Uomini e tori (e falene)

È che la luce ti serve per avere la direzione dove andare, ma se poi il neon sfarfalla, tutto il tuo mondo può capovolgersi e sei costretto a iniziare una discesa nei sogni e negli incubi di ciò che si chiama vita, o forse solo della proiezione di quella vita che ti immagini, o forse solo dello sfarfallìo di quella vita che ti rivomita addosso le immagini che avevi ingoiato e nascosto da qualche parte. La transverse orientation è un termine tecnico dell’entomologia e spiega il volo delle falene, che per orientarsi in una direzione prendono come riferimento la luna o le stelle: quelle stanno lassù, ma guidano il volo degli insetti in modo ‘trasversale’. Dimitris Papaioannou ha scelto questo termine per il suo nuovo spettacolo Transverse orientation, decidendo di muoversi proprio tra questi due termini: l’orientamento e la trasversalità. Chiedendo allo spettatore di farsi falena, rintanata nel buio del teatro e accecata dalla luce della scena.

Possono essere falene o scarafaggi o altri insetti mossi dall’orientamento trasversale della luce le oblunghe figure nere con la piccola testa a forma di pallina che da una porticina sullo sfondo irrompono sulla scena, nel prologo, attirate proprio dalla luce rumorosamente instabile del neon. Si muovono non senza umorismo nello spazio vuoto, agitando scale e arti, bilanciando l’effetto sgradevole di una massa di insetti brulicanti con una calligrafia visiva in bianco e nero quasi grafica. La scena è sviluppata fortemente in orizzontale, con un effetto cinemascope che schiaccia le altezze e le profondità, esaltando l’ampiezza del campo visivo, all’interno del quale rimarranno costanti solo due punti d’attenzione. In alto a sinistra sta il neon, che alterna luce costante e sfarfallìo, condizionando (orientando) virtualmente gli accadimenti. A destra è invece la porta che scandisce alcune entrate simbolicamente rilevanti, come quella iniziale degli ‘insetti’, o quella che porterà a invadere la scena di massi e macerie, o quella in cui la donna vecchia ritorna giovane. Simbologie che dall’entomologia si spostano al mistero quasi magico o alchemico, dopo aver attraversato il mito.

Cuore dello spettacolo è infatti l’evocazione di frammenti di una mitologia mediterranea e al tempo stesso dal sapore universale, che trova il suo fulcro nella poderosa e ingombrante apparizione di un toro. Facile pensare al ricordo della tauromachia del palazzo di Cnosso, che scivola verso il più recente ricordo della corrida spagnola, in una centralità del rapporto tra l’uomo che domina il mondo e la natura selvaggia che deve essere domata: conflitto, ma anche connubio e intimità, quella che trascina con sé il mito – più volte rievocato – del minotauro, apparizione perturbante, che porta con sé l’indicibile, ossia l’unione anche carnale tra uomini e animali. Ossia, per restare ancora nei miti, la metamorfosi. Metamorfosi classica, che grazie alla compenetrazione dei corpi di due diversi performer può diventare un’aracnide con la testa di donna; e metamorfosi borghese, che con una brandina pieghevole può trasformare i corpi in cyborg pre-fantascientifici. Non mostri, né il minotauro né il ragno, ma vertiginosi richiami a un’unità sottile e forse primigenia, come suggerisce la fugace apparizione dell’androgino, con la testa di donna e gli organi maschili bene in vista: quasi una figura da miniatura esoterica, che ci appare come partorita dal grande toro nero tenuto a viva forza dagli uomini.

Perché poi lo sguardo ‘trasversale’ impone visioni laterali e pensieri laterali. Il toro che invade la scena e sembra minaccioso – con cupi mugolii elettronici che accompagnano un paesaggio sonoro minimale su cui irrompono stranianti gli archi di Vivaldi – è al tempo stesso anche portatore di pace e di vita. Come in un sacrificio arcaico, un giovane si mostra nudo di fronte a lui, lo accarezza, gli dà da bere, si compenetra idealmente nella sua essenza, in una tensione degli sguardi che suggerisce desiderio e unione. È un mondo profondamente maschile quello in cui siamo calati, dove il furore virile e taurino assorbono anche la delicatezza e la sinuosità delle forme, e dove il toro può perfino partorire, facendo nascere una figura (femminile) dal suo ventre, come per incarnare al tempo stesso Zeus-toro e la desiderata Europa. E così le immagini, le azioni, i corpi in trasformazione si succedono come scaturiti o evocati da quella luce iniziale che orienta la visione in modo trasversale. Non c’è una direttrice narrativa, c’è invece una direzione sensoriale guidata da un altrove luminoso ma irraggiungibile. C’è il riemergere – come da un sogno o da un incubo o dal misterioso affastellarsi di ricordi e intuizioni nel tempo liminale e sospeso del dormiveglia o dell’inebriamento alcolico – di pezzi del mito e pezzi dell’arte, entrambi carichi di simboli, forse dimenticati, ma soprattutto di folgorazioni visive.

Il grande spazio largo e basso della scena, in cui stanno solo una porta e un neon che sfarfalla, evoca l’idea di un grande scantinato, dove si addensano gli insetti e soprattutto i ricordi, personali e collettivi, dove puoi trovare il tuo io nudo e le proiezioni di te, ciò che non hai osato pronunciare e ciò che non hai voluto vedere, e magari un gigantesco toro che fatichi a tenere per le corna e al tempo stesso trascini sulle ruote rivelandone la natura di fantoccio, di fantasma, di piccolo grande mostro-peluche di un’infanzia che è infanzia personale ed è infanzia dell’umanità, quando il toro era divino e doveva essere sconfitto e amato. È lo scantinato che cerchi di preservare e in cui irrompono a un certo punto massi e lastroni, in un flusso incessante e travolgente, che riempie metà scena, obbligando all’affannoso su e giù di quegli umani – non più insetti e ancor più insetti – a trasformare quei massi in percorso di sopravvivenza e poi in torre, prima dell’inevitabile crollo babelico che riporta tutto a macerie, come dopo un terremoto, come dopo una guerra.

E allora Transverse orientation sembra prendere ancora un’altra direzione, finendo per sovrapporsi con Guernica, con gli elementi del quadro di Picasso che riprendono vita con altre forme nello spettacolo: la lampadina che ora è il neon che sfarfalla, l’affannoso e doloroso compenetrarsi di corpi e oggetti che si riverbera nel caos ordinato della scena, il toro che focalizza l’attenzione dello sguardo in entrambi, e la finestra in alto a destra che qui diventa la porta. Non si parla di guerra nello spettacolo, ma il sentimento dell’affanno nel brulicare di esseri umani in quello scantinato della memoria e dell’inconscio è altrettanto potente. Fino ad arrivare a una svolta significativa, quando l’universo prevalentemente maschile e taurino lascia il posto all’epifania del femminile. Cominciando con la discontinuità del ritmo, che improvvisamente si dilata, introducendo due apparizioni, percepite come rivelatrici, quasi fondative: il femminile arriva con forza genitrice a imporre una nuova partenza, una nuova genesi.

Una genesi, anzi una partenogenesi. Mostrata, anzi ostesa, al centro della scena, in primo piano. Perché tutti possano assistere all’evento sacro che vede la Donna dar vita a una creatura, grondando liquami dal centro di una sorta di cappella votiva, una nicchia, come fosse una Madonna della Mandorla rinascimentale. Se nella prima parte l’autonomia visiva della donna era data dalla sua ostensione (decentrata) in forma di fontana statuaria da Giardino delle Delizie, da cui zampillano liquidi che attirano i maschi come fossero i damerini danarosi che s’incollano alla Marilyn di Diamonds are a girl’s best friends, adesso la Grande Madre ha ripreso la centralità e l’assolutezza in forza del dono divino della facoltà genitrice. Nel vuoto totale, entra ora un’anziana donna nuda che attraversa molto lentamente la scena. Esce dalla porticina rientrando subito dopo ringiovanita. Lo spettacolo procede in rarefazione: la giovane donna, al centro della scena, rovescia lentamente dell’acqua, simbolo assoluto della vita, mentre sprofonda misteriosamente al di sotto della superficie. La Grande Madre Terra ritorna a essa evocando l’immagine simbolica dell’Acquario, come nel precedente lavoro di Papaioannou, Ink.

Il viaggio nello scantinato dei nostri (dei miei, dei tuoi, dei loro) ricordi e del nostro inconscio personale e collettivo è compiuto. Abbiamo combattuto e amato il toro, abbiamo ritrovato pezzi di vita e di storia e di mito, abbiamo ceduto il passo al mistero dell’esistenza. E ora possiamo tornare a galla. La scena, letteralmente, viene distrutta: le assi del palcoscenico vengono smontate, mostrando al di sotto il pavimento invaso d’acqua: quell’acqua accennata spesso nei dettagli di tutto lo spettacolo, richiamata e reclamata da apparizioni come un sommozzatore o una sirena che si dibattevano prima nell’asciutto. Adesso l’acqua è lì, finalmente pervasiva: un orizzonte marino costellato di piccole e grandi isole contro un tenue cielo azzurro. E un uomo nudo seduto sugli scogli che osserva pensoso, come se tutto questo fosse stato un sogno. Il sogno di un Omero che ha conosciuto Kafka, e che sulla riva di un’isola dell’Egeo sogna mitologie ritrovate nel suo cuore. Un’immagine intensamente lirica, dall’intimo e intenso senso dello struggimento che da una Saffo arriva a un Kavafis e ci ritorna indietro incontrandoci malinconici nell’ “ora che volge il disio ai navicanti e ’ntenerisce il core”. Ma… ehi, non prendiamoci troppo sul serio. Se il giovane sullo scoglio, leggero e pensoso come in un quadro di Flandrin o una foto di List, sembra volerci condurre alla commozione, dall’altro lato c’è già l’inserviente che con lo straccio inizia a pulire la scena, e al primo non rimane altro che uscire di scena dalla porticina in fondo al mare come il protagonista di Truman Show.
E ci ritroviamo come falene, che guardando una luce lontana e irraggiungibile si sono ritrovate nella direzione giusta per un viaggio onirico nello scantinato del proprio sé.

Transverse orientation, ideazione, visualizzazione e concezione Dimitris Papaioannou; con Damiano Ottavio Bigi, Šuka Horn, Jan Möllmer, Breanna O’Mara, Tina Papanikolaou, Łukasz Przytarski, Christos Strinopoulos, Michalis Theophanous; musica Antonio Vivaldi; set design Tina Tzoka & Loukas Bakas; composizione sonora + design Coti K.; costumi Aggelos Mendis; collaborazione disegno luci Stephanos Droussiotis; supervisione musica Stephanos Droussiotis; sculture, costruzioni speciali, oggetti di scena Nectarios Dionysatos; invenzioni meccaniche Dimitris Korres; produttore creativo-esecutivo e assistente di direzione Tina Papanikolaou. Produzione Onassis Stegi; coproduzione Festival d’Avignon, Biennale de la Danse de Lyon 2021, Dance Umbrella / Sadler’s Wells Theatre, Fondazione Campania dei Festival / Napoli Teatro Festival Italia, Grec Festival de Barcelona, Holland Festival Amsterdam, Luminato Toronto / To Live, New Vision Arts Festival Hong Kong, Ruhrfestspiele Recklinghausen, Saitama Arts Theatre / Rohm Theatre Kyoto, Stanford Live / Stanford University, Teatro Municipal do Porto, Théâtre de la Ville Paris / Théatre du Châtelet, Ucla’s Center for the Art of Performance; con il sostegno di Festival Aperto Reggio Emilia, Festival de Otoño de la Comunidad de Madrid, Hellerau European Centre for the Arts, National Arts Centre Ottawa, New Baltic Dance Festival, One Dance Week Festival, P.P. Culture Enterprises Ltd, Tanec Praha International Dance Festival, Teatro della Pergola Firenze, Torinodanza Festival / Teatro Stabile di Torino Teatro Nazionale; sostenuto da Hellenic Ministry of Culture and Sports. Prima assoluta: Biennale de la Danse de Lyon, Lione, 2 giugno 2021.
Visto a: Reggio Emilia, Teatro Municipale Valli, 1 ottobre 2021.

Fotografie di Julian Mommert.

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