L’oracolo della cassiera

La cassiera del supermercato è un ingranaggio pressoché invisibile, totalmente intercambiabile, sicuramente automatico: un braccio meccanico che passa oggetti su un nastro e prende soldi. Le cassiere stanno in fila in postazioni che le riducono chaplinianamente a rotelle di una macchina che le avvolge: la cassa come uno scudo, una macchina bellica, un esoscheletro. Le cassiere in fila sono un coro muto, afasico se non per parole funzionali, un coro silenzioso sovrastato dai bip del lettore dei codici a barre, dal rumore di fondo del supermercato, dalle frasi di circostanza per un tasto battuto male o un’indicazione al cliente, schiacciato dal peso degli ordini di lavoro e dall’indifferenza di chi passa, paga e se ne va… Finché arrivano Vaiva Grainytė, Lina Lapelytė e Rugilė Barzdžiukaitė a dare voce a quel coro, anzi a quelle individualità, che ti dicono Have a good day!, buona giornata, come uno schermo per i loro universi esistenziali. Have a good day! è un coro, anzi è l’ascolto di un coro altrimenti inascoltato. Anzi, è la contemplazione assorta di una figura che osserviamo distrattamente. Ma niente Ken Loach, niente teatro documentario… semmai qualcosa che assomiglia all’epifania misteriosa del quotidiano, come un rito. Un rito sacro nel cuore del commercio.

Il pubblico entra in sala varcando una barriera antitaccheggio presidiata da due guardie. La sala rimanda solo molto simbolicamente a un supermercato, e questo è già un indizio: sulla testa i neon sparati, di fronte dieci cassiere su altrettanti piedistalli che leggono codici a barre, tutt’attorno il rumore ovattato di un supermercato in un candore irreale. Il realismo è evaporato, rimangono fantasmi bloccati per tutta la durata nell’unica postura riconoscibile per una cassiera, quella seduta. Per meno di un’ora le dieci interpreti rigurgitano nel canto una miscela di frasi di circostanza da supermercato, di flussi di coscienza composti da frustrazioni e desideri e da frammenti di vite semplici dolorosamente schiacciate in fondo al silenzio imposto dal lavoro: la sveglia all’alba per prendere il primo autobus nel gelo invernale, il dottorato ambìto a cui dover rinunciare, il figlio emigrato in Inghilterra da andare a trovare, il gatto che aspetta a casa mentre si fa tardi col lavoro, la cassiera immigrata dal nome impronunciabile e dalle festività che non coincidono con il calendario ufficiale… e ancora gli assalti di clienti collerici, le reprimenda della direzione, la mancanza di resto, e soprattutto la valanga elefantiaca di prodotti in vendita: ortaggi, yogurt, formaggi, cioccolata, regali di Natale o San Valentino, guinzagli e abbigliamento, scontati o a prezzo intero, un oceano di prodotti trattati come tali o come teneri compagni di strada, o figli. Come nello struggente brano iniziale: la ninna nanna delle merci, cantata con voce fragile – e potente al tempo stesso – dalla cassiera anziana. L’incipit delicato della materna ninna nanna alle merci è uno sconvolgente cortocircuito concettuale, una sventola emotiva tinta di amara ironia.
Dopo la ninna nanna e la notte, il supermercato riapre: è il momento del “buona giornata” di rito, cantato giulivamente, e poi fino alla fine scorre il flusso continuo delle parole che mescolano commercio e sentimento, ricordando che “ogni singolo giorno è un regalo”. Il canto è quasi esclusivamente a cappella; su un lato sta un pianoforte, suonato dal “responsabile della sicurezza” del supermercato, che solo in brevi momenti interferisce nella partitura vocale. Una musica minimalista e un canto molto scandito, a tratti martellante, quasi a restituire la riduzione delle cassiere ad automi, spesso insistito su una nota ossessiva, più spesso modulato in scale lineari e implacabili come i bip sui codici a barre. Ma nonostante questo, nonostante la divisa comune, nonostante la posa identica nell’abbacinante bianco asettico della scena, nonostante l’assimilazione delle dieci cassiere in un’unica figura impersonale, ciascuna di loro ha una vita, una storia, un mondo, che trapela solo a tratti, nelle diverse voci, lirica o leggera, che aprono squarci di micronarrazioni o microritratti, che irrompono folgoranti tra la menzione di una patata, una birra o un cavoletto di Bruxelles.

E il pubblico guarda, dal basso in alto, le cassiere cantanti sui loro piedistalli, immobili come statue antiche, oranti come oracoli del nostro presente. Perché, in fin dei conti, il coro dolente delle cassiere, il lamento di vite mutilate o costrette in un lavoro alienante senza parvenza di lotta di classe, che in alcuni momenti tocca corde di commozione in corto circuito con lampi d’ironia, non è un semplice atto di denuncia sindacale delle condizioni di una fascia di lavoratrici: qui non c’è Ken Loach, dicevo prima, né teatro documentario o teatro sociale. Qui il pubblico osserva l’epifania della Cassiera sul piedistallo come fosse una Pizia contemporanea della condizione umana nell’epoca del consumismo post-capitalista. Io vendo, io compro: ossia, l’assimilazione completa della persona nella figura del venditore-consumatore come figura archetipica della nostra società, impossibile da rimettere in discussione. Io vendo, io compro, semplicemente perché io esisto. Anzi, io esisto, dicono le nostre cassiere cartesiane, perché vendo e compro, ergo sum. È questo il canto che arriva dalle dieci sacerdotesse dei nostri acquisti quotidiani, che hanno interrotto il coro muto della realtà per alzare – nello spazio rituale del teatro – un coro poetico di rivelazione della sofferenza nel mondo del consumo. Ossia, la sofferenza della lavoratrice sfruttata e frustrata, la sofferenza del cliente che non sa di soffrire e crede nell’onnipotenza del suo denaro, e anche la sofferenza del rapanello strozzato dai cetrioli.
Nulla muta, e nulla evolve. Ti aspetti che succeda qualcosa, che una di loro si alzi e faccia un gesto o un’azione, che parlino tra loro, che compaia un oggetto a rompere il lindore asettico e alienato, che irrompa dall’esterno un qualcosa, anche solo un rumore: nulla. Il coro procede implacabilmente nella descrizione di una condizione di cui non si vede inizio né fine, perché non c’è più memoria dell’inizio, di quando tutto è iniziato, e non c’è speranza di una fine. Non ci sono storie nel dopostoria, solo la condizione permanente di un consumismo che intrappola le persone nella loro funzionalità al sistema. E così, le dieci cassiere stanno immobili sulle loro sedute, a cantare di offerte, di sconti, di euro che mancano o che servono, di sogni di un viaggio a Portofino o di un gufo da pizzicare. Il loro canto, modulato in assoli rarefatti o contrappunti incalzanti, si spande come una rivelazione. Come l’epifania di un nuovo senso del sacro nello spazio profano. Come un rito che ci accomuna, e che le vede officianti. Come una poesia dei nostri tempi. La poesia della cassiera che ci presenta il conto della spesa. E il conto della nostra condizione.

Have a good day! opera lirica contemporanea per 10 cassiere, suoni del supermercato e pianoforte; concept Vaiva Grainytė, Lina Lapelytė, Rugilė Barzdžiukaitė; libretto Vaiva Grainytė; compositrice e direttrice musicale Lina Lapelytė; regia e scene Rugilė Barzdžiukaitė; cassiere Indrė Anankaitė-Kalašnikovienė, Liucina Blaževič, Vida Valuckienė, Veronika Čičinskaitė-Golovanova, Lina Valionienė, Rima Šovienė, Milda Švelnienė, Rita Račiūnienė, Svetlana Bagdonaitė, Kristina Svolkinaitė; responsabile sicurezza (pianista) Kęstutis Pavalkis; lighting designer Eugenijus Sabaliauskas; costume designer Daiva Samajauskaitė; sound engineer Arūnas Zujus; produzione Operomanija; prima assoluta: Vilnius, Contemporary Art Center, 11 aprile 2011.
Visto a: Bologna, Teatri di Vita, 3 febbraio 2023. Rappresentazione a cura di Lorenzo Balbi, promossa da MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna, Istituto di Cultura Lituano e Ambasciata Lituana in Italia in collaborazione con Teatri di Vita, per ART CITY Bologna.

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