Io, l’altro e il mondo: i confini di Scenario Infanzia

“Nano solo” (immagine ufficiale del Premio Scenario Infanzia, foto di Tomaso Mario Bolis)

Nei primi giorni di settembre 2020 si è svolta la finale del Premio Scenario Infanzia, con la partecipazione di 14 giovani formazioni artistiche impegnate a presentare i loro progetti rivolti a un pubblico tra infanzia e adolescenza. In questa occasione è stato creato un “tavolo critico” di osservatori “speciali” che hanno seguito tutti i lavori e alla fine hanno scritto una propria riflessione. Questo che segue è il mio contributo al termine del tavolo critico di Scenario Infanzia.

Lo sguardo dei giovani artisti sull’infanzia e sull’adolescenza non ha solo a che fare con i destinatari a cui si rivolgono, ma ha anche molto a che fare con gli artisti stessi. Nei progetti finalisti del Premio Scenario Infanzia l’attenzione verso il pubblico delle scuole sembra andare di pari passo con la necessità di proiettare su quei progetti anche una riflessione su di sé, sulla propria condizione di giovani, che poi anagraficamente così lontana non è. Lavorare e creare per bambini e ragazzi diventa così un viaggio che comincia da sé stessi e risponde anche alle proprie domande. Non è corretto generalizzare, ma la sensazione che il teatro rivolto al giovane e giovanissimo pubblico (ai “nuovi spettatori”, come è la dizione del premio) sia nutrito fortemente dal proprio essere giovane artista (under 35 per l’esattezza) è tornata spesso durante le finali in cui si sono avvicendati 14 progetti di spettacoli, presentati in soli 15 minuti di work in progress, rivolti a varie fasce d’età: da quella pre-scolare dei 3/6 anni a quella più avanzata dei 14/18.

In questo senso, non è un caso che il tema forse più condiviso e frequente sia stato quello dell’identità, con i suoi inevitabili corollari. Da una parte, il corollario della solitudine, da intendere anche come momento di crescita e riflessione, di crisi in senso anche costruttivo (con, sullo sfondo, quasi mai esplicitata ma spesso tangibile, la reclusione forzata dei mesi primaverili a causa del Covid). Dall’altra, il corollario delle relazioni sociali, ossia amicali e familiari, con l’ulteriore corollario del dissidio tra essere e apparire. La complessità del tema identitario e dei suoi corollari rispecchia chiaramente il vissuto del pubblico infantile e adolescenziale, proprio in un periodo esistenziale in cui il e l’altro assurgono a questioni pressoché totalizzanti della propria esperienza. Ma al tempo stesso è anche specchio di una questione centrale in una fascia giovanile, come quella corrispondente all’età degli artisti finalisti, sospesa in una ambiguità identitaria, anche professionale (tradizionalmente depressa e inibita nel sistema teatrale italiano), che si trascina forti interrogativi anche sul piano personale. D’altra parte, alcuni progetti hanno invece puntato in maniera diretta ed esplicita su temi più ‘oggettivi’, per così dire, come l’ambiente, la guerra e perfino il rapporto tra mafia e politica, che a loro volta incontrano tanto la curiosità e l’interesse del pubblico giovane quanto la necessità degli artisti ad approfondirli. Insomma, se tradizionalmente il teatro per l’infanzia e l’adolescenza sembra calare temi e bisogni dall’alto dell’esperienza e dell’abilità degli artisti, le finali di Scenario Infanzia sembrano aver rivelato una diversa relazione, diciamo di reciproca scoperta.

Aurora Candelli, “Oltre qui”

Il tema dell’identità è affrontato in maniera poetica e fiabesca nell’unico progetto rivolto a un pubblico dai 3 ai 6 anni, Oltre qui di Aurora Candelli, che non a caso arriva al teatro da un percorso di formazione in psicopatologia dell’apprendimento. Il racconto è quanto di più semplice e diretto per il suo pubblico di riferimento: il viaggio avventuroso di una bambina, che incontra diversi personaggi, ciascuno dei quali le dona un oggetto. Tutti gli oggetti raccolti formano quel tesoro esperienziale che contribuisce a costruire proprio l’identità di ciascuno negli incontri della nostra vita. L’identità, in altre parole, non pre-esiste alla storia, ma si arricchisce con l’esperienza e con il tempo. Messaggio intenso e cruciale nell’eta dell’apprendimento, veicolato da un linguaggio esclusivamente visivo: di fronte ai bambini ci sono tanti libri, ciascuno dei quali contiene disegni in pop-up che raccontano i pezzi di questa favola esemplare. Non un solo volume, ma tanti: e anche qui si nasconde un ulteriore snodo concettuale strategico. La molteplicità dei libri, infatti, riflette in qualche modo la non univocità dell’esistenza: nessuno di noi sta dentro un solo libro, ma piuttosto dentro tanti libri, e li attraversa prendendo qualcosa da ciascuno. E’ poi facile vedere come il disegno della bambina corrisponda esattamente alla figura della stessa performer, che quindi si presenta come testimone diretta e reale della narrazione: non solo manipolatrice e deus ex machina, ma protagonista reale, personificazione materiale del personaggio e garanzia della ‘autenticità’ della storia.

Coppelia Theatre, “Witchy things”

Più complesso è il progetto Witchy things di Coppelia Theatre, rivolto a un pubblico dai 6 ai 10 anni. Una sola attrice, Mariasole Brusa, interpreta i due personaggi, caratterizzati da un’enorme testa-maschera in gommapiuma: una strega e una bambina. Entrambe condividono una condizione di solitudine e crisi identitaria. La prima aspira inutilmente ai capelli turchini, che soli potrebbero garantire la sua appartenenza alla categoria. Il suo punto di riferimento è lo specchio magico, che nell’attualizzazione narrativa è diventato il social Instregram, di cui vediamo foto e post nello schermo sullo sfondo: luogo di autorappresentazione e di riconoscimento attraverso l’esteriorità del corpo, ossia strumento in cui guardarsi per sentirsi accettati e stimati. Proprio come la strega di Biancaneve faceva con il suo “specchio delle mie brame”, e come gli adolescenti e i pre-adolescenti sembrano fare con i nuovi social delle loro brame. Il secondo personaggio è la bambina (che all’inizio è scambiata per un bambino, cosa che ribadisce un’interessante condizione di identità indefinita), chiusa in casa, controllata a distanza dalla madre al lavoro, e anch’essa alla ricerca di una propria affermazione e di un riconoscimento sociale. Le due solitudini si incontrano. Entrambe sono assediate da voci interne/esterne (la madre al telefono e, nel caso della strega, il “teatrino” di pupazzi/voci della coscienza che abitano la sua stessa testona). Entrambe lottano per superare la percezione di incompletezza della propria esistenza, e forse proprio il confronto di identità eterogenee può colmare la mancanza: come nel precedente progetto, il rispecchiamento nell’altro arricchisce la percezione di sé.

Simone Mastrocinque, “Google Boy”

Per certi versi il progetto di Coppelia Theatre si riverbera in quello di Simone Mastrocinque, Google Boy, rivolto a un pubblico dai 10 ai 14 anni. Ancora una volta, il giovane protagonista è solo a casa, ancora una volta ‘controllato’ a distanza dai genitori, e ancora una volta caratterizzato da una fragilità identitaria che, in questo caso, sfoga nel totale assorbimento nel suo smartphone, che inevitabilmente lo fa andare male a scuola. Curiosamente rispetto alle nostre aspettative ‘pedagogiche’, i genitori gli regalano un ulteriore piccolo dispositivo elettronico che nasconde una sorta di intelligenza artificiale con cui il ragazzo dialoga. Come la strega di Witchy things, anche questo strumento funziona da sprone, in questo caso verso la socialità (e di conseguenza verso una maturazione identitaria). Ribaltando la percezione dei dispositivi smart come antisociali e regressivi, Mastrocinque dà al suo una funzione quasi da Grillo Parlante, che spinge il suo Pinocchio a uscire dal guscio e incontrare gli altri: sentiamo la sua voce che suggerisce al ragazzo di superare il proscenio, di avvicinarsi a uno spettatore e di iniziare un dialogo con lui. Il giovane protagonista obbedisce alla macchina, esplorando oltre la quarta parete l’oceano incerto e imprevedibile, ma affascinante, delle relazioni. Il piccolo cilindro Google diventa così uno strano surrogato dei genitori stessi nella spinta verso la socialità: un messaggio apparentemente contraddittorio, che ritrova senso proprio nell’assimilazione del dispositivo elettronico al mago delle fiabe (e non è del resto ‘magico’ il funzionamento di quegli strumenti che ci guidano in modo spesso sorprendente in molte delle nostre esperienze sociali?).

Collettivo Lynus, “No words”

Sarebbe interessante analizzare il tema dell’assenza dei genitori dai progetti di teatro per l’infanzia e l’adolescenza. Non dei genitori come riferimento, ma come oggetti visibili di rappresentazione: tutti assenti, o meglio presenti a distanza, sempre fuori scena, come in Witchy Things e in Google Boy, così come in altri progetti finalisti. Irrappresentabili? O forse proprio assenti nel momento in cui il bambino o il ragazzo sono di fronte a sé stessi, nella solitudine che li porta a confrontarsi con la propria crisi di crescita?

Anche in No words del Collettivo Lynus, per la stessa fascia d’età del precedente, vediamo una ragazza sola in casa, anch’essa in qualche modo autoreclusa e, di fatto, senza contatti con i genitori che la ‘controllano’ senza comparire. In questo caso, il tema è più complesso, perché non parliamo solo della generica solitudine degli adolescenti, ma arriviamo alle soglie della patologia: la protagonista, infatti, mostra i segni di una sindrome in cui l’apatia della “generazione da divano” (sulla scena campeggia una grande poltrona sulla quale si siede, si sdraia, si accuccia…) digrada verso l’afasia, l’incomunicabilità, la depressione. Il malessere nell’età della crescita, spesso ridotto a incognita e incomprensione caratteriale dagli stessi adulti, rivela le crepe di un dolore inesprimibile a parole, che riflette l’incapacità di una generazione ad affrontare le crisi della crescita in un contesto sociale complesso e competitivo, e dunque, ancora una volta, che riflette la complicata costruzione dell’identità. Non è un caso se il Dottore che pontifica sullo schermo non è altro che una proiezione della stessa ragazza, che ribalta nella quasi-caricatura quelle che sono le frasi fatte di un mondo adulto spesso incapace di entrare in relazione con un’età così fragile.

Usine Baug, “Sweet Haka”

Età che lotta all’interno per riconoscere la ricchezza dei tanti sé che la abitano e per riuscire a costruire una personalità, e che lotta all’esterno per sfuggire alle gabbie, ai pregiudizi e alle aspettative del contesto sociale. Come in Sweet Haka di Usine Baug, sempre rivolto alla stessa fascia d’età (che evidentemente è il momento più sensibile di evidenza della crisi identitaria) e sempre – forse per coincidenza o forse no – con un titolo inglese (come hanno ben 6 progetti su 14). Lo spettacolo affronta in maniera esplicita la questione delle aspettative legate agli stereotipi, in particolare quelli di genere: tema sensibilissimo, che si aggancia a quello relativo al bullismo, e che coniuga perfettamente il pensiero sull’identità e sull’accettazione di sé con quello sulla socialità e sull’accettazione da parte degli altri. Parola d’ordine del progetto è “non abbastanza”, ossia la sensazione di non corrispondere mai abbastanza agli stereotipi a cui ci viene richiesto di assimilarci. Se i precedenti progetti focalizzano l’attenzione sulla messa in crisi interiore del soggetto, qui ritorna invece il tema simbolico del viaggio come strumento di conoscenza e di auto-conoscenza. E’ nel confronto di sé con l’altro di fronte all’esperienza condivisa dell’altrove che la ragazza “non abbastanza femmina” e il ragazzo “non abbastanza maschio” affrontano i loro ostacoli per riconoscere e accettare sé stessi, anche grazie a un ulteriore dispositivo, ossia il recupero del mondo mitopoietico dei fumetti, dove tutto è possibile e dove Wonder Woman ha diritto di cittadinanza, e vince. Il viaggio dei due protagonisti sarà così esperienza ‘mitica’ ma anche profondamente reale, per poter giungere all’affermazione di sé attraverso l’esempio.

Salvatore Cannova, “Alla ricerca di un lieto fine”

Ritornando alla fascia d’età minore, ritroviamo nuovamente il tema dell’identità, come abbiamo visto con Witchy things, con molta maggiore attenzione alla sua costruzione nel contesto sociale. Anche in progetti apparentemente indirizzati su altre strade, come Alla ricerca di un lieto fine di Salvatore Cannova e Fenice Teatri. Si tratta di una vera e propria favola in cui il plot è ripreso da Il topo e la montagna di Gramsci, condensando – nella storiella del topo che viaggia alla ricerca del latte per la capra dell’amico del cuore – un panorama articolato di questioni. Tra tutte, mi sembra che la questione identitaria rappresenti un filo rosso significativo che ancora una volta incontra il meccanismo del viaggio. Protagonista è, appunto, un topo, che tuttavia non sembra voler riconoscersi come tale, poiché sottolinea in continuazione la sua assimilazione con l’essere umano: non la classica antropomorfizzazione animale, dunque, ma la consapevole rinuncia della propria identità per amicizia, cioè per acquisire una riconoscibilità sociale. Credo che questo sia lo snodo più forte del progetto: quanto si è disposti a non essere sé stessi per essere apprezzati dagli altri? Peraltro, il racconto procede per incontri, che di volta in volta mettono il protagonista di fronte ad altre identità, le quali mostrano invece una solidità significativa della propria essenza: e sarebbe interessante che queste relazioni si sviluppassero (nel prosieguo della creazione dello spettacolo) anche nel senso del riconoscimento identitario. Per esempio con il dispositivo narrativo centrale, che Cannova spiega curiosamente come “mercificazione del dolore”, mentre mi sembra più corretto identificare come il classico scambio, che sta alla base dell’esperienza simbolica e reale dell’esistenza. Infatti, il topolino deve dare qualcosa di sé ogni volta al diverso personaggio che incontra per poter ottenere informazioni preziose (nel pezzo presentato alle finali, una chiocciola e uno strano santone, che consente peraltro di accennare a una curiosa parodia religiosa): un baratto virtuoso, che rappresenta per il topolino una maturazione esistenziale e mostra una costruzione del rapporto sociale come scambio reciproco, e che invece Cannova giudica negativamente in termini di ricatto. Probabilmente è un punto concettuale su cui vale la pena fare una più attenta riflessione.

Le Scimmie, “Il vestito nuovo dell’imperatore”

La questione delle aspettative e quindi della costruzione della propria forma sociale ritorna in un’altra favola, Il vestito nuovo dell’imperatore del gruppo Le Scimmie, per la stessa fascia d’età 6-12 anni. Il tradizionale tema della vacuità del potere nella storia di Andersen si arricchisce con il tema contemporaneo della società dell’immagine. C’è ancora il re della favola originaria, e c’è ancora il sarto astuto, che ovviamente – data la provenienza degli artisti da Napoli – non poteva che essere uno scaltro Pulcinella in veste di Masaniello vendicatore (o Robin Hood). Ma alla questione più evidente si affianca quella più ravvicinata dell’apparenza come misura nelle relazioni: il vestito bello, originale, di marca, così come magari l’accessorio, la pettinatura, il telefono, i follower e i like sul profilo social, corrispondono alle frenesie accumulatorie del sovrano vanitoso, che evidentemente misura il suo valore e la sua riconoscibilità sociale sulla base della stravaganza o della moda. Dire che “il re è nudo” può dunque diventare, in un possibile sviluppo di questo progetto, la presa d’atto che vestirsi dei segni imposti nella società dell’apparenza porta al vuoto e al nulla anziché al tanto sospirato successo. Nel progetto è da notare, inoltre, un aspetto linguistico piuttosto originale, cioè l’uso della rima, che da una parte recupera una certa tradizione drammaturgica (anche in ambito di teatro per bambini) contribuendo alla percezione del teatro come spazio della visione e della comunicazione extra-quotidiana, e dall’altra cerca un aggancio con quella neo-tradizione della canzone rap che sempre più incontra le giovanissime generazioni.

Alice Conti, “Orsòla e il pesciolino d’oro”

Nella stessa fascia d’età si collocano altri progetti che si allontanano dal tema dell’identità, che abbiamo individuato come centrale, concentrandosi maggiormente su quello delle relazioni. Orsòla e il pesciolino d’oro di Alice Conti/Ortika affronta con un linguaggio da favola l’incontro con il diverso, rievocando le migrazioni e le relative epopee tragiche. Un’anziana cerca di pescare il pesciolino d’oro (che proviene dalla favola di Puškin) per avidità ma, quando infine ci riesce, nel suo ventre trova un tipo di ricchezza diversa da quella che immaginava, e cioè una bambina con la pelle nera: un potente e intenso rimando poetico alle morti dei profughi nel mar Mediterraneo alle porte del nostro Paese. Delusione, rabbia, ma poi curiosità, cura, affetto: i sentimenti della protagonista verso la piccola straniera mutano con il crescere della vicinanza e della conoscenza, fino alla scoperta che la vera ricchezza è nell’incontro umano. Il progetto artistico è sviluppato con l’uso di diverse forme di teatro di figura, dalle ombre alle marionette, e pressoché interamente senza parole, alle quali vengono sostituiti i canti di protesta dei neri americani, per cercare di riallacciare una connessione tra l’esperienza italiana delle migrazioni e dei conflitti xenofobi con quella americana, filtrata dallo sguardo (anzi, dal canto) che riafferma la dignità e l’orgoglio delle etnie neglette. Dunque, un lavoro che unisce la fascinazione spettacolare con l’intento pedagogico, ma che non si sottrae alle questioni politiche rappresentate proprio dalla riflessione su convivenza e solidarietà in un’Italia sempre più divaricata tra accoglienza e razzismo.

Pars Costruens, “Ant’s line”

Sempre al confine con temi “adulti” è Ant’s line – Formiche in fila indiana di Pars Costruens, che punta sull’ecologia sociale. In questo caso, più che della favola siamo dalle parti della fantascienza anni 40/60 in cui scienziati pazzi o visionari si rimpiccioliscono per dialogare con mondi infinitesimali. Qui a rimpicciolirsi è lo scienziato che vuole entrare in contatto diretto con le formiche per scoprire il segreto del loro successo come specie, a fronte dell’imminente estinzione degli umani. Il tema dell’ambiente, sempre più presente anche nella fascia d’età a cui il progetto si rivolge (6-11 anni), non trova dunque un approccio meramente “infantile”, con esaltazione della natura e condanna dei disastri ecologici, ma, come nel precedente progetto, offre un taglio interpretativo più complesso. Lo scienziato, infatti, scopre che il segreto delle formiche è la loro particolare forma di solidarietà sociale, che si esprime nel senso della responsabilità individuale applicata a una visione collettiva e al benessere condiviso. A questo proposito è interessante anche il meccanismo di coinvolgimento dei bambini, che sono chiamati a rispondere a domande a risposta multipla di fronte a ogni bivio narrativo. Se le prime domande suggeriscono risposte piuttosto ovvie (e però ad alto rischio di provocazione del pubblico infantile che potrebbe voler giocare dando risposte beffarde e incongrue), quelle successive richiedono un pensiero via via sempre più approfondito e complesso, fino all’ultima domanda che non ha soluzioni realmente percorribili: è a questo punto che dovrebbe scattare la percezione (certo, più per un adulto) che ci sono domande per le quali non esistono risposte preconfezionate, e anzi non esistono proprio risposte secche, vista la forte complessità della domanda stessa. Insomma, l’ambiente e la solidarietà come spazi di impegno quotidiano, dove il manicheismo non può portare aiuto.

Nadia Addis, “Brigitte e le Petit bal perdu”

Di tutt’altro tenore è il progetto di Nadia Addis Brigitte e le Petit bal perdu, che usa il teatro di figura per una storia che sembrerebbe più adatta a un pubblico per adulti, ma che in realtà pare trovare il suo migliore punto d’approdo in una fruizione condivisa della famiglia: genitori e figli. Si tratta di un racconto onirico della memoria di una donna anziana, che ricorda un suo amore giovanile conosciuto su una nave, e scandito da un ballo romantico. Al di là della tenerezza e delicatezza della storia, la particolarità del progetto consiste proprio nella fruizione. Il teatro è infatti una scatola, nella quale troviamo la casa dell’anziana e i fantasmi da lei evocati. Gli spettatori sono solo quattro, e osservano attraverso le quattro finestre di questa casa. L’atto malandrino dello spiare la vecchia stramba si trasforma nella quasi adesione – anzi, aderenza fisica – a quel mondo: i quattro volti diventano altrettanti grandi quadri dell’arredamento di quell’abitazione. Ma il punto più interessante è forse quello rappresentato dal desiderio ideale dell’artista: la fruizione condivisa intra-familiare, in cui inevitabilmente i genitori o i nonni colgono aspetti della storia diversi rispetto ai bambini. Contrariamente agli altri progetti presentati alla finale di Scenario Infanzia, che puntano direttamente e pressoché esclusivamente al pubblico delle giovani generazioni, Brigitte vuole invece mescolare i pubblici per portarli all’interazione e al confronto al termine dello spettacolo: i diversi punti di vista sulla storia e le diverse emozioni suscitate sono la leva per innescare il dialogo intergenerazionale, analogamente a come l’anziana protagonista sembra attivare un dialogo con la sua giovane sé.

Nardinocchi-Matcovich, “Arturo”

E proprio sul dialogo intergenerazionale a posteriori è basato Arturo di Laura Nardinocchi e Niccolò Matcovich, che è probabilmente il progetto che maggiormente incarna quell’incontro tra giovanissimi spettatori (qui la fascia d’età prevista è 12-18 anni) e giovani artisti, di cui parlavo all’inizio. Il lavoro, infatti, parte dalle autobiografie dei due artisti, una regista e un drammaturgo che si ritrovano in scena da “non attori”, come sottolineano più volte come dichiarazione di autenticità, per riprendere i fili della memoria dei propri padri scomparsi. Un intimo percorso alla ricerca di una relazione perduta, un esorcismo della morte che è anche un vitalistico richiamo alle opportunità della vita, in particolare quella con i genitori: figure che da un’assenza indifferente denunciata in altri progetti passano qui a un’assenza pesante, a un vuoto che richiede l’amore dei figli per essere colmato nuovamente. L’azione è in sostanza un atto d’amore privato – in cui vengono riportati aneddoti reali, emozioni vissute in prima persona, nomi e fatti precisi riferiti ai due padri – che aspira a diventare atto d’amore collettivo attraverso l’empatia e, soprattutto, attraverso i pensieri sottili iniettati nei giovanissimi spettatori, che dunque si ritroveranno probabilmente a confrontare l’esperienza personale di Nardinocchi e Matcovich con la propria: padri amorevoli o ostili, assenti o invadenti, che riemergono al confronto filtrati dal faticoso senno di poi dei due performer. D’altra parte, lo spettacolo può incrociare anche giovani che hanno già vissuto l’esperienza della perdita o semplicemente dell’abbandono di un genitore, e in ogni caso comportano per gli spettatori un inevitabile ripensamento del loro rapporto con gli adulti della famiglia. E’ anche interessante che la stessa struttura dello spettacolo sia pensata non in termini di classica narrazione o drammaturgia, ma in termini di archeologia del frammento, che richiede la partecipazione del pubblico: il lavoro è diviso in parti che vengono estratte a sorte dagli spettatori, come tessere di un puzzle a cui i due artisti danno corpo, ogni volta in modo diverso, arrivando pian piano a formulare – anche fisicamente – un ritratto dei due congiunti. Sono dodici quadri che, giocando esplicitamente e pericolosamente con la nostalgia, instillano un’interrogazione sui sentimenti filiali che non può lasciare indifferenti, e può invece aiutare a ridefinire le relazioni. In un certo senso, anche qui ritorna la questione dell’identità, come ricerca di un diverso sé nel rapporto con i genitori, e come invito a un’introspezione fatta di cose e di piccole azioni che andranno a racchiudersi, nel momento in cui accadrà, in un album segreto degli affetti in morte dei nostri cari.

Compagnia Legàmi, “Da consumarsi”

La memoria è alla base anche di un progetto che ha l’ambizione di rievocare la storia d’Italia dalla seconda guerra mondiale a oggi, attraverso la vita della protagonista: Da consumarsi della Compagnia Legàmi, per un pubblico dai 14 ai 18 anni. I ricordi individuali di Dora, classe 1933, si intrecciano con quelli della memoria collettiva di un’Italia che dopo aver subìto la guerra affronta le tappe della propria vita repubblicana. La microstoria si dipana nelle pieghe delle svolte epocali, e il personaggio che impariamo a conoscere nella sua vita privata diventa testimone lontanissima e più o meno inconsapevole dei grandi eventi. La sfida è saldare il passaggio sulla Terra di persone umili e inconsapevoli con gli avvenimenti storici, ovvero ridare dignità a una storia sociale e antropologica che le date, i nomi, gli slogan o le bombe relegano in secondo piano. Le bombe: dal conflitto mondiale al terrorismo alla mafia, l’Italia ha un cammino segnato di bombe, che il progetto di Legàmi punta a sgranare e mostrare secondo un approccio che cerca di ridefinire quei momenti alla luce dell’esperienza personale di chi c’era, magari preda di bombe ben più ravvicinate e personali, quelle che segnano il percorso esistenziale delle persone. Dunque, l’evidente volontà divulgativa e didattica, che sgorga dal parallelo bisogno delle artiste di recuperare anche per sé le tappe di una storia nazionale pluridecennale, si stempera in una narrazione quasi romanzesca, che ha nel teatro di figura un punto di forza speciale, nel momento in cui tutto – dalla protagonista alle tracce e ai reperti emersi da un grande baule – è oggetto, dunque supporto materiale, quasi un precipitato fisico della memoria stessa.

Hombre Collettivo, “Casa Nostra”

Più concentrato temporalmente è il lavoro sulla storia d’Italia proposto da Hombre Collettivo con Casa Nostra, rivolto alla stessa fascia d’età. Diciamo subito che, anche in questo caso, è molto forte la spinta dei giovani artisti a confrontarsi con un periodo da loro non vissuto per raccontarlo a chi è ancora più piccolo: da qui la ricerca di un linguaggio di mediazione che serva a entrambi per recuperare quel periodo e assimilarlo non in termini divulgativi (come in Da consumarsi), ma semmai evocativi, al punto che anche i nomi, le date, i fatti vengono mostrati ed enunciati come parti di un viaggio emozionale, che usa il sogno (l’incubo) come strumento di mitopoiesi, e il grottesco come linguaggio. Tema centrale del progetto è la collusione tra mafia e potere politico, dal maxi-processo al coinvolgimento di Silvio Berlusconi: tema delicato, anzi rovente, che rappresenta un momento recente e di complessa storicizzazione, ma anche un momento costantemente presente per chi si occupa di attualità e politica italiana, e quindi tema importante per un pubblico di adolescenti che inizia ad affacciarsi alla vita pubblica. Come dicevo, però, Hombre Collettivo evita del tutto la narrazione così come la stessa intellegibilità logica, scommettendo interamente sull’evocazione, attraverso uno spettacolo fortemente sensoriale, visivo, visionario, dove gli elementi storici si sparpagliano in modo estremamente suggestivo per chiedere al pubblico un’ardua ricomposizione del puzzle. Quest’ultima parola non è casuale: l’intera drammaturgia è infatti imperniata sul dispositivo ludico. Ogni oggetto, ogni personaggio, ogni azione rimandano a un gioco, presentando così l’Italia come una grande stanza del divertimento. E tutti (Monopoly, puzzle, cubi, macchinine…) arrivano sempre a uno scarto che, come dicevo, richiede l’attivazione dello spettatore, che tuttavia non può essere interna all’esperienza di visione (in cui le allusioni non si presentano mai con la chiave per la loro decodifica), ma obbligatoriamente esterna: come in altri progetti, lo spettatore è implicitamente spinto ad attivare a casa una riflessione intesa non come semplice ripensamento, ma come vera e propria integrazione dei contenuti, dovendo andare a informarsi su tutto o almeno gran parte di ciò che è stato rievocato, e che ha il suo fulcro nei primi anni ’90, tra le grandi stragi di mafia e il battesimo politico di Forza Italia. Una scommessa audace che salda l’audacia del tema scelto con quella di un linguaggio inconsueto: un doppio percorso di ricerca che fa di questo progetto la scommessa più estrema e suggestiva, e forse dagli esiti meno scontati.

Miriam Selima Fieno, “From Syria: Is This a Child?”

Un ultimo progetto avvicina la questione della memoria storica al presente, affrontando uno dei temi più difficili e complessi da raccontare a un pubblico individuato tra i 10 e i 13 anni: From Syria: Is This a Child? di Miriam Selima Fieno. Si tratta di un vero e proprio documentario sulla guerra in Siria, in cui il teatro documento, l’inchiesta, la testimonianza diretta, i video (probabilmente anche in sessioni live con il Paese mediorientale, come sarebbe intenzione dell’artista) compongono un viaggio di conoscenza dentro il groviglio inestricabile di un conflitto così atroce e, in senso lato, dentro la guerra tout court. La risposta alla domanda se sia possibile raccontare la guerra a un bambino (intendendo non la guerra del passato che si studia a scuola, ma quella attuale, che tocca indirettamente anche le nostre vite, senza censure e metafore che evitino gli aspetti più traumatici) sta nell’individuazione di un linguaggio contemporaneo già abbondantemente usato nel teatro ‘adulto’ (diciamo da Rimini Protokoll in giù), che evita la classica narrazione teatrale per ragazzi, riuscendo così a sottrarsi ai trabocchetti del cliché. La guerra viene raccontata in modo diretto, senza false mediazioni e senza retorica, con un assunto concettuale forte: la guerra non si può edulcorare. Ma il punto di forza sta nell’individuare una figura coetanea di mediazione e testimonianza alla pari col pubblico, che quindi lo possa guidare dall’ignoranza alla conoscenza, con la stessa apparente ingenuità: una bambina di 12 anni, che all’inizio racconta la sua vita quotidiana di europea in un florido tempo di pace, nella quale giace tuttavia il dolore di una guerra familiare che porta alla separazione dei genitori, e che infine approda alla conoscenza di un dolore più grande, attraverso l’amicizia con una giovane profuga siriana. Non c’è il semplice racconto: anche qui vengono portate prove, come oggetti, fotografie, modellini. Tutto è mostrato in nome dell’autenticità, perfino l’amica siriana, che effettivamente entra in scena e, con il suo arrivo, ci porta dentro l’argomento centrale. Tutto è condotto con una ricerca di equilibrio, anche qui, tra storia privata e Storia epocale, e gli spettatori giovanissimi sono invitati a entrare in un mondo traumatico e sconvolgente, insieme alla testimone diretta e insieme alla mediatrice coetanea. Punto d’arrivo, a detta degli autori, è attivare un contatto con i coetanei che vivono la guerra, con la creazione di video di saluti dei giovanissimi spettatori italiani ai ragazzini siriani che hanno visto nei filmati muoversi tra crateri e macerie.

L’identità, le relazioni e la solitudine, le aspettative nella società dell’apparire: quasi tutti i progetti hanno messo al centro l’interrogazione su di sé, perfino quello apparentemente più lontano ed estremo, From Syria: Is This a Child?, ha incardinato l’intera drammaturgia sulla domanda chiave di cui la bambina protagonista è portatrice: “Che adulto vuoi diventare?”. Perché il problema, vedendo complessivamente i 14 finalisti di Scenario Infanzia, anche alla luce di questa domanda, sembra non essere tanto la realtà esterna quanto il nostro atteggiamento verso di essa e quindi il rapporto che vogliamo avere con essa: rapporto che parte necessariamente da un’interrogazione su di sé. La realtà esterna vive in quanto noi stessi siamo disposti a conoscerla, incontrarla, accettarla, modificarla. Ed esserne modificati. Un senso sotterraneo di chiamata di responsabilità, si potrebbe dire, che accomuna giovani artisti e giovanissimi spettatori, forse spingendo l’interpretazione di quel che si è visto al di là delle intenzioni degli autori stessi dei progetti. Eppure, a una visione macroscopica, proprio questo sembra emergere: ripensare sé stessi per interagire con il mondo. La realtà esterna, incarnata dagli altri, è quella che ti aiuta a crescere, come in Oltre qui o Witchy things o Alla ricerca di un lieto fine o Google Boy o Da consumarsi. Che ti pone di fronte a sfide personali importanti sulla percezione di te e di chi ti circonda, come in No words o Sweet Haka o Arturo. Che ti presenta complessità che richiedono reazioni, come in Orsòla o Il vestito nuovo dell’imperatore o Ant’s line o Casa nostra o From Syria. Per non finire come Brigitte, chiusa nel suo lockdown emotivo della memoria, a rievocare una realtà esterna che vive solo nei suoi sogni.

CREDITI
Coppelia Theatre, Witchy Things. Favola multimediale per attori pupazzi e pupazzi attori; drammaturgia, performer, puppets Mariasole Brusa; dramaturg, occhio esterno Jovana Malinaric; tecnico Mattia Fussi. Pars Construens, Ant’s Line. Formiche in fila indiana; idea, drammaturgia e coordinamento scenico Gian Marco Pellecchia, Francesca Miranda Rossi, Carlo Galiero, Carlo Sella; con Gian Marco Pellecchia, Francesca Miranda Rossi, Carlo Sella; scene, costumi e ologrammi video Pars Construens. Aurora Candelli, Oltre qui; di e con Aurora Candelli. Nardinocchi/Matcovich, Arturo; di e con Laura Nardinocchi, Niccolò Matcovich; regia Niccolò Matcovich; scena Marco Guarrera, Claudio Petrucci; illustrazione Virginia Taroni; sound design Dario Costa. Hombre Collettivo, Casa Nostra; di e con Angela Forti; con Agata Garbuio, Riccardo Reina, Aron Tewelde. Compagnia Legàmi, Da consumarsi; soggetto Giorgia Nason; drammaturgia Beatrice Vollaro; occhio esterno Bruno Alves Rigobello; interpreti Giorgia Nason, Beatrice Vollaro; costruzione oggetti Ariane Bothe, Giorgia Nason, Beatrice Vollaro; ricerca documentaria Giorgia Nason Beatrice Vollaro, con il supporto di Home Movies; luci, costumi, scenografia elaborazione video Giorgia Nason Beatrice Vollaro. Nadia Addis, Brigitte e le Petit bal perdu; regia, interprete, marionette e scenografie Nadia Addis. Le Scimmie, Il vestito nuovo dell’imperatore, adattamento teatrale della favola per bambini di Andersen; regia Salvatore Nicolella; adattamento teatrale Ciro Burzo; con Luigi Alessio Adimari, Ciro Burzo, Michele Ferrantino, Salvatore Nicolella; costumi Rachele Nuzzo; tecnica Mario Ascione. Salvatore Cannova – Fenice Teatri, Alla ricerca di un lieto fine; liberamente tratto da Il Topo e la Montagna di Antonio Gramsci; testo e regia Salvatore Cannova; con Martina Cassenti, Martina Consolo, Maria Marra, Lorenzo Randazzo; elementi scenici e costumi Salvatore Cannova; luci Michele Ambrose; canzoni Salvatore Cannova, Federico D’Amore; assistente alla regia Alessandro Accardi; assistente agli elementi scenici Clara De Rose; assistente ai costumi Silvia Di Giovanna; tecnico audio e luci Michele Ambrose. Ortika/Alice Conti, Orsòla e il pesciolino d’oro; ideazione, regia, spazio scenico e marionette Alice Conti; disegno sonoro Dylan Alexander Lorimer; in scena Alice Conti. Simone Mastrocinque, Google Boy; ideazione e regia Simone Mastrocinque; con Simone Mastrocinque, Chiara Mancuso; tecnico del suono Dario Brugnò. Usine Baug, Sweet Haka; da un’idea di Claudia Russo; interpreti Ermanno Pingitore, Claudia Russo; drammaturgia e regia Ermanno Pingitore, Stefano Rocco, Claudia Russo; luci Emanuele Cavalcanti; scenografia Arcangela Varlotta. Miriam Selima Fieno, From Syria: Is This a Child?; da un’idea di Miriam Selima Fieno; con Nicola Di Chio, Miriam Selima Fieno, Giorgia Possekel, Edma Suliman; regia Nicola Di Chio, Miriam Selima Fieno; drammaturgia Miriam Selima Fieno; video dalla Siria Ahamd Samer Salem. Collettivo Lynus, No Words; regia Marco Fragnelli; drammaturgia Sara Culzoni; coreografia Chiara Ameglio; con Chiara Ameglio.

Visti a: Premio Scenario Infanzia 2020 – 8° edizione, Festival Scenario, Bologna, DAMSLab, 3-5 settembre 2020.

Tutte le foto degli spettacoli sono di Malì Erotico.

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