
Il corpo del danzatore ucraino non è uguale a quello degli altri danzatori. Non è più solo corpo di performer: è corpo di testimone, anche al di là delle intenzioni. Essere danzatore o artista proveniente dall’Ucraina, oggi, dopo l’invasione russa e durante la guerra, significa interrogarsi su ciò che accade, e quindi su ciò che si rappresenta per gli altri, per i non ucraini. Accade con tutti i popoli ferocemente oppressi, come per esempio i palestinesi: smetti di essere un artista che forse vorrebbe o potrebbe parlare d’altro, d’amore o filosofia o dell’emergenza ambientale o chissà, e ti ritrovi a diventare portavoce di una sofferenza nazionale, collettiva. Oggi un artista ucraino non può, non riesce a esprimere altro, e oggi a un artista ucraino – in un circolo vizioso inevitabile, umano e al contempo soffocante – gli altri guardano chiedendo proprio quello: una testimonianza di dolore e di resistenza. E così, la piattaforma di danza ucraina, ospitata a Vilnius nei giorni scorsi, non può essere simile alle altre piattaforme e diventa di per sé un atto di resistenza compiuto da artisti resistenti.

All’inizio è stata la paralisi del corpo, scaturita dalla paralisi della mente, sorpresa e annichilita dallo scoppio della guerra. Nell’Ucraina sotto l’invasione e le bombe, il corpo del danzatore si è fermato, di fronte ai corpi così sicuri di sé dei soldati e ai corpi così fragili dei civili feriti, uccisi, in fuga. E come potevano danzare “con il piede straniero sopra il cuore”? Poi, l’ammutolimento, espresso nella poesia di Salvatore Quasimodo, si è trasformato. Il sentimento di una guerra lunga ha spinto gli artisti a un’azione di resistenza, i danzatori a una danza di resistenza. Nel vicolo (apparentemente) cieco creato dalla Storia, i danzatori ucraini hanno ripreso con forza il proprio corpo e hanno ridefinito la loro danza, offrendo un’altra possibilità rispetto al corpo del soldato o della vittima: il corpo in cui la sofferenza riacquista la bellezza della creazione, la possibilità di definirsi in altro modo rispetto alla logica della violenza, la capacità evocativa del simbolo.
Tutto questo si esprime in una molteplicità di voci che testimonia la ricchezza della danza contemporanea di quel Paese, e che diventa unicità di intenti. E che, non a caso, si raccoglie in una piattaforma, tra spettacoli e incontri di presentazione, dal titolo esemplare: Let the body speaks.

In Exi(s)t Olha Kebas riconnette i fili della sua storia familiare russo-ucraina, così comune in quelle terre, per rintracciare il senso del disorientamento di oggi, in una danza di documentazione e testimonianza, come un album di famiglia spezzato dall’assurdo, quando qualche parente dall’altra parte della cortina le telefona dandole della nazista. In The Traces Tetiana Znamerovska cerca di ricucire quelle tracce, ponendo due danzatrici in uno spazio sempre più ricolmo di grano e farina, in un’accorata e molto fisica riflessione sul trauma psicologico: tema che ricorda il lavoro di Natalia Tokarchuk e Veronika Chekan sullo psicotrauma (la prima è anche psicoterapeuta) esplorato in Italia in una residenza artistica nell’ambito del progetto MIR – Residenze per la pace, che la scorsa primavera-estate ha accolto in diverse strutture teatrali le artiste in fuga dalla guerra. E proprio sulla diaspora degli artisti Yana Reutova costruisce Together Alone, che raccoglie alcuni danzatori provenienti da varie città, ora riparati all’estero, per raccontare la resistenza dei fuorusciti, insieme e soli, come recita il titolo, con la musica dei Balaklava Blues, una band radicale ucraina anti-Putin.
In Hospitable Sea Masha Martos ricorda come gli antichi nomi del Mar Nero siano “ospitale” e “inospitale”, per esprimere la drammatica dualità della storia della sua terra: tornato “inospitale” per la guerra, quel riferimento è il punto di partenza per una danza che intende recuperare le radici di una tradizione condivisa con altri popoli. In Danse Macabre. Immortale Dance Bohdan Polishchuk recupera invece l’idea e l’estetica della danza macabra per esorcizzare la morte ormai diffusa ovunque. E se Taisiya Melnyk (anche lei nella residenza di MIR) approda nella sua ricerca su fascismo, guerra e genocidi, al simbolo cristiano del pesce, in una dura opera di videodanza dal titolo Iχθύς/Ichthys, Mariia Salo nella performance Media holding trova in un altro oggetto, la televisione, il punto d’arrivo delle tensioni belliche: per la “generazione dopamina” i media, anche quelli che rimandano le notizie d’allarme, suscitano dipendenza.

Tre sono gli spettacoli di danza forse più maturi e complessi per le questioni che riguardano il senso di una danza di resistenza, e comunque emblematici, su cui mi voglio soffermare, a cominciare da The way from/to di Rita Lira, sicuramente il più esplicito nel confrontarsi direttamente con la guerra e con le difficoltà stesse legate alla creazione e alla dispersione degli artisti (per la colonna sonora una cantante ha dovuto registrare la sua voce nel bagno di un hotel, un altro al telefono), e il più estremo nel porre al centro l’urgenza della testimonianza rispetto alla qualità del lavoro coreografico e artistico, al punto da lasciare ampio margine all’improvvisazione della danzatrice nel suo semplice stare in scena durante un lavoro costruito per quadri, anche molto diversi tra loro.
Elemento centrale nelle diverse tappe della via crucis incarnata da Lira sono le testimonianze orali raccolte nei primi giorni di guerra e nelle settimane e mesi successivi: lo sconcerto e la sorpresa alla notizia dell’inizio dell’invasione, il racconto delle uccisioni e dei massacri, ma anche le parole di Putin. Le voci scorrono mentre la danzatrice accoglie racconti emotivamente forti con un corpo fragile e paralizzato. Due quadri, invece, sono grotteschi intermezzi in cui una voce spiega come comportarsi con le armi chimiche e se si è catturati: la danzatrice mima le indicazioni del vademecum con effetti più inquietanti che ironici, e il timido riso degli spettatori si strozza rapidamente in gola. Infine, stende a terra tanti vestiti: una teoria di abiti che inonda la scena, come reperti straziati e strazianti di un’umanità colpita e annichilita. Quasi un cimitero di un popolo che chiede aiuto e attenzione, e che richiama lo spettacolo di Violetta Matyushenko One More Step, dove invece vengono esposte tante scarpe, ma con un’idea diversa: la necessità della memoria della storia. E comunque, vestiti o scarpe, è la memoria di oggetti quotidiani a toccare maggiormente il pubblico attraverso la loro fragilità.

Every minute motherland del coreografo polacco Maciej Kuzminski parte da una riflessione profondamente fisica – inscritta, anzi incisa nel corpo – sul trauma, l’esilio e l’identità nazionale, che coinvolge sette danzatori di diverse nazionalità. Una coreografia molto articolata, che si esprime in alcuni momenti collettivi all’unisono sostenuti dalla musica (anche se talvolta qualcuno si distacca dal movimento corale per poi rientrarvi), che lasciano tra uno e l’altro ampi spazi con pezzi dove la solitudine del performer si esprime nel silenzio, nell’abbandono spesso a terra, in corpi disarticolati e quasi schiacciati da un’oppressione fisica e psichica. Una struttura a quadri che racconta le anime del popolo ucraino, provenienti dalla memoria storica e personale (l’elaborazione è collettiva e intreccia il corpo-testimone dei danzatori ucraini con il corpo-specchio dei polacchi), dove prevale la sofferenza e l’annientamento, e al tempo stesso l’orgoglio di una presenza indefettibile, che si riafferma nel ballo collettivo centrale, quasi militare, sul pezzo del gruppo ucraino Dakhabrakha Nad Dunaem.
Ancora una volta la danza si pone come atto di resistenza e di affermazione identitaria e i corpi si presentano nel ruolo di strumenti di testimonianza di un’aspirazione unitaria alla comunione, diventando particolarmente lancinanti nel passaggio dalla coralità solidale alla solitudine angosciata. E così l’intreccio tra artisti ucraini e polacchi rilancia il discorso su un altro piano, particolarmente significativo e sentito nell’Europa dell’Est: i legami profondi tra il destino dell’Ucraina e la sorellanza delle nazioni vicine, che partecipano con emozione alle vicende della guerra, a cominciare dalla Polonia, dove appunto lo spettacolo è nato con i danzatori ucraini, e dalla Lituania dove si svolge questa rassegna curata da Anton Ovchinnikov.

Ed è proprio Anton Ovchinnikov l’autore del pezzo più sottilmente complesso e inquietante, che entra tagliente non solo e non tanto nel tema della guerra in Ucraina, ma soprattutto nel grande dilemma dell’artista di fronte alla guerra, con una sensibilità che unisce il coreografo e il poeta. Nella ‘paralisi’ del corpo del danzatore dei primi mesi di guerra, Ovchinnikov aveva riversato il sentimento di smarrimento nella poesia e nei versi, pubblicati quasi quotidianamente su Facebook, con una densità poetica notevole, come se la potenza della parola e la sua capacità evocativa e di grande acutezza formale e semantica riuscisse a equilibrare il deficit della danza (Achrome, una raccolta di sue poesie in tempo di guerra, è uscita in ebook l’anno scorso, tradotta in italiano, presso l’editore Sefer). Poi la danza è ritornata con l’opera di videodanza Monochrome: il tentativo di riprendere coscienza artistica del corpo, ripreso in fluidi assoli nelle campagne attorno a Kyiv dove era sfollato, ma in monocromia, con la consapevolezza che la guerra ha fatto perdere i colori, riducendo il mondo alla contrapposizione bianco/nero, amico/nemico.
Lo spettacolo Beauty of the beast, presentato alla piattaforma, nasce da questa lunga incubazione, quella del corpo che riacquista espressività e quella della poesia, anzi di una sua lunga poesia scritta il 31 marzo 2022, New Russian Ballet, in cui l’autore immagina di aprire una scuola di “nuovo balletto classico russo”. L’intuizione è spiazzante, straniante e soprattutto straziante. Cosa rappresenti il balletto classico russo (e in definitiva la cultura russa) per i danzatori ucraini e più in generale per il mondo della danza (e la cultura russa per la cultura universale) è superfluo spiegare. È quindi particolarmente forte aver individuato nel drammatico rapporto con una tradizione di bellezza, punto di riferimento ideale di chi con la bellezza lavora, il punto di dissidio con l’invasore e il massacratore che oggi rivela la bestialità. La “bellezza della bestia” del titolo esprime il crollo di un’illusione: cosa c’è di più doloroso nel vedersi sottrarre dal proprio immaginario simbolico quei pilastri di cultura, fascino e bellezza che oggi sono sbandierati da chi si è proclamato nemico? Nel 2014, proprio all’inizio della guerra nel Donbass, Ovchinnikov aveva firmato con Anton Safonov la coreografia di uno spettacolo potente e folgorante, As I became a traitor per il M.O.S.T. dance project, fondato su un punto concettuale lucido ed esemplare: il rifiuto ad accettare la logica della contrapposizione, quella che considera nemici e traditori coloro che fino al giorno prima avevano condiviso una terra, una cultura, una quotidianità di pace. L’intelligenza della riflessione (unita a una resa coreografica di grande effetto) rispecchiava esattamente la condizione di molti ucraini di fronte al tentativo di creare divisione, di tracciare un muro tra ‘noi’ e ‘voi’ per supportare, da una parte e dall’altra del conflitto, gli scontri nel Donbass. Ecco perché oggi, a distanza di pochi anni da quel lavoro e dopo che il conflitto regionale si è trasformato in guerra d’invasione e massacro indiscriminato, il nuovo assolo di Ovchinnikov colpisce con una potenza inedita: perché l’artista sente di essere stato messo all’angolo da quelle logiche che aveva rifiutato e ora si trova, dolorosamente, quasi annaspando nell’ambiguità del momento, a confrontarsi proprio con quella spinta alla creazione del nemico, che ha alterato le vite di tutti gli ucraini.

Agli spettatori che, fuori dalla porta, attendono di entrare per vedere Beauty of the beast Ovchinnikov si presenta per spiegare che non si tratta di uno spettacolo, ma di un workshop aperto a tutti coloro che vorranno partecipare. Quando si entra in sala, lo spazio è vuoto, senza sedute per gli spettatori: ci sono solo molte sbarre da sala prove di balletto. Ovchinnikov continua a parlare rassicurante, gli spettatori sono invitati a comportarsi in libertà, ma intanto lui continua freneticamente a spostare quelle sbarre, ridefinendo continuamente lo spazio, ossia i confini nei quali gli spettatori si trovano man mano ingabbiati. Poi divide maschi e femmine – come si fa nel balletto classico russo, dice – perché questa, spiega, sarà una sessione di esercitazione di balletto. Ridefinito lo spazio, con gli spettatori rinchiusi in due diversi recinti di sbarre a seconda del genere, Ovchinnikov presenta le varie ‘posizioni’ che rappresentano la grammatica del balletto classico, ma che in realtà riflettono la nuova gestualità, la nuova fisicità, la nuova coreutica imposta dalla guerra: la lezione che dichiara di rifarsi alla tradizione russa si esprime attraverso la nuova realtà dei corpi russi e dei corpi martoriati dai russi. Ecco, allora, che la sbarra, ironicamente e accuratamente disinfettata con il gel prima dell’uso, diventa una sorta di filo spinato sotto cui Ovchinnikov striscia, oppure una baionetta che spinge nel suo ventre, e così via: il ‘workshop’ di balletto diventa un catalogo allusivo di corpi di dolore, ma sempre incarnati col sorriso rassicurante e pedagogico del maestro, eppure corpi tremanti, monchi, deformati, mostruosi o alieni, mentre sull’avambraccio del danzatore spicca il tatuaggio “No more pain”, non più dolore. È il nuovo balletto russo, appunto.
Alla fine, con le sbarre Ovchinnikov forma un ring, nel quale il corpo è rinchiuso, sopraffatto, vinto, mentre si sente Staying Alive. Restare vivi, sopravvivere, cantano i Bee Gees, “whether you’re a brother or whether you’re a mother”, come dice la canzone: “Life goin’ nowhere, somebody help me. Somebody help me, yeah”. Qualcuno li aiuti a sfuggire al nuovo balletto russo, a sopravvivere. Ma soprattutto, qualcuno li aiuti a liberarsi dal dovere di una danza di resistenza in tempo di guerra. Qualcuno li aiuti a liberarsi dalla guerra, dall’obbligo a distinguere tra amici e nemici, e a ridare la libertà ai corpi, ora infilzati dalla sbarra di un balletto di bellezza trasformato in una performance di bestialità.
The way from/to, coreografa e performer Rita Lira; musica e suono Mariana Savchenko; masterizzazione Viacheslav Shevchenko; video Pavlo Lykholat; light designer Helena Caixeta; project manager Anita Avakian; con il sostegno di La Briqueterie CDCN du Val de Marne Paris, Cité Internationale des Arts Paris, Mille Plateaux Centre Chorégraphique National La Rochelle, Centre Intermondes La Rochelle.
Every minute motherland, coreografo Maciej Kuźmiński; assistente coreografa Monika Witkowska; dramaturg Paul Bargetto; performers e co-autori Daria Koval, Anna Myloslavska, Monika Witkowska, Vitaliia Vaskiv, Szymon Tur, Anastasia Ivanova, Omar Karabulut; produttori Maciej Kuźmiński, Polina Bulat; Maciej Kuzminski Company; creato in residenza al Klub Żak Cultural Centre in collaborazione con Materia Łódź (Przestrzenie Sztuki programme), Creators for Ukraine Foundation (fondatori di CIAS e ZAIKS) e Ukrainian Institute.
Beauty of the beast, coreografo e performer Anton Ovchinnikov.
Visti a: Vilnius, Menų Spaustuvė / Arts Printing House, Ukrainian Dance Platform – Let the body speaks, 3 maggio 2023