Marthaler, la lingua curata in farmacia

La farmacia è il luogo del sovvertimento linguistico. È il luogo dove il pharmakon, cioè il veleno secondo il significato originario, diventa il suo contrario, ossia medicina. È il luogo dove la “cura della persona” ha da tempo allargato il suo significato alla cosmetica fino a trasformare l’originario laboratorio di prodotti galenici in minimarket per lo shopping. Nella farmacia il linguaggio e lo spazio si scompongono e ricompongono, riuscendo a conciliare i bisogni del cliente infermo con i capricci del cliente sano. Quello proposto da Christoph Marthaler in Das Weinen (Das Wähnen) è un viaggio nel sovvertimento linguistico, ed è anche un’esplorazione di quell’orizzonte ormai familiare che è la farmacia-minimarket del XXI secolo. Non è un discorso sulle farmacie, ma sulle nostre proiezioni di senso, che trovano proprio nella farmacia la cornice perfetta.

Punto di partenza è la creazione verbale di un grande sperimentatore dell’arte e della scrittura come lo svizzero Dieter Roth, travolgente abbattitore di generi e confini, non a caso passato attraverso l’esperienza di Fluxus, e scomparso nel 1998 all’età di 68 anni: uno dei più fecondi e spiazzanti rappresentanti di un’idea di arte fuori dagli schemi, in continua sfida verso etichette e aspettative, dove perfino i concetti di arte sperimentale o performance multimediale e simili risultano inadeguati per riuscire a parlare dell’indefinibile opera multiforme di un instancabile viaggiatore nella fluidità e casualità delle forme. Nella sua vasta produzione, dall’arte deperibile di oggetti artistici creati con cioccolata, salse o yogurt, a collage, cartoline o installazioni, un posto di privilegio è occupato dai libri, con un’idea di libro come oggetto artistico e come spazio testuale, ardito punto d’incontro e scontro tra la materia e la parola, deperibili entrambe – materia e parola – e perciò urgenti da esprimere. Nell’immenso corpus di Roth un piccolo posto ce l’ha anche il volume Das Weinen (Das Wähnen Band 2A (Tränenmeer 4)), che fin dalle risonanze fonetiche del titolo, che richiama le lacrime e l’immaginazione (il concreto e l’astratto, per così dire), mostra come l’oggetto vero non siano né le lacrime né l’immaginazione, ma la formidabile leva sovvertitrice della lingua.

È inevitabile, allora, che un altro svizzero geniale come Marthaler incontrasse Roth, al di là del semplice dato biografico (pare che tanti anni fa l’artista abbia donato proprio questo libro al giovane regista, che ora contraccambierebbe ricavandone uno spettacolo). In fin dei conti anche Marthaler è un artefice magico delle strutture assurde e del nonsense. Come Buster Keaton sovvertiva le relazioni degli elementi e destrutturava spazi, oggetti e funzioni per descrivere, ridendo, l’impatto del nuovo impero tecnologico e fisico su un umanesimo romanticamente destinato al declino, così le scene di Marthaler, il loro piegare i destini di piccoli personaggi anonimi ad apparenti scherzi del destino, con ironia talvolta caustica talaltra bonaria, ci restituiscono il brulicare incessante e inconcludente di un’umanità occidentale piccolo borghese, ormai dimentica del suo antico umanesimo e intenta a sopravvivere di fronte al devastante vuoto di senso dei nostri tempi.

Il richiamo amaro e al contempo vitale al deperimento e il gusto distruttivo e al contempo costruttivo del nonsense, che costituiscono la linfa vitale dell’intera ricerca di Roth, avevano già attraversato l’opera di Marthaler, e dunque non stupisce la decisione di dedicare all’artista un intero spettacolo. Così come non stupisce, conoscendo il regista, che non vi sia alcun tentativo di emulazione visiva o di rimando alle opere, se non il semplice uso di alcuni testi tratti appunto da quel lontano libro del 1978. E qui torniamo alla farmacia, individuata da Marthaler come luogo ideale della destabilizzazione linguistica messa in atto da Roth. La lettura delirante del bugiardino di un medicinale, accostata ai testi di Roth – oscillanti tra simbolismo e assurdo, tra Fluxus e Oulipo, tra avanguardismo storico e neoavanguardismo postindustriale –, rende perfettamente il senso di questa calata delle parole in libertà del poeta-artista nelle parole, altrettanto in libertà, che si usano normalmente nel contesto farmaceutico.

Lo spettacolo si apre sull’interno di una farmacia, racchiuso da pareti di scaffali ricolmi di scatole di medicine. Pochi altri elementi in scena: una bilancia elettronica, un distributore d’acqua, due schermi che illustrano trattamenti cosmetici a cominciare dalla micosi delle unghie dei piedi. È questo il mondo anti-deperibile (per rimanere sui concetti cari a Roth), dove ordine e cura di corpi deperibili si presentano in modo asettico e rassicurante (o inquietante, a seconda dei punti di vista). In questo ambiente sterile e impersonale, però, è l’elemento umano a recare il segno dell’imprevisto e del corrotto: un’anziana farmacista “boss” e quattro farmaciste giovani, che alternano l’anonimato della funzione, sistemando e controllando i medicinali, con il guizzo spiazzante, la gag verbale o fisica, l’ora del tè, l’esibizione plastico-ginnica sullo sgabello cilindrico… E così, ecco i tanti siparietti che vedono la “boss” alle prese con dischi di musica classica o le giovani sottoposte (non massa, ma individui diversamente caratterizzati), ben intenzionate a non farsi sottoporre troppo, alle prese con le vertigini verbali che rimbalzano dal tedesco all’italiano al francese, senza dimenticare la caricatura della pronuncia dialettale o la frammentazione fonetica in cui si perdono vocali e consonanti trasformando le frasi – già di per sé poco intellegibili – in raffiche sonore gutturali.

La farmacia è il luogo del sovvertimento linguistico, dicevo. Dove i suoni delle parole si rincorrono, dove le parole stesse si ripetono all’infinito in mille varianti combinatorie come in bugiardino lisergico, dove le immagini evocate dalle parole si fondono in paesaggi onirici, in narrazioni surreali, in concatenazioni assurde, in una poesia fluviale e caleidoscopica, salvo ripiombare improvvisamente nella sospensione, nel silenzio, nell’ “Halt!” ripetuto spesso, come a cercare di bloccare quell’orgasmo verbale, di ricondurlo alla Ragione, di riprendere fiato correggendo il dedalo semantico e affabulatorio lanciato a briglia sciolte verso la platea – stordita e divertita – o verso quegli scaffali elveticamente tetragoni a ogni sbavatura o imperfezione, che sembrano schizzati fuori dalla distopica tranche de vie del Playtime di Jacques Tati.

Ripensando alla pratica del deperimento dell’arte secondo Roth, si può dire che nella farmacia di Marthaler la lingua deperisce, ma anche che nel deperimento rinasce, si ri-forma, riacquisisce sensi diversi, piegando significati e significanti. E ancora, se la farmacia è il luogo del sovvertimento linguistico, possiamo però anche dire che il sovvertimento linguistico può essere una farmacia: il nonsense, la verbigerazione assurda, la macerazione fonetica e lessicale possono curare il rattrappimento intellettuale dei nostri tempi, spalancare la mente, riaprire le possibilità.

Nel mondo-farmacia, ultima spiaggia di un’umanità spaventata in tempi di Covid, che ritrova in quel minimarket della cura, asettico e accogliente, una zattera irrazionalmente salvifica, il sovvertimento rimbalza ovunque, infilandosi negli anfratti dell’ordine geometrico imposto dal marketing. Che dire della danza-fuga del distributore d’acqua a colonnina, che si sottrae al suo dovere e prende inopinatamente vita come avrebbe potuto fare cent’anni fa in una comica, appunto, di Buster Keaton? Che dire degli schermi pubblicitari su cui irrompe un pianista, trascinando le farmaciste in brillanti coretti, tra i quali non può mancare il Requiem di Mozart, ovviamente nel fatidico Lacrimosa che richiama il titolo Das Weinen e che qui lascia il pathos del dolore per abbracciare la godibilità e l’orecchiabilità: siamo o non siamo in una linda farmacia-minimarket, dopo tutto?

E che dire dell’unica presenza maschile, un cliente (?) trattato come elemento stesso della farmacia, dadaistico objet trouvé, trasportato di qua e di là, o lasciato per lunghi minuti a declamare sommessamente una litania ripetitiva come una bislacca filastrocca? Ogni elemento si colloca organicamente e disorganicamente nello spazio dell’ordine sovvertito. Fino alla nemesi conclusiva, quando gli scaffali vengono interamente svuotati delle decine di scatole di medicinali, gettate a terra una a una, e il grottesco irrompe straniante, esilarante, inquietante, con un Cristo che porta la croce verde luminosa della farmacia, l’insegna lampeggiante che è il faro dei clienti sani e dei clienti malati, che è il punto dell’orizzonte in cui si concentrano le aspettative di chi vede nella farmacia la soluzione magica alle malattie, agli inestetismi, a una vita insoddisfacente, o perfino alla morte chissà. La farmacia come un moderno Calvario?

Il palcoscenico brulica di segni e di sottrazioni di segno, come se Marthaler avesse deciso di abbandonarsi al divertissement. O come se avesse trovato la strada giusta per un teatro dedicato all’impervio Roth con fedeltà, ma senza scimmiottarlo. Quando nel 1961 gli artisti di Fluxus decisero di pubblicare un’antologia (che uscì poi due anni dopo), Roth mandò a George Maciunas una pagina nera con buchi messi a caso. Quei buchi avrebbero mostrato solo alcuni dettagli di una qualsiasi pagina messa dopo, creando un inaspettato senso, o un non-senso, in ogni caso un qualcosa. Ecco, lo spettacolo di Marthaler invita lo spettatore a portare davanti agli occhi quella pagina nera e a osservare attraverso quei buchi i dettagli casuali di un flusso verbale, visivo, fisico e musicale, per provare a dare un senso o, meglio, per provare a sottrarre un senso da questo anti-racconto, a riconciliare ordine e caos, negandoli e ricucendoli.
Perché la farmacia è il luogo del sovvertimento.
E ora che ci penso, anche il teatro, in fondo, lo è.

Das Weinen (Das Wähnen), basato su testi di Dieter Roth; regia Christoph Marthaler; con Liliana Benini, Magne Håvard Brekke, Olivia Grigolli, Elisa Plüss, Nikola Weisse, Susanne-Marie Wrage; messa in scena Christoph Marthaler; scenografia Duri Bischoff; costumi Sara Kittelmann; progettazione del suono Thomas Schneider; produzione musicale Bendix Dethleffsen; luci Christoph Kunz; drammaturgia Malte Ubenauf; assistente di produzione Clara Isabelle Dobbertin; produzione Schauspielhaus Zürich, in coproduzione con ERT Emilia Romagna Teatro, Nanterre-Amandiers Centre dramatique national, Bergen International Festival, Théâtre Vidy-Lausanne e International Summer Festival Kampnagel Hamburg, con il sostegno di Georg and Bertha Schwyzer-Winiker Foundation e Pro Helvetia, Fondazione svizzera per la cultura. Prima assoluta: Zurigo, Schauspielhaus Pfauen, 20 settembre 2020.
Visto a: Bologna, Arena del Sole, 30 ottobre 2021.
Fotografie di Gina Folly.

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