
Ne è passata di acqua sui letti del Vilnia e del Neris, alla cui confluenza 700 anni fa, nel 1323, il granduca Gediminas fondò la capitale della Lituania. Tanta acqua sotto i ponti di Vilnius, ma anche tanti popoli e culture, e tanta storia di guerre e potere. Una città a strati, si potrebbe dire, di volta in volta capitale di un grande impero o di un piccolo Stato, libera e indipendente o soffocata dall’invasione nazista e dall’occupazione russa, ultima paladina del paganesimo in Europa e poi fervente cattolica e centro di irradiazione dell’ebraismo. Eppure, quando nel 1995 visitai Vilnius, ciò che mi colpì in modo più evidente era l’assenza di visibilità (la rimozione?) di quella storia e di quelle storie nelle strade della città. La Lituania era diventata indipendente da poco, dopo essersi liberata dal giogo sovietico, e Vilnius si presentava come una città giovane, con un potente slancio verso il futuro che cancellava ogni traccia del doloroso passato recente e rivendicava con orgoglio una nuova – e antica – identità. Mi colpì l’assenza di statue, targhe, segni di quella secolare stratificazione, in contrasto con la quantità sovrabbondante di altrettanti segni storici nelle piazze e sui muri di una qualsiasi città italiana o europea. La secolare Vilnius, che aveva attraversato la storia – e che storia! – sembrava presentarsi vergine agli occhi del visitatore straniero.

Oggi ho riscoperto una città diversa, che ha ridefinito la propria storia, che ha valorizzato i suoi 700 anni cercando di riempire i buchi, disseminando le sue strade dei nuovi segni della globalizzazione, che peraltro già allora iniziavano a comparire. E di frammenti del passato: tante targhe e statue nuove a ricomporre una narrazione, a cominciare dall’imponente monumento allo stesso Gediminas realizzato nel 1996 con gusto antico. E di sospensioni sottili, come in piazza Lukiškės, cuore della memoria dolorosa da riconnettere al presente, dove stava la statua di Lenin abbattuta all’indipendenza e dove stava la famigerata prigione russa delle torture, oggi istoriata con i nomi delle vittime: nell’equilibrio delicato di quel luogo così emblematico, il centro della piazza è ora occupato da una gigantesca bandiera della Lituania, non quella attuale ma quella storica.


La vertigine ambigua della storia della città, e soprattutto del confronto con il presente allo scoccare del 700esimo compleanno, ha il suo punto emblematico di elaborazione simbolica nella produzione artistica, in un’affascinante mostra ospitata dal MO Museum, altro segno recente, disegnato da Daniel Libeskind come una scheggia che interrompe le linee rassicuranti del barocco baltico che caratterizza l’urbanistica. Vilnius Poker è il titolo della grande esposizione che raccoglie la produzione di una cinquantina di artisti che hanno dialogato con la città.
È anche il titolo di un romanzo culto di Ričardas Gavelis pubblicato nel 1989, che riflette il peso dell’oppressione e repressione sovietica, in una narrazione vista da quattro diversi e contrastanti punti di vista su uno stesso corpo-città. Da quella suggestione, anzi da quel mito di una Vilnius così stratificata e vitale (“ogni cosa è possibile a Vilnius”, scrive) ecco l’idea di una mostra che si dipana come un labirinto urbano, scandito da citazioni di Gavelis e accompagnato da una colonna sonora di forte espressività, che condiziona la visione. I visitatori si trasformano così in turisti di una Vilnius reinventata e in spettatori di una Vilnius palcoscenico, tanto locale quanto universale, che porta non a caso la cura e la firma di un regista teatrale come Oskaras Koršunovas, che ha organizzato la mostra come una narrazione ideale che attraversa proprio quelle stratificazioni, dalla pittura in epoca sovietica fino alle sperimentazioni contemporanee (l’anno di nascita degli artisti esposti va dal 1927 al 1994), che costituiscono l’identità della città oggi.

Ed è proprio la grande folgorante visione di Our Vilnius (2023), enorme stampa digitale di Liudas Parulskis, di 8 metri di larghezza e quasi 5 di altezza, ad accogliere i visitatori all’ingresso: nell’immagine, sotto la superficie di uno scorcio riconoscibile della città attuale, con l’iconica Torre di Gediminas che domina sulla piccola collina, si spalanca un baratro di palazzi sotto il livello stradale: decine di piani in una vertigine da grattacielo inverso che sprofondano nell’abisso, come a rappresentare forse, al tempo stesso, le radici di Vilnius e la sua proiezione futura. Non è un caso che si tratti probabilmente dell’opera più recente esposta, creata quindi proprio nel 700esimo anniversario, e dunque perfettamente calzante nel rappresentare più che Vilnius il senso dei suoi abitanti per la loro città e quella stratificazione, o meglio quella s-profondità nascosta che occorre riportare alla luce e sulla quale è fondata la realtà odierna, ma che si rivela essere come un livido falansterio di diversità rimosse. Come scriveva Gavelis in Vilnius Poker, “Chi non ha un passato, non ha neanche un futuro… Non siamo mai stati e non saremo mai… Non possiamo cambiare niente, perché non abbiamo un passato… Siamo un niente, un vuoto… Qualcuno ci ha rubato il passato, ma chi?”.

Ecco allora le tante Vilnius che si presentano agli occhi del visitatore come altrettante stratificazioni in parallelo piuttosto che in profondità. D’altronde, proprio le acque dei suoi fiumi sembrano rappresentare il senso dello scorrere, del portare a un altrove: San Cristoforo che attraversa le acque con Gesù Bambino è il simbolo della città che si è sostuito al precedente leggendario e pagano Titan Alkis che attraversava lo stesso fiume con la moglie sulle spalle. Un fluire che sembra incarnato nello spirito lituano: o forse dovrei dire della capitale, visto che al di fuori di essa è quasi solo natura imponente, come se i fiumi portassero in città il ricordo della natura che si allarga oltre le periferie.
Un grande schermo avvolgente accompagna l’inizio della mostra, mostrando le tante immagini della città al pubblico invitato a sdraiarsi sui materassi: il video raccoglie estratti filmati della città, con la regia di Gediminas Lapė, e ha significativamente il titolo Il fiume. Un’opera che mi ricorda il docufilm di Eitvydas Doskus Once upon a Vilnius (2022), quasi una “sinfonia della città” contemporanea (non a caso in bianco e nero), che iniziava il racconto urbano proprio a partire dalle sue acque: un viaggio poetico dentro una metropoli a misura d’uomo, che osserva i suoi dettagli come fossero già pezzi di una stratificazione storica… once upon, appunto.

Anche la fotografia testimoniata in questa mostra è ricca di scorci che interrogano ossessivamente il rapporto con il passato, proprio come se il presente dialogasse strettamente con il “c’era una volta”. Come nel lavoro fotografico di Algimantas Kunčius, che negli anni 80 racconta spazi urbani deserti di strutture forse in costruzione o demolizione, in scatti in b/n intitolati non a caso Reminescences, e che poi, invece, nella serie Photo reflections degli anni 90 e 2000 rilegge la città a colori, con vivacità, in scatti che abbandonano la pulizia estetica per correre a briglia sciolte nelle strade e nelle piazze con attitudine quasi da turista onnivoro. Direzione opposta a quella di Raimondas Paknys, che entra negli spazi interni di chiese sconsacrate, ancora a ricercare il nesso tra la storia e l’oggi.
Un rapporto fatto deflagrare da contaminazioni arditamente ironiche, come la spada del già ricordato monumento a Gediminas trasformata in spada laser nell’installazione di Kipras Krasauskas del 2019 Today’s Gediminas, qui riprodotta in una gigantografia di Josvydas Elinskas. O come la torre della tv di Vilnius che fa da sfondo al ritorno di un Clint Eastwood uscito da un film di Sergio Leone ma con il sacchetto della spesa del supermercato in Trajectory di Vytautas Tomaševičius (2020). O ancora come la cattedrale in chiave pop art che fa da sfondo a un leopardo detto The beast of Vilnius nel quadro di Kęstutis Grigaliūnas (2007).

L’ironia non può però nascondere il passato, quelle stratificazioni sciolte nel labirinto del percorso stabilito per i visitatori, che a un certo punto diventa un tunnel completamente buio in cui si perde l’orientamento, segno perfetto di un buco nero concettuale e fisico al tempo stesso che è il tempo sospeso della storia e del presente della città. Eccolo, allora, il passato che emerge con l’impressionante muro di foto segnaletiche degli ebrei deportati nei campi di concentramento, nell’installazione Diaries of death, Vilnius album no. 4 dello stesso Grigaliūnas (2009-12). Ecco le tracce della dominazione sovietica nei ritagli di giornale Victory’s interior di Romanas Vilkauskas (1998).

Ecco Lenin al centro del quadro di Šarūnas Sauka Bothersome dream (2005), “sogno molesto” che vede lo statista russo in un apocalittico rendez-vous distopico, come in un’allegoria di Bosch irridente e malata. La visione surrealista e grottesca di Sauka lo accomuna ad altri artisti in mostra, come Henrikas Natalevičius e le sue figure informi e deformi, o Valentinas Antanavičius con le figure destrutturate del suo Surrealistic erotic triptych (1975) o Raimundas Slizys in caricature e distorsioni che occhieggiano un po’ a Klimt e un po’ a Grosz. Un’alterazione della figura umana che si proietta sullo spettatore con l’installazione For deconcentrating attention (1996) di Gintaras Makarevičius, ossia piccoli e diversi specchi che vibrano ciascuno in modo diverso deformando l’immagine, ma che sembra alimentarsi di una certa tradizione pittorica lituana pre-indipendenza, qui ben documentata dalle opere di di Arvydas Šaltenis degli anni ’80, con volti slavati che sbucano da cabine telefoniche, e che a loro volta richiamano i quadri di Kostas Dereškevičius degli anni ’70, che evitano la figura intera e si soffermano su frammenti di corpi in contesti quotidiani (gambe sotto un tavolino, volti dal finestrino di un autobus…), che rimbalzano poi nelle fotografie di Vitas Luckus in cui si accostano frammenti di corpo a oggetti, e nell’opera polimaterica di Ieva Martinaityte-Mediodia, una Natura morta (1996) che espone un corpo frammentato come in un lugubre tavolo anatomico.

Lo stesso Dereškevičius ci ha dato nel 1979 il ritratto più straniante di Vilnius, racchiusa in una provocatoria cerniera lampo aperta. È la città-corpo di Gavelis che si mostra nella sua ambigua e inquietante frammentazione biologica: “Non sto cercando l’anima. Sto solo cercando una malattia”, scrive in Vlinius Poker. Diventa così ben più di un gioco il paragone lombrosiano di Žygimantas Augustinas tra la granduchessa cinquecentesca di Lituania Bona Sforza, di origine italiana, e Dalia Grybauskaitė, presidente moderna della repubblica lituana: la serie di opere che confrontano i due crani (!), del 2017, culmina in uno straniante ritratto in cui i due volti si fondono in modo impressionante, non più stratificazione storica ma compenetrazione metastorica.

Ma insomma, dov’è e cos’è Vilnius oggi? Nel labirinto della mostra si incunea improvvisamente un’intera stanza: è l’installazione di Evaldas Jansas Random thoughts from the current situation (Behind the partition) (1998), ossia una camera in cui sono affastellati oggetti quotidiani e allusivi, un catalogo informe dove la quotidianità si trasforma in microcosmo universale, nel quale il visitatore è invitato a entrare, oserei dire in punta di piedi, a penetrare in una casa-mondo che svela e cela l’intimità, rinfacciandola allo sguardo altrui, come in una perlustrazione sul luogo del delitto o come in un mercatino dell’usato, dove trovi affastellati oggetti, sedie, tv, bottiglie, quadri, ricordi, cibo avanzato nel piatto, vestiti, un letto…

Vilnius-mondo, Vilnius-casa, Vilnius concreta e Vilnius ideale. Una città proiettata nel futuro che trascina le sue radici – acquatiche, sotterranee, dolorose e oscure, eppure a tratti ridanciane e irriverenti – verso proiezioni inaudite che cercano di ridare un senso e una forma a quel Vilnius Poker che ci ha accompagnati in questo viaggio dentro una città al di fuori di essa. Ecco allora dove potrebbe stare Vilnius. Forse nel video musicale visionario dei Solo Ansamblis Dansingas diretto da Titas Sūdžius (2020), in cui un apocalittico cavaliere nero attraversa le abbacinate strade della città. O forse nei tarocchi di Mindaugas Skudutis Vilnius Poker (2022), cartoline allusive o simboliche, che reinventano la città nella sua moltiplicazione ideale e deformata, quasi riecheggiando le parole di Gavelis: “Attorno a me, dentro di me, Vilnius è ovunque: forse il mondo intero è Vilnius”. O forse, ancora, nell’interno domestico fantascientifico di Gintaras Znamierowski The warmth of someone else’s loneliness (2005), dove alcuni androidi si riuniscono attorno al fuoco, in una dimensione intima di futuro fumettoso.

O forse infine, nell’opera Greetings from Vilnius dello street artist Antanas Dubra (2023) che racchiude in un vertiginoso affresco il passato, il presente, forse il futuro, di certo il visionario, il fiabesco, l’allegorico e il provocatorio, in un’immagine-rebus con il quale la mostra si congeda dal visitatore, che torna a guadagnare l’uscita inciampando su una vecchia panchina deformata (di Rimantas Milkintas, 2017) e su un improvvido tombino in rilievo. E vale la pena notare che quel vecchio e negletto tombino di ghisa, passato inosservato da quasi tutti, è in realtà Gilus įkvėpimas (Un respiro profondo), l’opera del più giovane espositore, Matas Janušonis, classe 1994, che forse più di ogni altro esempio ci racconta la complessa ironica sottile nascosta profondità della città, interpretata oggi dai giovani artisti pokeristi di Vilnius.
Vilniaus Pokeris/Vilnius Poker, direzione Oskaras Koršunovas; scenografia Gintaras Makarevičius; cura Dovilė Barcytė, Algė Gudaitytė; design Liudas Parulskis; compositore Antanas Jasenka; consulenti Jūratė Čerškutė, Laima Kreivytė, Gintautas Mažeikis, Kasparas Pocius, Almantas Samalavičius, Vladimiras Tarasovas; presentata da Vilnius700, con Lietuvos Respublikos Vyriausybės Kanceliarija e Meno Avilys.
Vilnius, MO Museum, 22 aprile 2023-28 gennaio 2024.