L’importante è partecipare. Le origini

Giuliano Scabia 2Nel gennaio 2019 sono stato invitato da Annalisa Sacchi a partecipare a un seminario con gli studenti dell’Università IUAV di Venezia, dal titolo Scabia 60, a cura di Marco Baravalle e Stefano Tomassini. Quello che segue è il mio intervento. Mi sembra che contenga qualche spunto di riflessione utile, non solo nella prospettiva storica del teatro degli anni 60/70, ma anche per un approccio alla partecipazione nel teatro, che è diventata negli ultimi anni uno degli snodi principali. E per questo ho pensato di mettere l’intervento a disposizione di chi fosse interessato.

Di cosa parliamo quando parliamo di partecipazione? Il concetto è diventato negli ultimi anni uno dei princìpi chiave del nuovo teatro: teatro partecipato, partecipativo, di partecipazione… La formula nasconde un concetto, anzi più concetti, e talvolta è diventato un escamotage per spettacoli di “nuovo teatro davvero trendy e davvero contemporaneo”. In realtà, tenendo conto del fatto che nel teatro la partecipazione sia una condizione di per sé lapalissiana (lo spettatore, volente o nolente, partecipa nel momento in cui condivide lo spazio del teatro insieme agli attori), si capisce come la sottolineatura della partecipazione dia adito ad ambiguità, paradossi, equivoci, il maggiore dei quali riguarda la confusione tra partecipazione e coinvolgimento. Per questo può essere utile ritornare alle origini di un certo modo di concepire la partecipazione a teatro, attraverso la riflessione e la pratica di chi ha cercato di colmare il divario tra artista e fruitore, trovando il punto di connessione nella fase creativa e attuativa, ma senza mai rinunciare del tutto agli statuti originari delle figure in campo.

Nelle azioni teatrali sviluppate a Torino nel 1969/70, Giuliano Scabia riesce a mettere a punto una riflessione attiva – o diciamo anche una teoria pratica – a proposito di cosa significhi partecipazione, lanciando ipotesi seminali in questo àmbito. Scabia parte dall’unicità del teatro come dispositivo di relazione diretta tra le persone. Nel 1965, subito dopo l’esperienza di Zip, scrive: “il teatro ha un carattere unico, che è quello di mettere in rapporto diretto, immediato, un gruppo di persone in modo attivo, di azione e reazione. Nel teatro si crea ogni giorno una comunità nuova”. Dunque, teatro come spazio di relazioni, spazio di comunità: anzi, il teatro come sistema di relazione per eccellenza, in quanto si tratta di relazione “attiva”; e dunque, luogo di epifania di una comunità dialettica, dove le persone coabitano uno spazio in un meccanismo “di azione e reazione”, come scrive. Questo articolo comparso sulla rivista “Il Contemporaneo”, dal titolo Spettacolo e problemi di tutti, è illuminante per comprendere tutto il percorso successivo di Scabia, ma anche per riflettere sul senso di un teatro che si ponga in maniera interrogativa sul rapporto tra artisti e spettatori, che si interroghi, insomma, proprio sulla partecipazione. E’ esattamente il termine che usa Scabia, che parla di immergere “lo spettatore nelle stesse coordinate dentro cui si muove l’attore […] Si tratta di fare del teatro un luogo d’incontro veramente necessario, a cui si viene attratti fisicamente. […] A un teatro di godimento, può sostituirsi finalmente, in una società di apparenti uguali come la nostra, un teatro di partecipazione”.

Partecipazione Scabia 2Quindi, partecipazione è una relazione che si basa sulla attrazione fisica dello spettatore nello spazio del teatro. Lo spettatore, secondo questa riflessione, deve entrare o, meglio, sentirsi dentro lo spettacolo. La comunità è dunque quella che si crea nella compartecipazione di attori e spettatori allo spettacolo: “teatro come costruttore di nuove polis, di nuove, provvisorie comunità d’ascolto e di partecipazione”, scrive ancora. Parlando di comunità e partecipazione, Scabia richiama un altro termine che soprattutto oggi è illuminante in quanto molto diffuso, certo molto più che negli anni 60: “contemporaneo”. E scrive: “La contemporaneità di un teatro si misura dalla sua capacità di essere il luogo di incontro e di scontro di tutto ciò che accade nello spazio che circonda il teatro. Il teatro può essere (deve essere) il punto focale degli avvenimenti contemporanei”. Che dire? C’è già in nuce tutta l’esperienza di Torino, ma anche la prefigurazione di cosa sia un teatro di partecipazione nel teatro contemporaneo attuale. E cioè: il teatro non solo come spazio comunitario, come attrazione fisica dello spettatore, come luogo di relazione, azione e reazione, ma – per essere contemporaneo – anche spazio dove ricade e rimbalza, dove si incontra e soprattutto si scontra ciò che accade al di fuori di esso, e che – si badi bene – solo dentro di esso ha il suo punto focale, in quanto rivelatore. Ciò che avviene al di fuori del teatro può essere messo a fuoco dentro al teatro. Insomma, agli inizi del suo percorso di creazione teatrale (perché ricordiamo che precedentemente il suo lavoro è stato prettamente drammaturgico, di scrittura), Scabia decide di muoversi su questo doppio binario, inevitabilmente interconnesso: la partecipazione e la contemporaneità. Un teatro intimamente e genuinamente politico, senza che Scabia lo definisca mai esplicitamente in questo modo.

Il concetto è ribadito anche al convegno di Ivrea di due anni dopo, dove Scabia evolve il suo pensiero sul senso comunitario del teatro. Se nell’articolo del ’65 parla di una comunità che si crea dalla somma degli spettatori (“nel teatro si crea ogni giorno una comunità nuova”, scriveva), a Ivrea parla invece di una comunità che pre-esiste al teatro e che l’artista è chiamato ad ascoltare. Quello spazio delle relazioni, delle azioni e reazioni, è insomma precedente il teatro, e al teatro spetta il compito di interpretarlo, di dargli evidenza, di portare a un punto estremo di acutizzazione incontri e scontri per mostrarli a quella comunità, attraverso il filtro teatrale perché entrino a rifarne parte come nuovo patrimonio. Scabia rifiuta l’idea di un teatro che semplicemente faccia da cassa di risonanza di uno specifico fatto di cronaca, mentre per lui il “contemporaneo” rimanda al “complesso dei problemi di fondo che agitano una comunità e ne provocano il movimento”. E’ quindi evidente che il nodo nevralgico dell’azione artistica non risieda nella semplice registrazione di ciò che avviene nel mondo o sotto casa, ma nell’ascolto della comunità, della società, nella quale il teatro si manifesta. Ascolto e interazione che consentono di cogliere le istanze più profonde, scendendo al di sotto delle emergenze più superficiali.

Partecipazione Scabia 4
Volantino, 15 luglio 1969

Partecipazione e contemporaneità vanno dunque nel senso di un incontro, di una saldatura con la comunità nella quale l’artista è chiamato a operare, andando a cercare pubblici in qualche modo omogenei piuttosto che entrando nel circuito dei tradizionali ‘giri’ che incontrano aggregazioni più o meno casuali di spettatori. Il teatro si pone a servizio della comunità nella quale si trova a operare per evidenziarne e interpretarne i problemi. Cito ancora: “il teatro va usato come una sonda nei confronti del mondo che lo circonda, in cui gli avvenimenti vengano inventati come se fossero dei modelli da ribaltare sulla realtà, modelli come ipotesi di lavoro, capaci di gettare sulla realtà una luce diversa: di farcela conoscere attraverso una sua metafora”.

Vale la pena ricordare anche il breve incontro di Scabia con un’esperienza come il Gruppo Dioniso a Milano, sempre in quegli anni, guidato da Giancarlo Celli. Si tratta di un gruppo che lavora fortemente sulla partecipazione del pubblico all’evento, in azioni di strada che in qualche modo si rifanno al teatro di guerriglia. Ovvero: azioni performative in spazi pubblici non teatrali, in stretta relazione con i passanti, come azioni politiche di denuncia che servano alla gente a prendere coscienza di varie problematiche e a reagire. Questo passaggio è importante, perché ci mostra anzitutto come la questione della partecipazione nel teatro dalla metà degli anni 60 (la formulazione del teatro di guerriglia è del 1966) stesse cominciando a diventare significativa. Ma ci mostra anche come la forte caratterizzazione politica di quegli anni, e sempre più addentrandoci poi negli anni 70, declinasse l’idea di partecipazione in chiave – come si disse alcuni decenni prima – di agitazione e propaganda. E che dietro il termine di “partecipazione” ci fosse in realtà un procedimento più vicino a un semplice coinvolgimento, diretto dall’artista illuminato nei confronti del popolo da smuovere. L’attraversamento che Scabia fa di questa esperienza è interessante, perché lo mette di fronte a una modalità che ha a che fare solo in parte con quello che lo interessa, e cioè l’interpretazione delle istanze della comunità. Ovviamente qualcosa di quelle pratiche gli rimarrà addosso, ma ciò che metterà in pratica successivamente sarà qualcosa di completamente diverso, complice la centralità della scrittura nell’universo artistico di Scabia. Infatti, se in quegli anni gli artisti d’avanguardia stavano recuperando la pura ‘teatralità’, declinandola su strumenti (come la fisicità corporea, per fare un esempio) che relegavano la parola – tantopiù la parola poetica e letteraria – a un ruolo marginale, Scabia rimane prima di tutto e sempre un autore di testi.

Partecipazione Scabia 3E infatti, il progetto che in qualche modo si situa come cerniera tra la riflessione teorica di cui ho parlato prima e successivamente le azioni torinesi, è proprio un testo scritto, e cioè Scontri generali, opera concepita in quel periodo ma realizzata più avanti con forti mutilazioni rispetto all’idea originaria. In Scontri generali la responsabilità della scrittura testuale, di cui è autore Scabia, avrebbe dovuto attivare la partecipazione diretta degli spettatori. Nel progetto dell’autore, le repliche avrebbero dovuto essere in realtà altrettante rappresentazioni-laboratorio per permettergli di prendere atto delle reazioni del pubblico nella prospettiva di una continua revisione drammaturgica. Insomma, ogni pagina del testo, già precedentemente discussa con gli attori, avrebbe dovuto essere discussa anche con gli spettatori in apposite assemblee, permettendo la rielaborazione del testo stesso in base alle discussioni. In questa logica, il pubblico partecipante sarebbe così parte attiva, anzi fautore stesso dello spettacolo, in un percorso guidato, alla fine del quale può rispecchiarsi nella ‘messa in opera’ della sua stessa esperienza. Diciamo pure che con questa idea di laboratorio permanente, Scabia sembra trovare il punto d’arrivo della sua riflessione su un teatro nuovo, che tenga conto sia dell’aspirazione a un teatro di partecipazione che della ‘contemporaneità’ del teatro, intesa come ascolto della realtà esterna.

Scontri generali non approda all’esito previsto, anzi non approda proprio. Tocca dunque all’opportunità che gli si presenta subito dopo a Torino il compito di verificare sul campo le sue ipotesi. Tenendo presente che Torino è forse la città in cui maggiormente si respira in quel 1969 il senso di contemporaneità, viste le fortissime tensioni che trovavano lì un luogo di incontro e scontro: la massiccia immigrazione meridionale che comportava tensioni sociali, ma anche un’urbanizzazione sregolata e scandalosa, e dall’altra parte le istanze sindacali degli operai di uno dei più importanti distretti industriali italiani, saldata con le istanze del neonato movimento studentesco. Insomma, altro che spazio di incontro e scontro: Torino era esattamente il palcoscenico sociale più ‘contemporaneo’ nel quale mettere in campo il pensiero e la pratica di un teatro davvero ‘contemporaneo’.

Partecipazione Scabia 5
“Il Giorno”, gennaio 1970

Non sto a ripercorrere tutta la vicenda che ho dettagliamente ricostruito nel mio libro 600.000 e altre azioni teatrali per Giuliano Scabia, e che dà conto proprio di come Scabia si muova nel campo minato di Torino, di fatto ostacolato dagli organizzatori stessi di questo progetto di decentramento nei quattro quartieri, e comunque alle prese con una vera sperimentazione senza rete. Mi limito a evidenziare poche cose. Anzitutto, è evidente come l’approccio di Scabia al suo lavoro sia di reale volontà partecipativa, che non si limiti al semplice coinvolgimento e non venga imposta dall’alto con un ‘format’ precostituito. La dimostrazione sta nel fatto che la partecipazione è declinata in modo differente nei quattro quartieri coinvolti. In ogni quartiere Scabia inizia con l’organizzare gruppi di lavoro con i cittadini interessati, per ascoltare le istanze più profonde di ogni singolo quartiere e individuare la modalità più efficace di penetrazione in quelle micro-società, nei termini – irrinunciabili – del far emergere lo scontro, come motore vitale per un’evoluzione della storia. Apro una breve parentesi. Nel febbraio 2018 ho partecipato al laboratorio internazionale di Ert “Teatri abitatori di città”, improntato tutto sull’idea di teatro come luogo di conciliazione positiva delle istanze sociali, come luogo di incontro. Dopo aver ascoltato molti interventi, e proprio pensando a Scabia, non ho potuto fare a meno di denunciare nel mio intervento come il teatro abbia abdicato dal suo ruolo di spazio non solo degli incontri, ma anche degli scontri, che sono il motore vitale della nostra società (ovviamente non violenti, ma questo è un altro discorso). Il ruolo solo pacificatore e ‘buonista’ (mi si passi il brutto termine giornalistico) non si addice al teatro, se il teatro vuole essere realmente ‘contemporaneo’ nel senso che Scabia dà a questo termine, cioè essere il “punto focale” di ciò che avviene nella realtà che lo circonda, che ci circonda.

Tornando a Torino, va notato che per Scabia la partecipazione non significa cedere la responsabilità autorale, tutt’altro. Invoca la partecipazione, non la delega di responsabilità. Insomma, il testo ‘partecipato’ scaturisce da una forza collettiva, ma non rinuncia alla responsabilità individuale del suo collettore-elaboratore drammaturgico-registico. Ragionando a posteriori sull’esperienza torinese, infatti, Scabia sembra abbandonare l’espressione di teatro di partecipazione, per aderire a un’altra etichetta forse più adatta, quella di teatro organico, ossia ciò che indica il “rapporto che un teatro politico di ricerca deve instaurare col suo pubblico. Un rapporto di collegamento organico, attivo, provocatorio, il più possibile dirompente: non apologetico, non comiziesco, ma dialettico. (…) Un teatro che non cessi mai d’essere spettacolo, meccanismo teatrale ‘povero’”. Ecco la differenza rispetto al teatro di guerriglia, alle altre esperienze di partecipazione o coinvolgimento, che si fermavano sulla soglia della pura performatività, come si direbbe ora, rimanendo azione o happening. L’impegno teatrale implica la sua proiezione verso una forma spettacolare, consapevole dello stesso meccanismo teatrale, vale a dire dei suoi codici. Discorso in apparente contraddizione con quei processi di lavoro teatrale che proprio anche da questa esperienza torinese avrebbero generato la fase dell’animazione teatrale. Ciò che premeva a Scabia, che pure – appunto – è considerato tra i padri dell’animazione, è evitare lo sfaldamento dell’idea di teatro e la sua dispersione in rivoli in cui il teatro lascia il posto a semplici rituali performativi o addirittura solo quotidiani fini a sé stessi. E invece no: anche l’animazione deve avere una finalità teatrale con la consapevolezza dell’essere teatro e del meccanismo: che poi magari può arrivare alla fine o no, ma che deve pur sempre essere previsto per determinare un processo di lavoro.

Partecipazione Scabia 6Insomma, la partecipazione non significa abdicare dal proprio ruolo di artista responsabile. Anzi, significa che l’artista deve mettersi all’ascolto della comunità nella quale intende operare, far emergere dall’incontro gli spunti dello scontro, e mettersi all’opera per restituirli nella pratica teatrale. Facendo in modo che tutto si materializzi nel teatro, nello spettacolo, con la consapevolezza del meccanismo, senza rinunciare cioè alla scelta della rappresentazione e della simulazione e della trasfigurazione, evitando le sirene fallaci della propaganda o dell’happening. La necessità di aver sempre presente il “meccanismo teatrale” nasce dunque dal bisogno forte di radicare le proprie esperienze all’interno di ciò che chiamiamo teatro, assumendone (anche criticamente) la storia, gli elementi di base, le tradizioni. Nel diario che Scabia tiene durante il lavoro a Torino leggiamo: “bisogna dare strutture precise / altrimenti il risultato è il caos (…) che lo scopo non sia realizzare spettacoli, ma soprattutto progettarli”. Siamo all’origine del pensiero sullo schema vuoto, che Scabia metterà meglio a fuoco nelle sue esperienze immediatamente successive a Torino: cioè una sorta di canovaccio che contiene una precisa struttura di lavoro all’interno della quale sarà il lavoro stesso a determinare i contenuti e il corpo complessivo dell’esperienza. L’improvvisazione, sia essa in uno spettacolo o in un lavoro d’animazione, deve appunto basarsi su “strutture aperte”, che però a loro volta richiedono un’attenta preparazione o, si potrebbe dire, una rigorosa drammaturgia dinamica, in grado al tempo stesso di sollecitare azioni e di recepire le azioni sollecitate.

Il lavoro dell’artista che si muove nell’ottica di un nuovo teatro a partecipazione, dice insomma Scabia, non è tanto quello di realizzare spettacoli ma di progettare drammaturgie aperte, concepite come schemi di lavoro, con la coscienza dello spettacolo a venire (a prescindere dalla sua realizzazione). E qui veniamo a un altro punto fondamentale. Far partecipare è tutt’altra cosa rispetto a dar la voce direttamente: teatro popolare sì, ma con la responsabilità autorale di un drammaturgo o perlomeno di un demiurgo, disposto a interagire con le istanze di quella comunità. Per Scabia la partecipazione o, meglio, la condivisione di un percorso creativo, deve evitare l’equivoca confusione del collettivismo creativo o dello spontaneismo assoluto. Anche nelle esperienze di creazione più condivise, perfino nei progetti di animazione più aperti, il teatro di Scabia è sempre teatro autorale, perché sempre comporta la presenza di uno sguardo esterno, vero motore dell’intera creazione, che si fa demiurgo. Ecco allora spiegato cosa accade a Torino. Scabia, baricentro di un sistema partecipativo che sta sperimentando (e dunque con tutte le ambiguità e i fallimenti del caso, non dimentichiamo), elabora testi a partire dai materiali raccolti e ricompone quei testi per uno spettacolo fatto da attori (quindi senza coinvolgere gli abitanti dei quartieri, che partecipano alla preparazione ma non all’azione) per confrontarsi con un pubblico chiamato a riflettere. E a intervenire.

Partecipazione Scabia 1Porto solo l’esempio di Mirafiori e dello spettacolo 600.000, perché come dicevo l’intera esperienza torinese è stata così complessa, articolata e differenziata, che servirebbe molto più tempo per approfondirla. Ricordiamo l’insistenza di Scabia sulla compresenza degli opposti nello spazio del teatro: “azioni e reazioni”, “incontri e scontri”… Ecco, tutto ciò è possibile perché la dialettica non si esaurisce nella rappresentazione, che limiterebbe la reazione a un livello principalmente personale e privato dello spettatore (diciamo ‘nella sua testa’), ma si riverbera in quello che rappresenta la parte ineliminabile degli spettacoli teatrali di quegli anni, un vero e proprio secondo atto, e cioè il dibattito. Qui l’abitante del quartiere riacquista il suo peso e la sua funzione partecipativa, che aveva brevemente sospeso durante la rappresentazione. Perché l’assemblea-dibattito è spazio liminale, non alieno, allo spettacolo: è il punto in cui Scabia sposta il fulcro del suo teatro politico. In 600.000, così come negli altri lavori torinesi, è previsto che gli spettatori si esprimano, e questo avviene appunto in continuità con quanto essi stessi hanno visto, perché gli spettatori, nel loro personale racconto dei fatti rievocati nello spettacolo o delle condizioni di disagio del quartiere e della fabbrica, diventano altrettanti documenti viventi, e si inseriscono con le loro parole nelle parole e nelle azioni dello spettacolo. Gli spettatori, che sono gli operai e le loro famiglie, non sono portatori di semplici commenti o testimonianze, ma tecnicamente diventano parte essenziale dell’evento. Per questo ho avanzato nel libro la proposta della definizione di drammaturgia assembleare, proprio perché l’assemblea – che in quell’epoca, non dimentichiamo, aveva valore assoluto di spazio democratico con pieni poteri – ridefinisce con i propri interventi il testo stesso dello spettacolo. Che dunque è spettacolo totale, composto da una prima parte rappresentativa e da una seconda parte assembleare, inscindibili. Lo spettacolo è risucchiato nel dibattito e il dibattito è ridefinito come spettacolo.

In questo senso, Scabia ha modo di verificare sul campo l’intuizione teorica che aveva avuto nell’intervento a Ivrea a proposito del teatro che deve “portarsi al centro di una comunità e coinvolgerla in qualche modo tutta sul piano tematico e gestico”. D’altra parte, sarebbe ipocrita pensare di rappresentare una comunità di cui, in definitiva, non si fa parte. Scabia e il suo gruppo di attori vengono da altrove rispetto ai quartieri in cui operano, sono pronti a lavorare per rappresentare i bisogni di quelle comunità, ma non possono non rimarcare con sincerità il loro essere alieni, disposti sì a interagire, ma senza mai dissimulare la propria alterità o fingere un’appartenenza camaleontica alla comunità con cui interagiscono. E questo è l’ultimo punto che mi preme sottolineare: il processo della partecipazione è innescabile solo se si implica la figura dello straniero. E’ lo straniero che arriva in una comunità a saperne leggere le tensioni contemporanee, a saperne sollecitare la rielaborazione finalizzandola in uno schema teatrale, e a restituirla carica di dinamiche dello ‘scontro’ a quella stessa comunità: giusto il tempo di smuovere le acque e andar via, si potrebbe dire.

Dunque, non esattamente un teatro di comunità, ma semmai un teatro per la comunità, intendendo quella preposizione ‘per’ come un’indicazione di vantaggio (a favore della comunità), ma anche di luogo: ‘attraverso’ la comunità, come fa un viaggiatore (siamo alle origini del “teatro vagante”) o un alieno che, con occhi vergini, attraversa un territorio straniero. Cioè suscitando in quella comunità un processo di creazione partecipata, che senza lo straniero non sarebbe mai stato neanche possibile pensare, ed entrando in un rapporto intimo e dialettico di “incontro-scontro” in cui far emergere i problemi e le necessità, riuscendo infine a dar loro corpo e voce teatrali.

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