Siamo tutti Persiani

Il fascino di una tragedia come I Persiani risiede nel ribaltamento di prospettiva, ossia nel mettersi nei panni degli altri, dei nemici, dei perdenti, all’indomani di una grande vittoria contro gli invasori. Di fronte al popolo ateniese Eschilo rappresenta non l’umiliazione degli aggressori puniti dalla sconfitta in guerra, ma la pietas per la loro umanità ferita. Noi siamo come i persiani, i persiani sono come noi. Un rispecchiamento: mostra il dolore di un popolo in lutto per colpa della guerra e della tracotanza oltraggiosa del suo re, come se fosse il dolore del popolo ateniese per quello stesso lutto e quindi come un monito a non sposare lo stesso comportamento e non incarnare la stessa hybris in guerre e ambizioni future. Un’opera di pace non perché racconta il dolore della guerra, ma perché mette in guardia dal farne di nuove alzando il velo sul lutto degli altri. È il primo testo teatrale giunto a noi, ed è già un’opera concettualmente spiazzante e strabiliante perché sposta il punto di osservazione: chi guarda è costretto a immedesimarsi nel nemico. Una grande lezione etica, civile, politica. E teatrale.
Non è un caso che Die Perser della regista iraniana Sahar Rahimi si apra proprio sulla negazione dello sguardo sull’altro. Negazione che costituisce lo strumento stesso della guerra contemporanea, ossia privare l’altro di dignità di rappresentazione. Quando il pubblico entra in sala, l’intero boccascena è occupato da uno schermo su cui è proiettata una frase che ammicca a certi messaggi di YouTube: “Questo contenuto non è disponibile nel tuo Paese perché è stato rimosso su richiesta del governo”. Vuoi raccontare I Persiani? Vuoi mostrare cosa accade oltre il confine del nemico? Non è possibile: la censura di Stato rimuove la realtà, ovvero rimuove la pietas, l’umanità. Con la compiacenza degli strumenti social, ipocriti strumenti di conoscenza e connessione libera e democratica. Siamo solo all’inizio dello spettacolo, anzi lo spettacolo deve ancora iniziare, e le parole d’ordine sono chiare e irrevocabili: rimozione e negazione.

Die Perser è infatti un viaggio allucinato in ciò che il Potere non vuole farci vedere, un viaggio nella pietas impossibile. E in ciò che noi non ci immagineremmo di poter vedere: un magma di parole, visioni, azioni, personaggi, che fluttuano nell’orizzonte di questi anni ’20, ambigui, contraddittori, indecifrabili, a cui è difficile restituire un senso, e che pure un senso da qualche parte avranno.
Mentre lo schermo con il messaggio della rimozione invade il boccascena e il pubblico prende posto, una bambina in un angolo, sdraiata su un tappetino persiano, gioca con i soldatini. Entra il coro degli anziani persiani, qui trasformato in un gruppo di cinque ragazze bionde in leggins e tenuta da fitness, introdotto da Nothing Compares 2 U cantata da Sinead O’Connor. La bambina corre ad abbracciarle mentre loro fanno vistose smorfie di dolore, poi esce col tappetino. A questo punto inizia il testo – sintetizzato – della tragedia di Eschilo, declamato all’unisono. Il coro esce, lo schermo si alza e finalmente possiamo vedere ciò che era stato censurato. È uno scenario da film bellico, che sembra debitore della nuova ondata di crudo e cruento iperrealismo immersivo, tra Dunkirk e 1917, passando per Niente di nuovo sul fronte occidentale: una collina avvolta da vapori e solcata da bombe che esplodono, mentre sullo sfondo sono proiettate immagini in bianco e nero di guerre del 900. Una lunghissima scena muta in cui lentamente si intravedono i corpi di due soldati che giacciono supini, rantolanti, con le budella a penzoloni, mentre le ragazze del coro rientrano, come zombi affamati e spietati o influencer Instagram (che è lo stesso), a farsi i selfie e lanciarsi in amplessi erotici con gli agonizzanti, a dilaniarne le membra o agghindarsi con le budella sanguinolente in sequenze horror che in teatro hanno tinte da grandguignol. Forse è questo il rimosso proibito dal governo? La guerra come macello osceno della carne, come fagocitazione del dolore attraverso la superficialità dello sguardo contemporaneo dei social?

Lo slittamento dalla tragedia di Eschilo è deciso, eppure si sbaglierebbe a pensare di aver capito la traiettoria del discorso. Perché questo non è uno spettacolo di denuncia e non è uno spettacolo politico, se non quanto di denuncia e politico poteva essere il teatro ateniese che calava nell’orrore della visione e dell’evocazione il più alto senso etico e spirituale dell’essere cittadini. E dove questo senso si è perso, dove non è più praticato il cambio di prospettiva, il mettersi nei panni dell’altro, allora rimangono macerie e frammenti di un discorso inintelligibile, dalle direttrici sghembe, colmo di segni densi e imperscrutabili.
E intanto la tragedia di Eschilo rimbalza nelle voci dei personaggi. La regina madre, come una bionda diva decaduta, ma ancora energica e volitiva, solca la collina della morte rievocando l’incubo-presagio della sventura, e chiedendo alle ragazze del coro informazioni su Atene: possibile che non abbiano un re a capo? È la “democrazia”, bellezza! Uno dei soldati sbranati e stuprati nella scena iniziale si alza dal suo letto di morte, ripulendosi e riacquistando il braccio amputato: è lui il Messaggero che racconta la disfatta dell’esercito di Serse. La regina madre rientra conducendo la bambina velata e acconciata come per un rito sacrificale, adagiandola su quella collina maledetta. Una grande parete si leva nascondendo la collina e mostrando uno schermo e, nelle nicchie, un caminetto, qualche libro, una foto ricordo, un narghilè e un cilindro che sembra Alexa. Lo schermo mostra in diretta il primo piano della bambina adagiata sui fiori, come una salma in attesa di sepoltura. È infatti giunto il momento dei morti. Dal fondo emerge il fantasma di Dario in completo bianco, ciondoli e anelli da potente e vistoso oligarca, che si acconcia vanitosamente la chioma intrisa di gel. È sua la parete del caminetto e dello schermo, che si rivela essere il monitor delle telecamere di sicurezza con le quali controlla, probabilmente dall’oltretomba, le stanze del suo palazzo, e dove adesso compare il suo favoloso yacht ripreso da tutte le angolature. La moglie lo riceve come in una sequenza televisiva da soap opera, mentre le ragazze del coro imbracciano un mitra. La scena della rivelazione eschilea della hybris diventa così il teatrino grottesco dove la vanità aristocratica del denaro e del potere gigioneggia annoiatamente e retoricamente, mentre la pietas del coro cede a una rinnovata pulsione di guerra e di morte.

Lo scambio di battute tra Dario, la regina e il coro, sbriciola i versi di Eschilo nel bavardage di due incartapecoriti detentori del potere e della ricchezza con l’esercito farlocco di ragazzotte pronte alla guerra in mitra e leggins. Nella tragedia di Eschilo sarebbe il momento del climax con l’arrivo sconvolgente dello sconvolto Serse, l’arrogante sconfitto, che si lancia in un lungo e sofferto discorso che ricompone l’unità di senso. Nello spettacolo di Rahimi, eccolo qui il climax con il Serse figlio di cotanta coppia, che altri non è se non il soldato morto e dilaniato e il messaggero pavido e imbarazzato: eccolo arrivare per la fatidica scena finale. Dice solo: sono stato sconfitto. E il padre dal gaudente oltretomba: lo so. E la madre alza una pietra per scagliargliela contro, senza riuscirci. Tutto qui.
Perché è difficile trovare parole per la sconfitta, e non basta neanche Eschilo, ma soprattutto è difficile trovare parole per la guerra vista da un ventunesimo secolo solcato dalla memoria di milioni di morti e dalla cronaca dell’eccidio in Ucraina e in mille altri luoghi dimenticati del mondo. E così Serse, l’orgoglioso e presuntuoso Putin d’altri tempi che vuole conquistare una Kiev democratica che come la democratica Atene sfugge alla comprensione verticistica dell’invasore, quel Serse non ha parole, forse non le sa usare (magari preferisce il mitra alla parola, la guerra alla diplomazia), forse è annichilito da una reazione che non immaginava, forse è semplicemente un idiota, come tanti ce ne sono al potere, tanto ambiziosi quanto incapaci. Quel Serse adesso sembra un giovincello sciocco che ha combinato un pasticcio e che il padre osserva con comprensivo fastidio, pronto a mollargli uno scapaccione. Non era un gioco di soldatini la guerra vista all’inizio? E che vuoi che siano migliaia di vite umane spezzate come in un film da effetti speciali? Andrà meglio la prossima volta.

E così ora Serse è solo, solo proprio con quella bambina, che prende per mano, di fronte alla collina della morte, spalle al pubblico, in un’immagine folgorante di disarmata e umana innocenza, mentre i fari inondano di luce gli occhi del pubblico. Ma non è finita. Rientra il coro delle ragazze, questa volta vestite con uno chador nero, che ci porta altrove, verso un’altra declinazione possibile dello sguardo europeo sui Persiani: quello attuale, verso la Persia e i persiani di oggi, verso l’Iran e un regime che impone alla donna la negazione del corpo. La scena finale è un girotondo impazzito, con le ragazze in chador che scandiscono i nomi dei condottieri persiani morti a Salamina, ripetendo i versi eschilei con un ritmo ossessivo e martellante, come un sabba o una haka, mentre la regina scarmigliata, circondata dalle ragazze, si denuda il petto, lassù sulla collina, in un contrasto violentissimo tra lo chador e la nudità, tra il nero dei veli e il biondo dei capelli, e la ripetizione dei nomi esotici dei generali periti in battaglia risuona tribale come un esorcismo o un mantra ormai folle e incomprensibile.
E infine, nel silenzio, la bambina rientra, pilotando col telecomando un carrarmato giocattolo. Il carrarmato arriva fino al centro del boccascena. Si gira verso il pubblico. Pronto a fare fuoco. Fine.

Die Perser, dicevo, è un viaggio allucinato nel rimosso, là dove si incrociano temi e urgenze, precipitati in segni assoluti attraverso personaggi cangianti e misteriosi. Le ragazze da fitness, un po’ zombi e un po’ influencer, con il mitra e con lo chador, sono il frullato enigmatico di una umanità contraddittoria e confusa, ma anche proiezioni semantiche di ‘assoluti’ con i quali non sappiamo davvero fare i conti: il contenuto, d’altra parte, è stato rimosso, e rimangono solo le ombre, caricaturali, di una realtà fenomenica che vacilla davanti alle nuove frontiere del fake e della simulazione. Dario, la regina e Serse formano una famiglia disarticolata, di fanfaroni e di inetti, di isterici e di arroganti, dove la sofferenza è un gioco, un vomito verbale che si infrange sui segni decadenti e decaduti di un’idea di esistenza aristocratica se non mafiosa.
La sensazione alla fine dello spettacolo è di essere entrati in un incubo indecifrabile, un frullato di segni che ricompongono in modo visionario e straniante ciò che non siamo più in grado di vedere o che non ci è consentito di vedere. È questa la guerra? È questo il dolore? È questo lo specchio dei tempi, anno 2023? All’inizio una bambina gioca con i soldatini il suo gioco di morte; abbiamo attraversato l’orrore del sangue, l’orrore del potere, l’orrore della sopraffazione; e alla fine la bambina torna con un carrarmato e lo punta verso di noi. Perché siamo tutti persiani. E la Storia non insegna.

Die Perser, di Eschilo, traduzione Kurt Steinmann; regia Sahar Rahimi; scene e costumi Evi Bauer; video design Joscha Eckert; musica e sound design Niklas Kraft; lighting design Vassilios Chassapakis; direttore del coro Julia Kiesler; drammaturgia Kris Merken. Con Edgar Eckert, Katja Gaudard, Julian Anatol Schneider; coro Sascha Annina Bitterli, Katharina Gieron, Lilly Hartmann, Emma Madita Mösch, Alina Maria Schmidli. Prima assoluta: Basilea, Theater Basel, 17 marzo 2023.
Visto a: Basilea, Theater Basel, 23 marzo 2023.

Fotografie di Eike Walkenhorst.

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