
Pochi scrittori del 900 come Pasolini e Mishima hanno saputo marcare la loro presenza proclamando con forza il richiamo al passato in un’epoca di slancio estremo verso il futuro in nome dello “sviluppo”. Con tutti gli equivoci, le contraddizioni e le differenze del caso, beninteso. E’ facile elencare i mille punti in cui divergono le strade dei due intellettuali (cosa che qui non affronto, e che ovviamente ho ben presente), ma qui vorrei evidenziare i punti di contatto, che emergono ancor prima di loro, nella storia di due paesi usciti perdenti dalla guerra mondiale. L’analogo cammino di Pasolini e Mishima, insomma, parte da un contesto storico e sociale simile, più che da elementi biografici o poetiche ricorrenti. E il loro essere “una forza del Passato”, e per questo visti con sospetto o sufficienza dall’intellighenzia coeva, rappresenta tuttora uno spunto di riflessione che va ben al di là di prese di posizione intellettuali e ideologiche o, nel caso di Mishima, addirittura di scelte mortali.
Sfrondato dall’esito eclatante della sua biografia (il seppuku rituale con cui si uccise all’età di 45 anni) e dal suo attivismo paramilitare, e anche dalla sua ‘giapponesità’ (tutti elementi da cui non si può prescindere per un’analisi complessiva, ovviamente), Mishima interroga tutti noi sul senso del passato nell’età moderna, diventando così, proprio come Pasolini, non solo paladino di una consapevole – e nient’affatto retrograda o nostalgica – antimodernità, ma anche e soprattutto spia critica di un’evoluzione universale della civiltà nel momento fatidico di un superamento del punto di non ritorno. Per questa ragione Mishima, come il poeta italiano, sembra incarnare la coscienza rimossa della nostra umanità, a cui s’attaglia perfettamente il disperato messaggio lasciato da Pasolini in calce a un suo disegno poco prima della morte: “Il mondo non mi vuole più e non lo sa”, segno di una sconfitta e di una solitudine nell’oceano di una realtà mutata dopo il “genocidio antropologico” di un’intera civiltà.

Mishima, nato nel 1925, è quasi coetaneo di Pasolini, nato nel 1922: entrambi sono testimoni adolescenti della grande tragedia della guerra e testimoni maturi dell’altra grande tragedia costituita dall’omologazione di massa sancita dall’avvento di modelli di socialità e di consumo avvertiti come “importati” (dall’America, vincitrice bellica e culturale), ed entrambi, a partire dagli anni 60, assumono su di sé il compito di testimoni (sinonimo di “martiri”) della fine della tradizione. Entrambi assistono, senza tacere, allo scempio culturale di due paesi sconfitti in una guerra provocata da quegli stessi paesi, che ora fanno registrare un’evoluzione antropologica sulla base del sistema imposto dal vincitore: sistema di modelli estranei alle proprie radici contadine, che esaltano un egalitarismo non fondato su umanistici diritti individuali ma sull’appagamento consumistico delle masse, tese verso il livellamento borghese che supera la precedente divisione in caste più o meno formalizzate come da tradizione secolare. Entrambi esaltano il passato, non per preservarlo, se non a proclami consapevolmente velleitari, ma per piangerne la fine e mettere in guardia il progresso dai danni causati dallo sradicamento in seguito all’affermazione di una borghesia incolta e consumistica: “Abbiamo veduto il Giappone del dopoguerra rinnegare, per l’ossessione della prosperità economica, i suoi stessi fondamenti, perdere lo spirito nazionale, correre verso il nuovo senza volgersi alla tradizione, piombare in una utilitaristica ipocrisia, sprofondare la sua anima in una condizione di vuoto”, proclama Mishima pochi minuti prima del suicidio.
Entrambi sono inchiodati a un’appartenenza a schieramenti politici che banalizza il loro pensiero (Pasolini ‘di sinistra’, Mishima ‘di destra’) e si incontrano/scontrano con gli studenti del ’68 in due episodi rimasti celebri nelle storie dei rispettivi paesi (e di cui ho parlato pochi giorni fa sempre in questo blog). Entrambi utilizzano le armi stesse del progresso per arrivare al successo del proprio pensiero e, forse anche narcisisticamente, di sé stessi: un uso competente e preciso dei mezzi di comunicazione, una capacità di creare scandalo o spiazzamento attraverso prese di posizione e azioni, un rifiuto a essere irreggimentati in schemi precisi, un’abilità a saltare con coerenza da un linguaggio artistico all’altro, iper-prolifici scrittori e registi, drammaturghi e polemisti, perfino autori di canzoni fino a sconfinare in campi extra-artistici. Entrambi, ognuno a suo modo, gettano il corpo nella lotta, costruendo un proprio ‘personaggio’ attraverso la loro stessa vita, non nascondendo la propria omosessualità (anche se il destino postumo di Mishima, marito e padre, è più simile a un tentativo di “eterosessualizzazione” che lo accomuna semmai a Tondelli), offrendosi entrambi agli sguardi altrui come attori in film e spettacoli e come oggetto di sessioni fotografiche d’artista, arrivando alla fine della loro vita allo straziato disincanto sulle giovani generazioni ormai risucchiate nell’omologazione, il primo con Petrolio e Salò, il film finito poco prima del tragico omicidio avvenuto la notte tra l’1 e il 2 novembre 1975, il secondo con Lo specchio degli inganni, il romanzo finito la mattina del seppuku, il 25 novembre 1970.

Contemporaneamente e in due differenti regioni della Terra emergono quindi due figure analoghe che rappresentano la coscienza critica dei rispettivi paesi, secondo modalità mai verificatesi altrove e in altri momenti, entrambi dentro e contro le proprie epoche e le proprie culture. Eppure non c’è mai stato un incontro fra i due, se non ideale nel loro immediato e documentabile punto di riferimento, Gabriele D’Annunzio. È D’Annunzio infatti l’iniziatore di un modello nuovo di intellettuale per il Novecento: il “vate” supera i precedenti modelli per proporre quello dell’intellettuale che si sporca le mani nell’azione eclatante, cercando lo scandalo e la pubblicità, utilizzando in maniera spregiudicata i mezzi di comunicazione di massa, alternando illuminazione estetica e retorica politica, mescolandole e dando a esse una nuova grammatica, ‘innalzandosi’ nella poesia e ‘abbassandosi’ nel teatro. Se D’Annunzio inventa questo nuovo modello in funzione di un’esaltazione del potere costituito, Pasolini (che, da italiano, è cresciuto negli anni dell’esaltazione retorica fascista e dei suoi modelli) e Mishima (che di D’Annunzio fu traduttore in Giappone) adottano e danno nuova forma e soprattutto nuovi contenuti allo stesso modello per denunciare la nuova forma del potere, anche se – al contrario dello scrittore giapponese – Pasolini è sempre ben attento a rigettare sistematicamente ogni allusione dannunziana avanzata dai detrattori nei suoi confronti, e anzi ne rappresenta la figura concettualmente ed esistenzialmente opposta. Il vitalismo e la retorica interventista di D’Annunzio hanno invece avuto sicuramente presa sullo scrittore giapponese, offrendosi anche come ideale bilanciamento dell’altro grande punto di riferimento, l’amico scrittore Yasunari Kawabata, espressione invece di profondo e mite equilibrio letterario e biografico.
Mi sembra, tuttavia, che il punto di saldatura più calzante per entrambi, perlomeno intellettualmente e per aspetti limitati, possa essere Ezra Pound, per il quale Pasolini avvertiva (non senza un brivido trasgressivo) una certa sintonia. Il richiamo alla tradizione e alla conservazione del mondo pre-borghese, lanciato da Pound, a prescindere dalle sue simpatie fasciste, è per Pasolini un monito imprescindibile nei suoi ultimi anni, al punto da portarlo nel 1967 a incontrare il poeta americano con deferenza (salutandolo con i suoi stessi versi “Vengo a te come un figlio cresciuto”) e a citarlo nelle sue ultime opere, da Salò a La nuova gioventù. E’ forse a Pound che pensa quando nel Volgar’eloquio e nella tragedia Bestia da stile parla di “Destra sublime”: sicuramente una provocazione per un antifascista come lui, ma anche un richiamo spiazzante alla necessità di non disperdere il passato e la tradizione che il “nuovo fascismo”, cioè il consumismo indotto dal capitalismo nella società borghese (e accettato come segno di “sviluppo” anche dalla sinistra), cerca di cancellare.

Non è un caso che per entrambi, Mishima e Pasolini, gli anni 60 siano quelli della grande svolta: perché è in quegli anni che nei rispettivi paesi la grande trasformazione economico-sociale in atto assume i contorni della rivoluzione antropologica, ovvero della rapida estinzione di un mondo plurisecolare a favore di un appiattimento dell’orizzonte culturale, ideale, valoriale. La differenza dei due percorsi è evidente: Pasolini avverte il tramonto dell’Italia umile e contadina, che aveva saputo attraversare le epoche con la permanenza di riti e tradizioni legate alle terra e alla semplice umanità; Mishima avverte il tramonto di un Giappone orgoglioso e nazionalista, fondato sulla tradizione militare e sull’autoisolamento secondo caratteristiche pressoché uniche. Da questo nascono così due percorsi artistici e ideologici diversi e divaricati, ma che non fanno altro che ribadire la comune sensibilità verso la perdita del passato, che per entrambi è sempre stato parte del loro mondo: da Pasolini impegnato nell’ascolto e nella valorizzazione delle lingue e delle culture regionali, in un paese storicamente pluricentrico e frammentato, a Mishima attento a cogliere i nodi del rapporto tra giapponesità e modernità, in un paese storicamente in bilico tra autarchia e scontro con il mondo esterno. La recente pubblicazione della sua opera teatrale Il palazzo del bramito dei cervi, scritta da giovane nel 1956 (ed. Atmosphere Libri, 2019) è esemplare: luogo dell’azione è il mitico Rokumeikan, il palazzo inaugurato nel 1883 dai giapponesi come entusiastico spazio della loro emancipazione in chiave occidentale, e quindi avvertito inevitabilmente come emblema del crollo dei valori nipponici. La “difesa della cultura” giapponese, come si intitola un celebre scritto di Mishima del 1968, diventa ossessiva perché non si limita a considerare gli aspetti culturali e sociali, ma entra nell’intimo sentire dell’individuo, in una sorta di imprescindibilità del singolo nel processo collettivo (cosa, peraltro, molto giapponese in generale): “sono nato e morirò così. Non voglio essere altro che giapponese”, dichiara agli studenti internazionalisti di Zenkyoto.
Eppure, non è così semplice. Già Pasolini lo sapeva, esercitando e teorizzando la pratica della contraddizione. Mishima non l’ha teorizzata, ma di sicuro ne era profondamente attraversato. Il lancinante dissidio tra tradizione e modernità attraversava lo scrittore giapponese che più di ogni altro aveva saputo gestire il suo rapporto con la modernità, il primo – come Pasolini in Italia – a prendere in mano con spregiudicatezza le potenzialità di una realtà letteraria totalmente mutata rispetto a quella di pochi decenni prima incarnata da Kawabata, a cominciare dall’agilità ed efficacia nel passaggio da un medium espressivo all’altro, da una prima pagina dei giornali a un’intervista televisiva, davvero come pochi altri. Paradossalmente, i due campioni dell’antimodernità sono stati il paradigma seminale dell’intellettuale moderno. Sia pure con contraddizioni irrisolvibili. Che dire di un Mishima, nutrito fin dall’adolescenza – anzi, folgorato – dalla letteratura occidentale (da Wilde a Cocteau a Radiguet, le prime letture) che poi avrebbe saputo piegare in uno straordinario sincretismo all’interno di un orizzonte letterario e antropologico nipponico? Che dire dell’immagine più iconica del suo universo, il San Sebastiano di Guido Reni, che gli valse la prima masturbazione e che racchiude in sé il senso romantico-decadentista della voluttà della morte, una morte atroce e radiosa, intimamente connessa con l’erotismo?

Alberto Moravia, che in viaggio in Giappone lo andò a trovare, ha parlato della casa di Mishima in stile occidentale quasi liberty (quasi un Rokumeikan domestico?), e ha raccontato di quando sulla soglia provò a togliersi le scarpe come d’uso in Giappone, e Mishima lo invitò a entrare nella sua casa con le scarpe, non come segno di ospitalità ma per marcare la differenza rispetto alle case tradizionali. Insomma, l’amore per il passato, così come in Pasolini, è ben lontano dallo scimmiottamento del passato, e viene assunto, con tutte le contraddizioni del caso, all’interno di una complessità della modernità, che porta a petizioni di principio senza soluzione realistica. Lo sapeva bene Mishima, che nel suo amato livre de chevet, il trattatello tardo-secentesco Hagakure, poteva leggere sentenze come “è inutile tentar di rendere l’età presente simile ai bei tempi andati di cent’anni fa”. E lo sapeva probabilmente anche pianificando la sua morte, preparandosi perfettamente al seppuku e al tempo stesso lasciando a casa un biglietto con le parole “La vita umana è breve, ma io vorrei vivere per sempre”. La spasmodica voluttà della morte, del “luogo del nulla, ove ogni ricordo è cancellato” (epilogo del già citato Specchio degli inganni, finito di scrivere la notte prima del suicidio), che è indubbiamente centrale, anzi fondante in Mishima, è dunque necessariamente temperata da un vitalismo estremo, in una contraddizione lancinante: diversa declinazione della “disperata vitalità” di Pasolini.
Da qui, da questa straziante doppia tensione tra vita e morte, prende forma la scrittura e in definitiva la vita stessa di Mishima, non dalla semplice ossessione della morte, che – esasperata nella lettura occidentale delle sue parole (a cominciare dal peraltro splendido saggio di Marguerite Yourcenar sulla Visione del vuoto) – è elemento culturale che nell’antropologia giapponese appartiene alla quotidianità molto più di quanto non accada in Occidente. Se Pasolini, nella relativistica cultura occidentale può affermare genialmente e ironicamente che “Essere vivi o essere morti è la stessa cosa” (La terra vista dalla luna), Mishima, radicato in una cultura assoluta ed estrema come quella da cui proviene, non può che ricorrere alla morte come misura della vita, in un’evidente opposizione che è però anche complementarità indissolubile.
Pasolini e Mishima dialogano alla lontana, e in alcuni momenti il loro pensiero risuona con un’unica voce, prima di procedere su strade divergenti, la mite e lucida testimonianza di uno contro la vigorosa vis militarista e muscolare dell’altro. Il comune culto del corpo, avvertito in entrambi nella sua bellezza e caducità, si fonde con l’altrettanto comune culto della parola, mimetica della realtà per Pasolini, o proiettata verso il sublime per Mishima. Il quale, pochi mesi prima della morte, per la mostra che doveva celebrarlo, descrive sé stesso in quattro “fiumi” (e si noti l’immagine, impetuosa e poetica al tempo stesso): da una parte il fiume della Prosa e quello del Teatro, dall’altra il fiume del Corpo e quello dell’Azione. Corpo e parola, concetto e azione si rimandano a vicenda, e d’altra parte “Ogni pensiero è valido solo se si traduce in azione”, come si legge in Cavalli in fuga. Per entrambi la propria voce, il proprio corpo, le proprie azioni hanno finito per diventare parte integrante e imprescindibile della loro opera: corpus letterario e corpo materiale, legati a doppia mandata, dalle pagine ai film, dalle interviste alle fotografie (emblematiche le serie in cui li vediamo entrambi nudi attraverso l’obiettivo di Dino Pedriali e Kishin Shinoyama). La lucidità dei due intellettuali su questo punto è fortissima: loro riescono a essere protagonisti della loro vita così come dell’ambiente culturale dei loro paesi, perché hanno una straordinaria lucidità su sé stessi, implacabile, nella discesa in profondità dentro le proprie contraddizioni e al tempo stesso nella costruzione di sé. Come ha scritto l’amico biografo Henry Scott Stokes, “Quasi tutti vedono gli altri con sufficiente chiarezza, ma non sé stessi. Nel caso di Mishima era il contrario. Lui era il suo argomento principale”.

In questo senso non è un caso che Pasolini e Mishima compaiano nei loro stessi film come personaggi allusivamente autobiografici. Il primo, che già aveva recitato sullo schermo in due film diretti da Carlo Lizzani, compare nelle vesti di un pittore e poi dello scrittore Chaucer nel Decameron e nei Racconti di Canterbury, saldando l’evocazione storica con la propria condizione di artista e osservatore del suo secolo, e dunque assumendo su di sé il compito di reincarnare la funzione che nel XIV secolo assolvevano i personaggi intellettuali dei suoi film. Mishima, che già aveva recitato in altri film (addirittura come protagonista in Karakkaze yarô di Yasuzo Masumura nei panni di un esponente della yakuza), è protagonista del mediometraggio Patriottismo, da lui diretto con Masaki Domoto, per saldare ulteriormente l’evocazione storica di quel film con la propria biografia. Patriottismo, infatti, è tratto da un suo racconto esemplare, in cui rievoca il suicidio rituale di uno dei congiurati del fallito colpo di stato del febbraio 1936, sostenuto dai giovani ufficiali in chiave nazionalista, imperialista, militarista e antioccidentale. Il film, fortemente estetizzante, porta in primo piano un Mishima intensamente calato nel ruolo del fedelissimo all’Imperatore, che affronta con lucidità il seppuku, offrendo il suo corpo allo sguardo sensuale della macchina da presa e alla lama che lo trafiggerà (in una stupefacente anticipazione, come tutti hanno sottolineato con il senno di poi, della sua stessa morte quattro anni dopo).
E’ proprio grazie a questa lucidità autobiografistica che Mishima e Pasolini riescono a cogliere snodi inediti. Si pensi al rapporto padri-figli (forse anche per la comunanza biografica di figli di padri arroganti, fascisti e radicalmente contrari alle loro personalità poetiche), che diventa eclatante anche nei rispettivi rapporti con il movimento studentesco del 1968/69. L’equilibrio dei rapporti familiari, che per esempio in Pasolini arriva all’apice nell’opera teatrale Affabulazione con il padre che desidera essere ucciso dal figlio e lo uccide, sembra echeggiare nella citata opera teatrale Il palazzo del bramito dei cervi, in cui si assiste a un analogo epilogo tragico sostenuto dai desideri intrecciati tra padre e figlio (con il primo che, anche qui, uccide il secondo). Si pensi anche al rapporto con l’altro genere, intriso di un’atavica visione subordinata o ‘laterale’ della donna, sia pure con aspetti che solo un’ottusa applicazione del contemporaneo “politicamente corretto”, astoricamente applicato, potrebbero davvero essere considerati maschilisti come li intendiamo noi oggi. Ma come non trovare un qualche rispecchiamento tra Pasolini che parla di “falsa tolleranza” nel rapporto tra i generi, e che negli Scritti corsari denuncia la “libertà sessuale ‘regalata’ dal potere” che rispecchia il “conformismo della maggioranza”, e Mishima che negli Esercizi spirituali per giovani samurai denuncia: “I rapporti tra l’uomo e la donna, a causa dell’influenza americana, sono diventati artificiosamente paritari, e si manifestano in una reciproca e assolutamente disinibita espressione dei propri sentimenti amorosi”? E d’altra parte l’attitudine verso una certa immagine della donna sembra risuonare in entrambi, toccati di fronte al suicidio di Marilyn Monroe, “sorellina” per Pasolini (“La tua bellezza sopravvissuta dal mondo antico, / richiesta dal mondo futuro, / posseduta dal mondo presente, / divenne un male mortale”), così come “splendida donna la cui immagine fisica fu brutalmente venduta senza alcun riguardo per il suo spirito” per Mishima.

Ancora in entrambi senti risuonare strane consonanze, dai poliziotti “figli di contadini” descritti da Pasolini agli studenti del ’68 al “poliziotto figlio di contadino” a cui Mishima accenna parlando agli studenti del ’69. Il sentimento verso i giovani, nutrito in entrambi da quella sensibilità omosessuale che li portava ad avere un feeling speciale con i ragazzi, un sentimento misto di attrazione e capacità di introspezione psicologica generazionale, arriva a grandi intuizioni, che nel mite Pasolini significa una straordinaria capacità di osservazione, dialogo e coinvolgimento, intellettuale e poetico al tempo stesso, e che in Mishima diventa leva per il reclutamento di ventenni nella sua organizzazione paramilitare Associazione degli Scudi. Ma, per entrambi, è potentissimo proprio il valore emozionale e sentimentale, che arriva a momenti struggenti come quando Mishima racconta dello studente che, dopo un’esercitazione militare sulle montagne, “trasse un flauto traverso da un’elegante custodia a forma di sacco (…) vibrarono le prime note del flauto. Era una melodia antica, malinconica ed incantevole, una musica che evocava l’immagine di un campo autunnale cosparso di brina. (…) Ascoltando rapito il suono di quel flauto, ebbi l’impressione che il Giappone del dopoguerra non fosse mai esistito”. Un’immagine che al lettore pasoliniano non può non ricordare il ragazzo che in Bestia da stile compare “cantando nella ghitarra” in “una notte / non destinata a essere dormita”, anch’egli sulle montagne, dopo un’altra azione militare, questa volta partigiana.
Lo stesso rapporto con il teatro vede molti punti di incontro tra Mishima e Pasolini, magari sulla scorta dell’amato (da entrambi) Racine: “Il mio ideale drammaturgico è una tragedia politica come il Britannicus di Racine, in cui il sangue viene lavato con il sangue, in eleganti versi alessandrini”, scrive Mishima, che proprio dopo aver tradotto quell’opera in giapponese per farla rappresentare volle addirittura entrare in scena come comparsa nelle vesti di un soldato, per sottolinearne la sua adesione. I drammi Madame de Sade e Il mio amico Hitler, composti proprio nello stesso periodo di scrittura delle tragedie pasoliniane, tra il 1965 e il 1968, intrecciano tragedia politica, sangue e recitazione in versi. Nei due capolavori drammaturgici di Mishima è la parola stessa, è la schermaglia verbale a costituire l’azione rappresentata, mentre le azioni della storia sono relegate in un altrove fuori scena, costituendo della scena il presupposto ma anche l’elemento distruttore, proprio come nelle 6 tragedie di Pasolini: la prigionia del marchese è condizione scatenante dei duelli verbali delle donne di Madame de Sade, ma d’altro canto è l’incipiente superamento di questa condizione, e cioè l’annuncio dell’arrivo del marchese, a far cessare il dramma; così come nel Mio amico Hitler la dialettica politica dei personaggi ha il sapore di mere disquisizioni accademiche, mentre le premesse e i frutti di quelle disquisizioni si traducono, fuori dal salotto del Führer, in azioni devastanti.
Poi, come in una tragedia ben poco raciniana, venne la fine, e un suicidio e un omicidio, a distanza di pochi anni, fermarono per sempre quelle voci, lasciando che le loro parole e i loro corpi – ormai iconici – continuassero a instillare pensieri e dubbi. Soprattutto pensando alle parole dei loro ultimi anni: “In questo momento sono apocalittico. Vedo di fronte a me un mondo doloroso e sempre più brutto. Non ho speranze. Quindi non mi disegno nemmeno un mondo futuro” (Pasolini, 1971); e “In questi venticinque anni ho perso ad una ad una tutte le mie speranze. Non posso continuare a nutrire speranze per il Giappone futuro” (Mishima, articolo pubblicato il 7 luglio 1970, tre mesi prima della morte).
