Ramy, il corpo della rivoluzione

È maledettamente difficile parlare di uno spettacolo come Ramy – The voice of revolution di Babilonia Teatri senza cadere in un’involontaria retorica. Il problema è che sul palcoscenico non si parla più o meno astrattamente di una rivoluzione, anzi di una strage in atto da anni, come viene ricordato all’inizio. Sul palcoscenico sta il testimone diretto di quella rivoluzione e di quella strage, un esiliato dal regime, un ricercato, uno che se lo prendono finisce molto male. È una cosa maledettamente seria, altro che teatro. E quel testimone, quel protagonista, Ramy Essam, non sta lì solo in quanto testimone, ma perché è un artista, e la sua testimonianza ha il corpo della poesia e della musica. È una cosa maledettamente seria questo teatro, che il pubblico italiano vive nell’entusiasmo di chi è partecipe, e al tempo stesso nella sensazione sgradevole di essere fuori luogo nelle calde poltrone di un teatro occidentale ad ascoltare di stragi lontane eppure così vicine, in Egitto, dall’altra parte del mare. E così, è difficile parlarne: se parli di teatro ne tradisci il fortissimo senso politico, se parli di politica rischi di non coglierne la complessità drammaturgica che pure è fondamentale e senza la quale ci troveremmo a un semplice raduno di denuncia. È una cosa maledettamente seria questo Ramy – The voice of revolution.

Maledetta primavera: era il 2012 quando Enrico Castellani e Valeria Raimondi furono coinvolti in un progetto internazionale dedicato alla primavera araba, e quello era il titolo che scelsero per il loro lavoro dedicato all’Egitto. Occorre ripartire da qui per capire un po’ meglio come oggi siano tornati sullo stesso tema, a dieci anni di distanza. Maledetta primavera, con l’inevitabile presenza musicale della canzone di Loretta Goggi, è stato uno di quei progetti apparentemente marginali nella loro teatrografia, e tuttavia, proprio per la loro marginalità, specchio di un’ebollizione artistica in atto. Un non-spettacolo (di fatto un’installazione performativa) con il titolo in italiano (quasi mai usato fino ad allora dalla compagnia), la completa assenza di attori in scena, di corpi, e un testo che per la prima volta rappresentava la confessione autobiografica di un personaggio, una madre, con sullo sfondo la rivolta di piazza Tahrir contro Mubarak. Rappresentato raramente, forse, se non sbaglio, una sola volta al Teatro Argentina a Roma. In scena un gigantesco tronco spezzato in più punti, e poi rami sospesi e alla fine una pioggia di petali di rosa, mentre per tutto il tempo si sentiva la voce di Valeria raccontare del figlio di un anno e della solitudine per un uomo partito per fare la rivoluzione, con le frasi che si rincorrono tra piano pubblico e piano privato: dal politico “è caduto mubarak” al casalingo “è caduto luca”, il bambino. Forse già allora c’era la percezione che parlare di quella rivolta nel lontano Egitto era una cosa maledettamente seria, al punto da rivoltare ogni precedente schema del loro lavoro. Lo spiegava lo stesso Castellani, autore del testo: “il mondo arabo è un mondo che non conosco sufficientemente a fondo”. Maledetta primavera raccontava espressamente “l’abisso” tra l’artista occidentale che osserva mondi lontani e indecifrabili attraverso uno schermo, notizie filtrate e silenzi, e quella realtà, che era non solo la rivoluzione egiziana, ma era anche la cultura araba, il primo orizzonte africano, le istanze complesse del mondo postcoloniale che i vecchi Paesi colonialisti non hanno mai saputo e voluto raccontare. Spezzoni di un tronco gigantesco, una pioggia di petali, la voce al posto del corpo, la caduta di Luca che pareggia quella di Mubarak… è l’immagine di una maledetta rivoluzione in una maledetta primavera vista da un maledetto posto d’osservazione, lontano lontano.

La forza di Ramy – The voice of revolution parte dalla fragilità di Maledetta primavera. Perché nel frattempo è accaduto qualcosa. La “voce della rivoluzione”, come dice il titolo, si è materializzata in un corpo, ha un nome, ed è quel nome, non un generico Luca, a campeggiare nel titolo, a essere il perno vero della narrazione, a concentrare su di sé il senso politico e la testimonianza personale: Ramy Essam, ossia il cantante che a piazza Tahrir c’era e che ha cantato nelle manifestazioni antigovernative, contro l’oppressione, per la libertà, diventando la voce di quella rivoluzione appunto. Il cantante che dal 2014 vive in esilio nei paesi scandinavi, ricercato dal regime con un mandato di cattura per terrorismo. Un terrorismo che passa unicamente attraverso la musica che invoca la libertà: ed è vero, è proprio questo a fare terrore ai dittatori. Il senso dello spettacolo, insomma, sta tutto nella presenza di Ramy in scena, nella forza della sua stessa presenza, di fronte alla quale Babilonia Teatri fa un passo indietro, come aveva fatto in Maledetta primavera. Ma questa volta mettendo al centro non un albero spezzato, bensì un albero umano, un corpo reale, che porta con sé i fiori e i frutti di un impegno artistico e politico.
Lo spettacolo inizia, anche qui, con la voce fuori campo di Valeria, che introduce il lavoro dichiarando, anche qui, la difficoltà di approccio a una materia così ‘lontana’. Tanto più, oggi, in quanto filtrata da quell’approccio mediatico ipocrita che rilegge tutto attraverso la lente dell’italianità, e che nel caso dell’Egitto porta il nome di Giulio Regeni. Senza le sue torture e il suo delitto, la strage quotidiana vissuta da tanti oppositori in Egitto – nelle strade o nelle carceri dove vanno in scena torture e delitti – non sarebbe arrivata in Italia se non nel rumore di fondo delle notizie remote a cui non si fa caso, ma nonostante questo, quella strage continua a rimanere lontana, in penombra, ai limiti del ‘tipico’, dell’esotico: di fatto, la ragion di Stato ha impedito e sta impedendo in Italia non solo di far luce sul delitto Regeni, ma anche di far comprendere la reale portata dei crimini di Stato sistematicamente perpetrati in Egitto ai danni dei suoi cittadini, la strage insomma.

Poi, dopo le parole di Valeria, tocca a Ramy. Il suo è di fatto un concerto delle sue canzoni di lotta, più o meno esplicite e sferzanti, più o meno amaramente sarcastiche, più o meno poetiche, come nell’emozionante brano in cui mette in musica la lettera dal carcere del giovane amico che da quel carcere non uscirà mai più. Canzoni vibranti, portate con una voce decisa, a tratti graffiante, con musiche cadenzate da canti di lotta da scandire in manifestazioni, con il retrogusto per noi italiani della grande stagione della canzone politica degli anni 70, o con musiche più melodiche da cantautorato politico, o ancora più rock, sostenute da una chitarra che è una e sembrano mille. Ramy è imponente al centro della scena, magnetico, carismatico, anche quando alle sue spalle scorrono poche immagini video: basta lui a concentrare sul suo corpo, sulla sua voce, sulla sua musica tutto quello che c’è da capire e da condividere. E sulle sue parole, quando racconta, quando spiega, aiutato da un’interprete in simultanea: è importante che le parole che dice non abbiano i soprattitoli che invece hanno le canzoni, e che siano tradotte all’impronta e filtrate da un’interprete, perché questo restituisce il senso profondo di qualcosa che sta accadendo ora e che richiede di essere vissuto non solo come uno spettacolo o un concerto – che pure è – ma come un atto immanente di testimonianza. L’epifania di una realtà che avviene in questo istante, come la strage che non è solo narrazione ma oggettiva realtà che sta accadendo proprio ora, nelle strade e nelle carceri d’Egitto.
In un certo senso Ramy è un objet trouvé come i tanti che caratterizzano il teatro di Babilonia Teatri, ossia una scheggia di realtà che si impone sulla scena in quanto tale. Una scheggia di realtà che ha la forma di un corpo non conforme, come i protagonisti di tanti altri lavori, da Pinocchio a Purgatorio, qui non conforme perché ribelle. E dunque, una scheggia pop, rock, punk, come proclamavano Castellani e Raimondi alle origini del loro teatro: e quanto quelle dichiarazioni fossero profonde allora lo percepiamo con maggior forza oggi in questo spettacolo. Ramy – The voice of revolution è un atto politico ed è anche, intrinsecamente, uno spettacolo di Babilonia Teatri: pop, rock, punk. E forse sono teatralmente superflui gli inserti di ulteriore schegge di realtà, come i palloni che piovono dall’alto a ricordare la spaventosa strage di Port Said al termine di una partita di calcio con la complicità della polizia, oppure la telecamera che riprende il primissimo piano di Enrico che riporta l’esperienza di Ramy al confronto con il nostro sguardo, o ancora le scritte in arabo tracciate col gesso da Ramy per terra (pace, rivoluzione…). Eppure sono anche teatralmente necessari, a ricordarci che questo non è un semplice teatro documentario, dove ti basta assemblare informazioni, nozioni, spiegazioni, oggetti, immagini, per istruire o informare il pubblico. C’è poco da istruire, c’è poco da informare. Semmai c’è molto da sentire, attraverso le canzoni di Ramy Essam, attraverso la sua voce che racconta poche cose, ma destinate a rimanere inchiodate nella coscienza. Insomma, forse non ne sappiamo molto di più sull’Egitto, ma sentiamo quel che c’è da fare, da alzarsi e cantare, manifestare, prendere Ramy per mano e credere fiduciosamente nella caduta dei dittatori e nella libertà.

Alla fine di Maledetta primavera entrava Luca, non il bambino ma il tecnico, presenza imprescindibile e attiva nei lavori di Babilonia Teatri: entrava e spazzava via i petali, come fosse la rimozione di quella primavera araba poco comprensibile e lontana, o come fosse il risveglio da uno strano sogno di rivoluzioni, bambini e tronchi caduti. Quasi con discrezione, la compagnia teatrale che lì aveva rinunciato ai corpi, allestendo un’installazione visivo-sonora per provare a parlare di qualcosa che non conosceva, si ritirava sommessamente e umilmente. Adesso, alla fine di Ramy – The voice of revolution, non ci sono petali, non c’è rimozione, forse non c’è ancora una conoscenza approfondita, ma c’è quel sentire che può smuovere tutto, e che riguarda non solo chi in Egitto lotta per la libertà, ma anche chi in Italia lotta per la consapevolezza. Enrico, Valeria, Ramy e la traduttrice avanzano con i loro corpi sul proscenio, in una visione plastica ed esplicita, con quattro torce accese che poi vengono spente in un secchio, una dopo l’altra. A chi toccherà ora alimentare la fiamma della rivoluzione, della consapevolezza?

Ramy – The voice of revolution di Valeria Raimondi e Enrico Castellani – Babilonia Teatri; con Ramy Essam, Enrico Castellani, Valeria Raimondi e Amani Sadat, Luca Scotton; luci Babilonia Teatri/Luca Scotton; direzione di scena e video design Luca Scotton; produzione Teatro Metastasio di Prato; coproduzione Festival delle Colline torinesi; prima assoluta: 23 febbraio 2022.
Visto a: Casalecchio di Reno, Teatro Comunale Laura Betti, 10 febbraio 2023.

Le foto di Ramy sono di Eleonora Cavallo, la foto di Maledetta primavera è di Alessio Nisi.

Un commento

  1. Mi dispiace di non aver visto lo spettacolo,ma da quello che ho letto e’ di una grande potenza e attualità . Mi sento sempre più onorato di aver e di collaborare con queste meravigliose persone ,che non stanno sulla superfice dei problemi ,ma hanno la capacità di approfondire e di fare emergere anche i lati più oscuri .

    "Mi piace"

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...