Roversi, poesia di resistenza

È curioso passare dal centenario del più eclatante protagonista della vita intellettuale della seconda metà del 900 a quello del più schivo anti-protagonista, anche pensando quanto i due poeti e osservatori critici della realtà italiana in mutamento siano stati amici e abbiano condiviso progetti. E però sarebbe sbagliato pensare a Pier Paolo Pasolini e Roberto Roversi in termini antitetici, e all’anniversario del secondo come a un’occasione in minore. Perché Roversi, che si era ritagliato un’identità apparente da letterato appartato, eremitico, provinciale, è stato testimone lucido e arrabbiato di un’epoca complessa, che ha attraversato con una modernità inusitata, esemplare, assoluta: dal suo angolo privilegiato, perché lontano dai riflettori, e dunque dalle ambiguità e dai compromessi di quei riflettori, ha sparso parole come coriandoli esplosivi, con una intensità di senso, una magmaticità formale e un’invenzione editoriale e distributiva, la cui combinazione rappresenta un unicum nella storia intellettuale italiana. A cent’anni dalla nascita (28 gennaio 1923) e a vent’anni dalla morte (14 settembre 2012) Roversi ci interroga dal mare magnum della sua opera, ancora ben al di là di una sistemazione complessiva per l’incredibile quantità di interventi, ma quella sua opera è poco conosciuta, poco letta, poco ascoltata: “I miei versi sono fogli gettati / sopra la terra dei morti”.

Sono proprio i versi a identificarlo generalmente come poeta, ma con Roversi è difficile procedere con le etichette. Quali versi? I suoi sono poesia e spesso sono anche altro, affondando le radici nella poesia civile ottocentesca e rifiorendo come poesia storica, politica, sociale, critica, in versi d’occasione, dove l’occasione è quella necessità di ascolto dell’attualità e di dialogo, anzi di sollecitazione di quella stessa attualità: i versi come confronto netto, serrato, visionario e illuminista al tempo stesso, marxista anti-ideologico, umanista a-cattolico, calato nel qui-e-ora con la dimensione della Storia. Polemico contro la società che lo circonda, ma capace di una coerenza ben lontana dai tanti polemisti mediatici. Arrabbiato ma non rabbioso, perché la sua rabbia era profonda e totale, portata dall’idea che la Resistenza non si era conclusa nel ’45, ma doveva proseguire in una lotta continua con le armi della parola e della dirittura umana e intellettuale. Una lotta contro il neocapitalismo vorace e le forme di un potere selvaggiamente autoreferenziale che mantiene i cittadini come sudditi attraverso le mille forme subdole di un sistema pervasivo e di un’economia disumana. Una lotta nel nome della persona e della sua dignità, anche attraversando gli anni di piombo e fronteggiando eroicamente l’epoca della disgregazione culturale e politica.
Ecco allora quei suoi versi che pretendevano non di descrivere il mondo, ma di entrarvi a gamba tesa: atto di poesia politica per la sua concezione comunicativa prima che per i suoi contenuti. Versi che quindi si impiantano nella grande tradizione poetica italiana e al tempo stesso ne forzano i recinti, fondendosi e confondendosi con il discorso critico o l’analisi sociale. Era stata una delle scommesse condivise con Pasolini e Francesco Leonetti quando negli anni ’50 i tre fondarono una rivista esemplare, “Officina”: l’idea di un laboratorio permanente di osservazione dei modelli sociali, economici e politici di un’Italia còlta al volgere del boom economico e della sua definitiva dannazione, da interpretare – sotto il segno dei grandi del secolo prima – attraverso un’idea di poesia da rifondare, nel corpo e nella pelle, da riplasmare, da risemantizzare, da reidentificare, tra versi anti-poetici e poesia che si infiltra nella prosa, certo non una cosa inedita, ma con quello spirito sì, ineditamente oltraggiosa.

I versi di Roversi galoppano con furore e limpidezza, in mille occasioni sparse e in grandi cicli come epopee di sofferta testimonianza politica (e storica: forse solo Roversi ha avuto un così forte senso della Storia nella sua poesia, pur plasmata sul presente), da Dopo Campoformio alle Descrizioni in atto alla grande folgorazione de L’Italia sepolta sotto la neve: “Poiché non c’è occasione per un solo grande dolore / assumo mille rimedi e medico le ferite della speranza / lascio cadere i miei occhi sulla brace / mi confronto con la spada del mondo”. Roversi si confronta con la spada del mondo scegliendo la posizione di lotta più imprevedibile, davvero unica e sorprendente, sposando il rigore etico con la strategia concettuale: si sottrae agli editori, ai riflettori, alla visibilità mediatica, a costo di scomparire. Una scelta radicale di libertà, forte del lavoro nella sua libreria antiquaria Palmaverde (quasi tutte le fotografie lo vedono emblematicamente, prometeicamente immerso nei libri) che diventa incredibilmente punto di osservazione su una città come Bologna, tanto amata quanto incalzata nelle sue responsabilità e contraddizioni, e sul mondo. Un’isola di pace e di lotta, alla quale solo un certo mondo arriva attratto dalla sua voce e da una straordinaria capacità di ascolto e di restituzione, che si materializza nelle parole e in uno sguardo penetrante e mite. Intellettuali, giovani e poeti hanno mandato per decenni le loro scritture, e Roversi per decenni ha letto e risposto, incontrato, discusso, inventato con molti di loro modelli nuovi di comunicazione e di distribuzione, lontano dagli editori, dai giornali, dalla televisione. Sempre in nome della libertà, sempre in nome di quella resistenza continua. Dopo il 1968 Roversi scompare dai radar della cultura da copertina e, mentre i primi terroristi entrano in clandestinità, si tuffa in una ben diversa e più assordante e visibile clandestinità in canali marginali o autarchici, con una iper-produzione radicale di poesie, prose, analisi, scritture, interventi, e ancora riviste, dalla storica “Rendiconti” fondata nel 1961 alle tante nuove forme per nuove sfide e nuove battaglie in forma di poesia e di politica, da “Dispacci” a “Lo Spartivento”, e poi tanti fogli, ciclostilati… L’opera di Roversi si frantuma in un’infinità di frammenti e interventi sparsi di complicata ricomposizione per un superficiale curatore dell’opera omnia: l’imprendibilità del poeta libero, dell’uomo libero, è resa tangibile attraverso una ricca moltiplicazione di impronte in luoghi sempre diversi ed eccentrici, che sfuggono al monitoraggio, che si sottraggono alla bibliografia completa, fragili tracce di una voce potente in piccole riviste sperdute o in ciclostilati capaci di essere strumenti di una militanza estrema.

Qua e là emergono altri percorsi, a cominciare dal teatro che a metà degli anni ’60 rappresenta il ritorno alla passione adolescenziale e incarna il tentativo di una riformulazione diversa del suo dialogo infinito con la Storia e il tempo presente, a cominciare dal suo primo testo Unterdenlinden, che ridefinisce in modo inquietante la sopravvivenza del nazismo nelle forme attuali della società neocapitalista. O ancora il cinema documentario, al quale presta le sue parole e finanche la voce. O ancora la canzone, uno dei più eclatanti strumenti pop mediatici, proprio ciò che non ci si aspetterebbe, e che invece riflette una delle sue identità più precise: la volontà di dialogo con il popolo, da poeta, continuando nel modo più azzardato quell’idea di una poesia che sfonda i confini e si rimette sempre in gioco. È Lucio Dalla a convincerlo, e dalla collaborazione col musicista cantante (la cui successiva vena autorale deriva nettamente da questo incontro) escono 3 album con brani ‘anomali’ per i canoni della canzonetta italica: Il giorno aveva cinque teste, Anidride solforosa e Automobili che ne sancisce il divorzio per l’ennesima scelta radicale del poeta di non scendere a compromessi con l’industria discografica, ma che non significa la fine di un interesse che lo porta a firmare ancora alcune canzoni per gli Stadio (tra cui la famosa Chiedi chi erano i Beatles).
È stato l’incontro Chiedi chi era Roberto Roversi, qualche giorno fa, ad aprire un centenario lungo tutto il 2023, alla Biblioteca dell’Archiginnasio, grazie al Comune di Bologna e all’editore Pendragon, ossia Antonio Bagnoli, nipote di Roversi e motore della sua conoscenza e diffusione da ormai diversi anni, con un’idea di vitalità del poeta che non si limita alle pubblicazioni, alla valorizzazione del suo patrimonio e alla creazione di un importante e ricco sito internet robertoroversi.it, ma che si allarga al coinvolgimento di giovani, come il gruppo musicale Zois che proprio in questi giorni ha pubblicato un album con sette canzoni inedite di Roversi, Etilene per tutti, che nella versione in vinile è accompagnato da un volume di racconti di giovani autori a cura di Simona Vinci. Chissà cosa direbbe oggi Roversi: i giovani, il domani, i cento anni… ma forse l’ha già detto, in una canzone: “Il giorno di domani / sarà tutto per te / Un goccio di caffè / una zaffata di vento / Prima di voltare la testa / conterò fino a cento / Ma oggi, oggi non è un giorno di festa / Domani, domani, domani / Già oggi è domani”.

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