Sonata per voce e rancore

Per 90 minuti la voce del regista scatena un’invettiva contro la troupe e contro la protagonista del suo film precedente: un fiume di parole, mentre scorrono gli scarti di pellicola e di backstage. Un inaudito e inedito atto d’accusa verso l’insensibilità dei suoi compagni di viaggio, un’addolorata confessione privata e una dichiarazione di poetica: è Il peggio di noi, un film straordinario cioè non ordinario in tutti i sensi, un unicum nel cinema, firmato da Corso Salani. Tre anni dopo aver diretto il film Palabras, Salani torna su quell’esperienza accusando tutti coloro che vi hanno lavorato di aver ostacolato le riprese con la loro superficialità e incapacità di comprendere, diventate a tratti supponenza, ostilità, coalizione ‘contro’ il regista. L’esperienza di visione di questo film è spiazzante: la tirata verbale di Salani è a raffica, sono parole vomitate senza prendere fiato, per ben un’ora e mezza, piene di accuse e di risentimento contro un “voi” ripetuto con disprezzo e superiorità da un “io” sofferente e livoroso. Una sonata per voce e rancore, un rap lancinante e straziante che sembra allontanare lo spettatore, quasi respinto da tutte quelle allusioni, a tratti incomprensibili, e che al tempo stesso lo tiene incollato, paralizzato, e infine attonito e amareggiato. Cosa è successo davvero in quelle riprese in Cile? Ma soprattutto: ci interessa davvero? E piuttosto: cosa è successo in noi in questi 90 minuti?

Il peggio di noi inizia con le immagini del provino di Paloma Calle, la giovane attrice spagnola con cui Corso Salani aveva appena realizzato Corrispondenze private, riconoscendola come l’attrice ideale di riferimento del suo cinema, perlomeno in questi anni. Adesso, in vista delle riprese del nuovo Palabras, Paloma si presta a un veloce provino. La vediamo entrare in una stanzetta, dove sono ad aspettarla Salani e uno della troupe. Saluta, si siede, scambia due parole e legge qualche battuta del copione azzardando un’interpretazione. Ed è sulle sue parole che inizia il monologo di Salani, che durerà senza alcuna pausa fino alla fine del film. La sua voce off accompagna le immagini di backstage di Palabras, che poi fu effettivamente realizzato nel 2003: si vedono sopralluoghi, ciak, scarti di pellicola, e tantissimi primissimi piani di Paloma durante la lavorazione del film, avvenuta in Cile con una piccolissima troupe e un ridotto numero di attori. E’ l’identità autorale di Salani: ogni film è un viaggio in orizzonti lontani, ogni prova cinematografica è esperienza di un altrove, che si accompagna a un viaggio interiore e che ha come guida una figura femminile, il cui volto delicato e pulito nasconde la promessa di emozioni profonde e complesse. Storie intime di sentimenti e orizzonti geografici e umani “di confine”, perché il viaggio è contemporaneamente fuori dal proprio paese e dentro il proprio cuore. E a tutto questo si aggiunge un linguaggio cinematografico personale, per cui si ingarbugliano i piani narrativi di trame apparentemente semplificate, quasi banali e ‘inutili’ da raccontare, insieme a processi dove la finzione e la realtà si rincorrono lasciando spesso incerti, approdando a un’imprevedibile area grigia dove la fiction e il documentario, il dramma e l’autobiografia, tutto si confonde, anche grazie all’imprevedibile rapporto tra una narrazione complessa e un esibito semplicismo tecnico che ha una funzione di depistaggio: ti sembra di assistere al piccolo film low budget di un regista amatoriale, e non ti accorgi che dentro quel che vedi ci sono architetture complesse e trabocchetti concettuali che neanche Nolan… Anche Palabras entra in questo grande affresco oltre i confini e dentro il cuore che è la cinematografia di Salani: qui si racconta l’amore di un ingegnere italiano (interpretato dallo stesso Salani) e di un’ecologista locale durante la costruzione di una diga in Cile. Il peggio di noi, realizzato tre anni dopo Palabras, è dunque il racconto del disagio del regista nei confronti della troupe e delle sue “usanze da filodrammatica” che, con il suo comportamento, ha influenzato la protagonista allontandola emotivamente dal regista, che ora prova delusione nei suoi confronti e disamore.

Corso Salani ci ha abituati ai trabocchetti, dallo pseudo-documentario Gli occhi stanchi del 1996 fatto per raccontare il ritorno di una giovane polacca nella sua terra, allo pseudo-documentario Imatra del 2007 dove ritroviamo come protagonista Paloma Calle, stavolta in viaggio in Finlandia. Proprio quella Paloma contro la quale aveva inveito spietatamente l’anno prima nel film Il peggio di noi. I trabocchetti, appunto.
L’inizio del film Il peggio di noi è scandito dalla canzone di Charles Aznavour Orphelin de toi (Orfano di te): “Je n’ai rien en tête que toi nuit et jour (…) Tout me semble hostile, ligué contre moi” (Non ho niente in mente se non te notte e giorno (…) Tutto mi sembra ostile, alleato contro di me). E’ il racconto di un’ossessione, di un abbandono, una canzone d’amore, non di guerra. Al centro del film, dunque, non sta il risentimento per un’esperienza professionale andata male, in particolare con la troupe che è al centro dell’invettiva, ma la protagonista, Paloma. Il peggio di noi sembra essere il tassello più sottile di un ritratto sentimentale di Paloma iniziato due film prima e che proseguirà ancora successivamente. Ma attenzione: l’amore che Salani ostenta smaccatamente per le protagoniste di tutti i suoi film è precisamente quello di un autore per una creatura, per la sua proiezione ideale: Paloma, come tutte le altre, è reincarnazione della Beatrice dantesca, oggetto di un amore che spalanca significati che vanno oltre il romanticismo o l’erotismo ed è sempre, piuttosto, viatico di rivelazione. Il peggio di noi racconta, insomma, una storia d’amore come sono tutte le “storie d’amore” di Salani con i suoi personaggi, perché Paloma, qui, è personaggio. Assistere a questo film, in altre parole, è come seguire un plot raccontato tutto da una sola voce, ma con tanto di personaggi, azioni, evoluzioni della trama… un vero e proprio film drammatico sentimentale sotto forma di documento-invettiva. La rabbia esibita coram populo dal regista monologante, inerme e armato al tempo stesso, è insomma chiave retorica per un raffinatissimo e originalissimo racconto. Forse Il peggio di noi rappresenta – tra i tanti viaggi cinematografici di Salani nei paesi geograficamente più lontani – il viaggio nei territori più lontani, sconosciuti e indicibili.

Il flusso verbale che toglie fiato a chi lo recita, ma anche a chi ascolta, è detto con voce piana e incalzante, con quell’accento fiorentino che sembra neutralizzare e ‘quotidianizzare’ la violenza delle parole, e intanto la rafforza proprio grazie alla naturalezza esibita. Il flusso è una litania, un vomito profano in forma di preghiera religiosa. Ha il sapore biblico dei grandi libri profetici, di Isaia che si scaglia contro il popolo che ha tradito Dio. Ha il sapore epico dei grandi poemi classici, dell’Iliade che si apre con l’ira funesta di Achille. Ha il sapore delle ispirate invettive di Dante, quando si scaglia nel Paradiso contro “Quelli ch’usurpa in terra il luogo mio, / il luogo mio, il luogo mio che vaca / ne la presenza del Figliuol di Dio”, con un’iterazione de “il luogo mio” che amplifica la rabbia e la trasporta a un livello di insostenibilità e assolutezza, proprio come dice Salani, quando s’accanisce contro la troupe ripetendo “la mia attrice, la mia attrice, la mia attrice” o in molti altri momenti dove la retorica dell’iterazione sottolinea passaggi-chiave del discorso. Il peggio di noi è un esercizio di stile sulla recriminazione rancorosa, alla scuola di Isaia, Omero, Dante… E allora l’insistenza con cui ci viene mostrato il ciak con la scritta “palabras” (parole) sembra andare oltre il semplice rimando al film e sottolineare semmai ironicamente la volatilità di quelle palabras che inondano Il peggio di noi. I trabocchetti, appunto.

Del resto, le immagini che vediamo sono di per sé un elemento di ironia, cioè di distacco e messa in crisi, rispetto alle parole dette. I vasti orizzonti della piana cilena cozzano contro il discorso intimo di Salani, fatto a un microfono palesemente domestico: e te lo immagini chiuso in una stanza a registrare quelle parole mentre sullo schermo scorrono i paesaggi sudamericani ripresi tre anni prima. La distanza temporale (il rancore cresce con il passare del tempo, si sa), la distanza geografica e anche la distanza evocativa tra la raffica delle parole nel chiuso della stanza, e ambienti da un leggendario altrove che riaffiorano come da una memoria incancellabile. Sono immagini apparentemente casuali, accumulate come dimostrazione di quanto Salani sta dicendo, come se ci volesse esibire delle prove del ‘tradimento’ subito; inutilmente, visto che le prove sono quelle che lui stesso racconta accusando i suoi interlocutori di questo e di quello, facendo allusioni a episodi che ci arrivano solo a frammenti. Ed è interessante che da queste immagini proprio lui sia assente. Si intravede qualcuno della troupe, le location, gli attori e soprattutto lei, la vera protagonista del film. Ma Salani non c’è. Anzi sì. E non a caso. Perché lui compare per pochi secondi all’inizio del film, nella scena del provino, prima che parta il suo monologo. Lo si vede accogliere Paloma e invitarla a sedere. Ma non è il Salani reale: è solo l’immagine riflessa in uno specchio. I trabocchetti, appunto…
E poi lo si vede, finalmente, sia pure solo per dettagli (un frammento del capo, del braccio, del corpo, della pelle, come se di lui fossero rimasti solo frammenti di un dilaniamento) e solo in una scena, verso la fine, quando ormai l’invettiva è passata dalla troupe alla stessa Paloma, rea di aver fatto comunella con gli altri, senza professionalità e senza vera adesione alle richieste del regista, e quindi colpevole di aver rifiutato il suo amore di creatore che dà vita a una creatura a cui chiede totale dedizione. E non a caso, proprio mentre il testo si proietta in questo straziante e accorato sentiero di delusione rabbiosa, ecco i pezzi non ricomposti di Salani sullo schermo: stanno nella scena in cui lui e lei (Paloma) sono a letto nella notte d’amore dei loro personaggi in un ciak di Palabras. I trabocchetti, appunto.

“Per me i film sono la vita che ho scelto,  – dice la voce addolorata ma ferma di Salani – voi non ve lo potete immaginare quanto costi, quanto mi costi girare anche una singola scena, un singolo fotogramma, tutto quello che c’è dietro, tutte le rinunce che faccio volentieri, tutta la vita che preferisco non vivere perché tanto posso vivere quello che metto nei film. Io il film lo penso e prima ho già vissuto tutto, quindi lo devo osservare, pensare, ricordare, modificare, mettere in scena, poi devo trovare il modo di farlo, poi lo devo realizzare, lo devo finire. Voi vi limitate a durare fatica, se poi la durate, per un breve periodo, per qualcosa che avete scelto di fare, tutti, in posti dove non siete mai stati e dove molto difficilmente avrete modo di tornare: un breve periodo della vostra vita che non avreste vissuto se io non vi avessi chiesto di viverlo e se voi non aveste accettato di viverlo, pieni di entusiasmo, di attesa, di convinzione, e vi permettete di essere stanchi, a volte di essere distratti, vi permettete di avere bisogno di smettere di pensare a quello che state facendo, parole vostre. Vi scordate tanto facilmente che è l’unico motivo per cui siete lì in quel momento”. Le parole di Salani sono come lame affilate. Hanno il sapore della rabbia di un animale ferito e ringhioso, ma anche la solennità di un Creatore che chiede adesione alle sue creature, magari di un dio disposto a sacrificarsi per esse: “Io le avrei dato la vita se solo l’avesse chiesta”, perché “per me l’attrice è tutto il film”.

Il discorso, come si intuisce, non è quindi mera questione di aneddotica, ma un affondo ben più complesso e concettuale e arriva a lambire la dichiarazione di poetica, come tanti altri film metacinematografici che – raccontando le complicate dinamiche e relazioni interne a quel microcosmo che è la troupe di un film durante la lavorazione – ne rivelano difetti e piccolezze e al tempo stesso lampi di folgorazione sull’arte che ne sta alla base, da Effetto notte di Truffaut a Attenzione alla puttana santa di Fassbinder (ma l’elenco sarebbe lunghissimo). Non è casuale che, al contrario di pressoché qualsiasi altro film, Il peggio di noi non abbia cartelli di testa o di coda, se non il semplice titolo. Cosa che fa capire come tutto sia responsabilità di Corso Salani: sceneggiatura, regia, interpretazione, produzione e postproduzione. Nell’opposizione enfatizzata dell’io contro il voi, è inevitabile che tutto adesso debba essere responsabilità di quel singolo io, e che quindi Il peggio di noi sia al tempo stesso enunciazione della solitudine dell’artista e della sofferenza della creazione, ma anche dichiarazione di poetica. Non si tratta soltanto di raccontare la distanza tra il carico personale dell’artista e la superficialità di chi lo circonda senza capire il suo investimento intellettuale ed emotivo, ma anche di portare a galla il senso e il modo di fare arte. Quel “per me i film sono la vita che ho scelto”, precedentemente citato, è potentissimo. Così come potente è la citazione dei pettegolezzi critici che circondano il suo lavoro, cogliendone sì il senso concettuale, ma come per sminuirlo, quando Salani ricorda appassionatamente che gli altri dicono “che io non riesco a distinguere mai fra il film e la vita, fra il film e la vita, fra la vita e il film, fra la vita e il film, che ho questo problema, che questa è la causa di tutti i mali, la madre di tutte le disperazioni, che ho sempre fatto così”. Le frasi si rincorrono e si contraddicono, ma tutte concorrono a una vera costruzione di poetica: “tante volte vale più un sentimento che ci è toccato recitare che uno realmente provato”. Qual è il cinema di Corso Salani?

Alla fine del film Il peggio di noi non è importante sapere cosa sia esattamente successo, e se sia successo veramente, perlomeno come viene raccontato. L’importante è abbandonarsi al torrente in piena delle parole di Salani che cozza contro gli argini delle immagini, lasciarsi andare, far crescere lo stordimento per questo poema del rancore, infernale e salvifico al tempo stesso, trascendere dai fatti per attingere ai sensi nascosti, abbandonare il significato spicciolo delle parole per ascoltare le emozioni. Il peggio di noi è un racconto intimo che, per rivoli carsici, arriva a toccare chiunque: alla fine, qual è il peggio di noi, di noi che abbiamo ascoltato? Perché nel risentimento di Salani per la sua troupe insensibile finisce per rispecchiarsi il livore delle nostre solitudini e delle amicizie tradite o incomprese: quale peggio di noi spettatori è emerso in questi 90 minuti?
Il film si conclude con immagini sempre più calzanti e incalzanti: lui e lei a letto, lei che piange… E infine, un lunghissimo piano sequenza: ben 5 minuti in cui la macchina da presa avanza su un’automobile lungo una strada lavica nell’altopiano cileno, dove si vedono solo il deserto e massi grigi, come le “macerie” delle relazioni umane di cui il testo sta parlando ora. Un piano sequenza che avanza su una strada, proprio come nel migliore happy end chapliniano, ma in questa strada non ci sono figure umane, non c’è un orizzonte pulito, c’è solo il nulla. Arrivano le ultime parole di Salani: “dopo non c’è più stato niente”. Poi il silenzio, come se il fiume del dolore e della rabbia, della memoria e dell’amore, sputato voracemente come nel beckettiano Non io, si sia inaridito improvvisamente. E la sequenza prosegue ancora per due minuti senza più voce e senza più rancore, mentre si sente nuovamente, a chiudere ciclicamente il film, la canzone di Aznavour: “Je suis dans l’impasse, reviens sans détour / Calmer mes angoisses, combler mon amour…” (Sono nello stallo, ritorna subito / per calmare le mie angosce, per riempire il mio amore). Finisce la canzone, e il cupo rumore del motore dell’automobile accompagna ancora l’avanzamento verso il nulla, fino al buio. Perché anche al peggio c’è fine. Cosa abbiamo visto?

Il peggio di noi (Italia 2006), scritto, montato, diretto, prodotto da Corso Salani.

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