proiettato sul muro reale offre un’ulteriore possibilità di confronto, scontro e incontro, prima che anche quest’ultimo muro assorba anche quest’immagine in movimento nella sua indecifrabile compattezza di cemento.

Ancora più legato a questo periodo è il lavoro di BambulaProject, ossia Paolo Rosini e Chiara Tosti che, arrivati nello spazio aperto nel quale lavorare, hanno rinunciato al progetto iniziale, già avviato nei mesi passati in altre residenze, e hanno concepito un nuovo lavoro, Nuove rotte da rotture. Inevitabile, allora, che questo percorso portasse in sé il germe dei mesi di quarantena e dei ripetuti inviti al cosiddetto “distanziamento sociale”. Il lavoro nasce proprio sfruttando la distanza, nello specifico con il musicista Michele Mandrelli, che suona sì dal vivo ma da remoto, collegato con la piattaforma Zoom da casa sua a 200 km di distanza. Mandrelli vede i danzatori attraverso un dispositivo collocato alle spalle del pubblico e puntato sulla scena, e li accompagna con una colonna sonora costante per l’intera presentazione dello studio (cosa che viene spiegata agli spettatori solo alla fine). La pratica cosiddetta “smart”, frequentata da milioni di persone durante il lockdown, viene assunta in questo progetto, in un momento in cui non è più imposta dalle norme, e così si trasforma in qualcos’altro: è memoria (fresca, freschissima) di una crisi collettiva, è opportunità di relazione (una “nuova rotta”, per così dire), ma è anche “messa in cornice” di una condizione comunicativa, è l’esaltazione e rimodulazione di un distanziamento fisico (non “sociale”!) che è diventato luogo comune e condiviso nella nostra esperienza quotidiana. Come dimostrano i posti distanziati degli spettatori, come dimostrano le mascherine degli spettatori, che nell’intera rassegna diventano a loro volta parte in causa di un grande “gioco del distanziamento”, di una vera e propria coreografia che ridefinisce la prossemica dei riti collettivi.

Rosini e Tosti sviluppano il loro lavoro su una fascia spaziale fondamentalmente bidimensionale, creando una vera e propria danza della distanza, dove i loro due corpi dialogano tra loro, si rimandano movimenti, si avvicinano in un gioco di contrappunto o di duplicazione dei gesti, alternando l’autarchia dell’individuo con la ricerca dell’altro, ma senza mai toccarsi, neanche nei momenti in cui basterebbero pochi millimetri a farli incontrare o scontrare. Una coreografia energica, apparentemente gioiosa, certamente dinamica e vitale, che nello spazio di presentazione ha il sapore di un sabba collettivo nel quale gli spettatori potrebbero tuffarsi. Ma ovviamente non solo nessuno spettatore si tuffa, ma neanche i due danzatori trasformano i loro richiami reciproci in aderenza fisica. Le “rotture” impongono “nuove rotte”, a cominciare dalla riscrittura di un dizionario delle relazioni, dove la comunicazione il dialogo avvengono sotto l’egida del “distanziamento”.

Il tema sembra riecheggiare perfino nei due spettacoli ospiti della rassegna, nati precedentemente e quindi non in residenza. Come A peso morto di Carlo Massari: dittico accorato e lieve al tempo stesso, venato da delicato humor, dedicato a due figure marginali, se non residuali e destinate a svaporare nel corpo e nella memoria. Prima troviamo un vecchio in tuta e con borse della spesa, accompagnato dalle musiche del liscio romagnolo. Le sue evoluzioni fisiche sembrano rimandare a una memoria del passato giovanile, che contrasta con il volto sofferente e rugoso. Nell’ampio spiazzo dello spettacolo, la distanza fisica degli spettatori dal performer (e tra di loro) cala la sua apparizione in un devastante senso di solitudine e amarezza, che i movimenti molto energici e impegnativi di Massari trasformano nell’evocazione di un’umanità marginale che non sappiamo vedere e riconoscere: ossia, questo sì che è vero distanziamento “sociale”, cioè non la distanza fisica di un metro tra le persone in tempo di pandemia, ma la distanza abissale tra classi sociali, tra generazioni, tra sentimenti, che ci porta a escludere l’Altro dal nostro orizzonte visivo. E così, il vecchio di A peso morto diventa catalizzatore di uno sguardo dello spettatore che al tempo stesso finalmente vede e comunque rimane distante, in un cortocircuito di conoscenza e alterità.

La seconda figura è un’imitazione camp o semplicemente stravagante (da improbabile cosplay o da balera romagnola, mi verrebbe da dire) di Edith Piaf, la cui voce in un’intervista accompagna parte dell’esibizione. Qui Massari alterna passi di danza (anche estremamente impegnativi, con salti ed evoluzioni con i tacchi alti su un lastricato molto sconnesso) e brani canori della cantante con voce decisa, in uno straziante e però divertente slancio dove l’imitazione diventa – anche qui – racconto di una solitudine e di un distanziamento dalla “gente normale”. Alla fine di questo pezzo, come del primo, Massari si toglie il copricapo (nel primo, la maschera), ed esce di scena. Lo svelamento è a sua volta l’autodenuncia di una distanza dal suo personaggio: Massari vi aderisce, diventa per un attimo – nascosto dalla maschera o da berretto e occhiali scuri – il vecchio o la pseudo-Piaf, ma poi questi personaggi affermano la propria irraggiungibilità, la propria distanza, e Massari, prima di uscire, ne ricompone le spoglie a terra, come per una sepoltura ideale, un addio.

Anche lo spettacolo di Paola Bianchi NRG, ridefinito appositamente per gli spazi all’aperto della rassegna, è in realtà uno spettacolo di repertorio con il titolo Energheia. E anche questo dialoga con il tema delle relazioni e delle distanze. In questo caso, più dello spettacolo assume peso il processo creativo, durante il quale l’artista ha ricomposto nel proprio corpo le memorie visive di una quarantina di persone coinvolte. Secondo quanto dichiarato: “A ognuno/a ho chiesto quali fossero le immagini pubbliche impresse nella propria retina e che anche dopo molto tempo continuano a essere vive nella memoria visiva. Immagini simbolo legate ad avvenimenti storici e a personaggi che hanno segnato la cultura occidentale”. E così, “Ogni immagine è entrata nel mio corpo deformandolo, modificandone le posture e le tensioni fino a generare nuovi stati del corpo – il mio corpo è diventato archivio esso stesso di quelle immagini”. Il gioco delle distanze innerva profondamente la genesi dello spettacolo: dall’evocazione della memoria individuale alla riproposizione di quelle immagini su un altro corpo. L’archivio di cui parla Bianchi è non solo un archivio di immagini e movimenti, ma anche un archivio di distanze, l’aspirazione a colmare la memoria (e dunque l’assenza) attraverso una proiezione. Che a sua volta arriva al pubblico, ulteriormente “distante”, come in un esercizio platonico sulla realtà e l’idea.

La performer snocciola movimenti nei quali di volta in volta si riconoscono labili appigli a immagini più o meno condivise, o meglio ad atmosfere e umori, con il sostegno dell’incalzante e straniante musica dal vivo di Fabrizio Modonese Palumbo. La vicinanza dello sguardo degli spettatori, disposti a ring attorno alla danzatrice, coglie i dettagli del movimento, e al tempo stesso sancisce un’ulteriore distanza di quei segni dall’esperienza emotiva. Come se NRG dichiarasse l’impossibilità della trasmissione dell’esperienza e l’inevitabilità della sua reinvenzione: dall’esperienza vissuta dal testimone originario si passa a quella assorbita e reinventata da Paola Bianchi nel suo corpo e con il suo corpo (e già questo trasfigura l’originale nel simbolico), e infine si approda a quella percepita dallo spettatore, che segue i movimenti come fossero tracce di una Stele di Rosetta da decifrare ma senza un corrispettivo linguistico sconosciuto. Con tutto il fascino che ne consegue, quello di una danza più misterica che misteriosa, come evocata da un altrove lontanissimo, nel quale il corpo della performer ritorna alla fine, regredendo lentamente mentre i battiti musicali si attenuano cupi e ipnotici molto a lungo, come a chiudere un sogno.

E poi, una quarta compagnia in residenza sembra trovare una chiave per esorcizzare tutto. La Cie Essevesse, ovvero Antonino Ceresia e Fabio Dolce, arriva con un progetto sviluppato a tappe in vista di una ricomposizione conclusiva, La commedia divina. Un percorso del tutto personale non tanto dentro il poema dantesco, quanto attraverso le sue suggestioni. A Bologna è stato messo a punto un ulteriore tassello, con il sottotitolo #like4like. Sottotitolo molto ‘social’, indizio fin da subito del rapporto ambivalente con i rapporti sociali, dove la distanza fisica è equilibrata dalla vicinanza sociale, ma in un ambiguo meccanismo utilitaristico (ti metto un “like” e così tu lo metti a me: non a caso, il pezzo si concluderà con l’elenco dei numerosi hashtag possibili per descrivere e condividere ciò che si è visto). Lo spazio in cui Essevesse presenta il suo studio è una waste land, dove giacciono relitti e memorie, in una sorta di dopostoria che potrebbe essere la nostra stessa storia: scale, ferraglie, una vecchia Fiat 500, una statua di Madonna, in un orizzonte visivo chiuso ermeticamente da schermi, da un muro a pezzi, da un furgone, dagli alberi circostanti, praticamente senza via di fuga. Selva oscura, verrebbe da dire, spinti dalla premessa dantesca. Oppure il mondo ritrovato del dopopandemia. Dal muro emerge uno dei due performer, che muove i primi passi, sostenuto dall’altro (e ancora la memoria non può che andare a Dante e Virgilio). Poi entrambi si spogliano per affidarsi a una danza nuda, nella quale uno sostiene l’altro senza fargli toccare terra a lungo: un lento, sensuale e potente passo di danza, che da una parte sembra suggerire il volo verso le altezze celesti e dall’altra richiama invece la lotta di Ercole e Anteo. Poi, rivestiti di un solo perizoma, i due continuano a incontrarsi nella danza, in una continua ricerca dell’altro con – al contrario degli altri – il raggiungimento dell’altro, anzi l’aderenza fisica, il contatto intimo e plastico, la gioia della pelle e dei muscoli che si accarezzano a vicenda, come in certe antiche incisioni dantesche di Dorè o in certe modernissime proiezioni iconiche queer. Insomma, uscito dal muro, il corpo prigioniero ha trovato non la distanza sociale, ma il proprio doppio, l’altro, il desiderante e desiderato.

Durante gran parte dello studio, scorrono su due schermi e sulla fiancata del furgone le immagini dei due performer (e, solo all’inizio, come prologo, quello di una ragazza: Beatrice?), nell’elaborazione del videoartista Nicolas Clauss. Sono proiezioni di tanti altrove, che rappresentano in qualche modo gli altri sé, come desideri o sogni, in un orizzonte che aspira a un’allegoria visionaria e mistica (o dissacrante): bagni quasi rituali in un fiume, teste truccate con colori sgargianti da dèmoni sexy, veli che si librano… Se nell’interpretazione dantesca di questo studio è possibile riconoscere in molti tratti gli spunti d’ispirazione per l’elaborazione molto personale del poema effettuata da Ceresia e Dolce, nella riflessione che ho cercato di fare sulle creazioni in cantiere immediatamente a ridosso del lockdown da pandemia lo studio La commedia divina #like4like si presenta come la chiave che permette di uscire dall’impasse, invocando la riappropriazione assoluta degli spazi e dei corpi, dei contatti fisici. Il distanziamento sociale lascia il posto alla pura e semplice presenza hic et nunc di corpi nudi e seminudi che si presentano nell’atto desiderante di un contatto. L’esorcismo è compiuto, e potremo uscire a riveder le stelle.
STUDI PRESENTATI DALLE COMPAGNIE IN RESIDENZA:
Perpendicolare di e con Cristina Donà, Daniele Ninarello, Saverio Lanza; una produzione Fondazione Fabbrica Europa – CodedUomo; in coproduzione con Festival Danza Estate / Orlando Festival – Operaestate Festival; in collaborazione con Fondazione I Teatri Reggio Emilia / Festival Aperto; realizzato in residenza a Teatri di Vita nell’ambito del programma Artisti nei territori della Regione Emilia-Romagna.
Nuove Rotte da Rotture ideazione, regia e coreografia Paolo Rosini; interpreti Paolo Rosini e Chiara Tosti; musica in diretta streaming Mayzena di Michele Mandrelli; realizzato con il sostegno di Anghiari Hub; in residenza a Teatri di Vita nell’ambito del programma Artisti nei territori della Regione Emilia-Romagna.
Wall Dialogue Resistance direzione artistica Sara Marasso e Stefano Risso; direzione di produzione: Giovanna Gosio; produzione esecutiva e social network João Bispo; partners Balleteatro – MIRA | artes performativas; prima residenza di studio DevirCapa Centro de Artes Performativas do Algarve, Faro; progetto associazione culturale IL CANTIERE; realizzato in residenza a Teatri di Vita nell’ambito del programma Artisti nei territori della Regione Emilia-Romagna.
La Commedia Divina #like4like coreografia e danza Antonino Ceresia, Fabio Dolce; video Nicolas Clauss; musiche Marie Bernard, Romain Aweduti; con il supporto di Klap Maison pour la danse Marseille (FR), Espace Dantza Pau (FR), Théâtre Golovine Avignon (FR), Scène 44 N+N Corsino Marseille (FR), Teatri di Vita Bologna (IT), Stalker Teatro Torino (IT), OFF DANSE Avignon (FR); realizzato in residenza a Teatri di Vita nell’ambito del programma Artisti nei territori della Regione Emilia-Romagna.
SPETTACOLI OSPITI:
A peso morto creazione originale Carlo Massari; con Carlo Massari; maschere Lee Ellis; produzione C&C Company. Prima assoluta: Roma, “Attraversamenti Multipli”, Isola pedonale di Largo Spartaco, 15 settembre 2018.
NRG coreografia e danza Paola Bianchi; musiche composte ed eseguite dal vivo Fabrizio Modonese Palumbo; tutor Roberta Nicolai, Raimondo Guarino; sguardo esterno Ivan Fantini; staff scientifico Laura Gemini, Giovanni Boccia Artieri, Annapaola Lovisolo, Alessandro Pontremoli; progetto di residenza condiviso da L’arboreto – Teatro Dimora | La Corte Ospitale ::: Centro di Residenza della Regione Emilia-Romagna; Centro di Residenza della Toscana (Armunia Castiglioncello – CapoTrave/Kilowatt Sansepolcro); nell’ambito del progetto residenze coreografiche Lavanderia a Vapore; produzione PinDoc; coproduzione Agar, Teatri di Vetro, Teatro Akropolis; con il contributo di Mibac e Regione Sicilia. Prima assoluta di Energheia: Genova, Teatro Akropolis, 14 novembre 2019.
Visti a: Bologna, Teatri di Vita, “resiDANZE di primavera”, 19-20-26-27 giugno 2020.
Sempre puntuale, bravo!
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