
Leo de Berardinis ha costellato il suo percorso teatrale con ricorrenti spettacoli da solo in scena. E’ difficile definirli semplicemente monologhi, così come è difficile parlare di “solo”, quando il termine rimanda a una condizione di solitudine o solitarietà, che nel suo caso suona incongrua. A prescindere dal naturale coinvolgimento di altre figure nella creazione o dall’affiancamento di un musicista, i suoi “soli” avevano la forza di un sole al centro del sistema planetario e il fervore poetico-esistenziale di una “sola moltitudine”. Non tanto perché questi lavori fossero antologie di autori vari, ma perché Leo quegli autori li incarnava, li riviveva, li faceva rinascere attraverso il suo corpo d’attore, che nel suo essere Leo era al tempo stesso anche tutti gli autori e i personaggi a cui dava voce; e questo non per un semplice meccanismo di interpretazione recitativa, ma per una ben più profonda e necessitata riattivazione, dal sapore illuministicamente medianico.
Il nodo di questa particolarità si è mostrato nel lavoro di ricerca svolto all’Archivio Leo de Berardinis, conservato al Dipartimento delle Arti dell’Università di Bologna, dove si trovano tra i tantissimi materiali anche molte tracce del suo lavoro drammaturgico sui monologhi (che ho approfondito nel recente numero di “Culture Teatrali” su Leo de Berardinis oggi, a cura di Laura Mariani e Cristina Valenti).

Negli spettacoli “solitari” di Leo la scrittura corrisponde a un collage di vari testi, originali o recuperati, che vengono assemblati in modounitario, secondo una pratica che sta al crocevia tra certa avanguardia artistica storica, la Dramaturgie teatrale, l’amata jam session jazzistica, e infine il cinema, che ha nel montaggio il suo momento creativo per eccellenza. I testi stessi di Dante e Joyce, Omero e Ginsberg, costituiscono veri e propri oggetti ready-made che Leo descrive come una “mappa che i grandi maestri ci hanno messo a disposizione”, nella quale addentrarsi per tracciare un percorso personale e ricomporre quelle parole secondo un disegno nuovo, in equilibrio tra rispetto del testo e suo sfruttamento per un altro fine.
Si tratta di un’operazione che va ben oltre il semplice collage. Nel momento in cui prende i brani che lo interessano, questi cessano di provenire da un’altra penna e diventano di Leo. Nei suoi quaderni preparatori, Leo ricopia a mano decine di pagine dalla Commedia, dall’Odissea o da Finnegans Wake: una pratica che sarebbe razionalmente superflua, vista la presenza anche di numerose fotocopie di quei testi, che invece rivela il processo di elaborazione dell’artista, con la trasformazione di quelle parole altrui in parole proprie. Trascrivendo lunghissimi brani testuali di Dante, Omero e Joyce, Leo diventa Dante, Omero e Joyce, e quei brani, facendoli scaturire come fosse la prima volta dalla sua penna, diventano suoi.
Nell’introduzione scritta per un libro di Enzo Moscato, Leo accenna al processo di creazione teatrale come a un “acquietarsi dell’ansia” che consiste “nel dire o pensare forti intuizioni di poeti condivisi e scandalosi”; ed è come se parlasse di sé, ossia della sua ricerca di parole che arrivano da lontano per rinascere nel pensiero e nella voce di Leo, che le fa proprie perché sono esattamente le parole che aveva già dentro di sé.

In Dante Alighieri – studi e variazioni (1984) Leo riprende il poema che rappresenta per lui un compagno essenziale del suo percorso, già attraversato pochi anni prima con Perla Peragallo in XXXIII Paradiso. Non si tratta per Leo di selezionare brani da portare in scena, ma di tradurrre in teatro un’eredità poetica e verbale già interiorizzata. Nel lavoro di riscrittura recupera anche altri testi, danteschi e non, per rendere più evidente il senso del titolo: un invito ad ascoltare Dante non solo attraverso le sue parole, ma anche attraverso lo studio e i rimandi, da Virgilio al Roman de la Rose fino a Joyce (che aveva incontrato l’anno prima nel monologo Kiat’amore). L’obiettivo è evitare l’effetto recital e al tempo stesso riconsegnare allo spettatore la complessità del pensiero dantesco, offrendo un percorso critico-esegetico che, facendo perno sulla Commedia, comprenda il frastagliato arcipelago del corpus dantesco e perfino delle sue fonti, nello spirito di quel teatro di conoscenza che era uno dei fulcri della sua urgenza artistica, per la quale la poesia e il teatro devono innescare un processo conoscitivo.
La breve parte joyciana viene ricucita da Leo in un filo “narrativo” che si conclude con l’imprevedibile aggiunta in coda delle parole iniziali di Finnegans Wake, quindi finendo là dove Joyce aveva iniziato: “fluidofiume oltre Adamo ed Eva”, espressione ossessiva che trascinerà fino al titolo del suo ultimo spettacolo. Insomma, grazie a Dante affiora in modo sempre più denso il ruolo dell’autore irlandese, che, dopo un confronto teatrale con il Cantico dei Cantici (1985), diventa protagonista nel successivo Il ritorno, riflessi da Omero-Joyce (1986). La sola moltitudine delle tante voci letterarie sembra arrivare a una saturazione da cui Leo esce con il successivo L’uomo capovolto, di cui è totalmente autore (a parte alcune signifcative inserzioni: Rosa Luxemburg e Sofocle), anche se manifesta un processo di organizzazione della scrittura in continuità con i precedenti. Il testo è scritto in forma poetica, giustificata a causa della sua maggior vicinanza con il ritmo teatrale, ma in realtà è come se, dopo l’intenso e ininterrotto dialogo con Dante, Omero o la scrittura biblica, Leo abbia deciso di assimilare le proprie parole ai poeti “condivisi e scandalosi” che ne accompagnano la riflessione, e ai quali di lì a pochissimo si aggiungerà Leopardi con Il fiore del deserto (1988).

Leo ritorna all’assemblaggio più puro nell’esemplare Lo spazio della memoria (1991), dove ancora una volta vengono riattivate le parole di Dante, insieme a quelle di Ginsberg e Pasolini. Esemplare anche perché l’opera è strettamente connessa alla presenza di un musicista in scena, Steve Lacy, che funziona al tempo stesso da raddoppio della solitarietà attorale di Leo e da interlocutore attivo, in una sorta di micro-comunità artistica e umana, che rafforza anziché disperdere il senso unitario e artistico degli spettacoli da solo.
I monologhi di Leo, visti anche attraverso il suo cantiere drammaturgico, sono i momenti forse più alti del suo impegno di artista, perché mettono a nudo il dialogo febbrile e rivelatore con i poeti “condivisi e scandalosi”, sia nel rigoroso lavoro testuale, sia – sulla scena – nella totale esposizione del suo corpo, inerme e assoluto al tempo stesso, fragile perché portatore della debolezza dell’essere umano che rappresenta, e orgogliosamente egocentrico in quanto racchiude in sé l’universo. Una “eroica” messa a nudo, spesso in compagnia di Dante come emblema massimo del viaggio di un poeta veggente, capace di attingere al sublime e di affondare gli occhi nella melma di una contemporaneità volgare e squallida, sempre in tensione tra le vette della poesia e gli abissi di una certa gestione della politica.

Così, anche se ovviamente non in modo volontario, è proprio con un monologo che Leo si congeda dal teatro: Past Eve and Adam’s (2000). L’intero testo è una summa e compendio dell’ispirazione di Leo, una “mappa che i grandi maestri ci hanno messo a disposizione”, come diceva, per salutare la fine del millennio affacciandosi al nuovo; e infine, col senno di poi, testamento amaramente “perfetto” dell’artista, dove si intrecciano Joyce e Dante, Shakespeare e Rimbaud, Leopardi e Omero, Sofocle e Lucrezio, Pasolini e la Bibbia e i Rig-Veda, senza dimenticare un’altrettanto incalzante selezione di autori musicali che, come sempre nei suoi spettacoli, formano una drammaturgia parallela e integrata rispetto a quella verbale. Il passaggio da un autore all’altro è vertiginoso, febbrile, quasi delirante, eppure nella scrittura uniforme tutto sembra rispondere a un senso unitario, nel quale il sacro e il profano, l’aberrazione e l’estasi trasmutano misteriosamente l’una nell’altra. L’apparente casualità della sequenza risponde a un rigore del tutto musicale: “Io mi considero compositore. Ho veramente la struttura del cervello di un compositore musicale anche se non ho studiato musica”, dichiarava già quindici anni prima. E se l’amore dichiarato per il jazz ne ha accompagnato fin dalle origini il percorso creativo, è forse proprio in quest’ultimo monologo che lo spirito jazz si fa davvero struttura drammaturgica, spezzando nessi logici di connessione, lasciando esclusivamente quelli allusivi a una pura necessità “musicale” ed emotiva che riecheggia il flusso magmatico joyciano. Con un obiettivo assoluto: quello di “un Globe Theatre mentale, per permettere allo spettatore di esplorare nuove ipotesi e di realizzare a sua volta, se lo desidera, diverse connessioni e possibilità: un libero ma non gratuito riassetto del mondo”.

P.S. – Dante, Carmelo e Leo.
Per Carmelo Bene, “monologo è teatro”, come si legge nella Voce di Narciso: la “forma nobile” dell’arte drammatica, che amplifica e al tempo stesso stempera l’ego in un dinamico concentrato fisico-verbale che punta direttamente allo spettatore in un tagliente rapporto a tu per tu. Forse non è un caso che questa ricerca lo unisca a Leo, suo compagno di viaggio agli albori del Nuovo Teatro (anche insieme in scena nel 1968 con Don Chisciotte). L’obiettivo di un dialogo lanciato oltre la quarta parete assume percorsi diversi, a cominciare dal rapporto col testo. Da una parte l’attore Carmelo contamina e corrode il testo, diventandone a sua volta contaminato e corroso; dall’altra Leo, incarnando la dimensione dell’attore come fondamento ontologico del teatro, assimila e incorpora il testo, trasformandolo in pura vis teatrale. Un confronto, non ancora approfondito da critici e studiosi, che proprio sul terreno del monologo può aiutare a portare in luce la differenza dei percorsi e al tempo stesso la loro simile spinta e necessità. Il terreno comune di Dante, non casualmente riferimento imprescindibile per entrambi, anche se solo occasionalmente attuato da Carmelo, può rappresentare uno spazio stimolante di confronto. Da una parte sta il Dante che nella poesia infonde conoscenza, secondo Leo, che dunque si incammina in un lungo (dal 1980 al 2000) percorso artistico esegetico-verbale alla ricerca del senso nel reticolato delle tracce concettuali della Commedia. Dall’altra, il Dante ispirato e profetico nell’interpretazione di Carmelo (in quel potentissimo incontro con il Sommo Poeta che fu la Lectura Dantis dalla Torre degli Asinelli di Bologna nel 1981, nel primo anniversario della strage del 2 agosto), che intraprende un percorso empatico-fonetico nei suoi versi, alla ricerca della forza visionaria che si fa verbigerazione veggente. In entrambe le esperienze, Dante si incarna nelle due voci mostrando aspetti e risonanze inedite, ma trasformandosi in schermo trasparente attraverso il quale Leo e Carmelo fanno proprie le sue parole e diventano essi stessi Poeti.
(Questo scritto è stato pubblicato sul trimestrale “Hystrio”, n. 4, ottobre-dicembre 2020 nel dossier “Soli in scena” a cura di Laura Bevione e Laura Caretti.
Tutte le fotografie qui pubblicate, a eccezione della foto di Carmelo Bene e dei quaderni dell’Archivio di Leo, sono tratte dal libro La terza vita di Leo. Gli ultimi vent’anni del teatro di Leo de Berardinis a Bologna, riproposti da Claudio Meldolesi con Angela Malfitano e Laura Mariani e da cento testimoni, ed. Titivillus, 2009)
