
Raccontare Giuliano Scabia è come raccontare la vita, e non sembri retorico. Perché la vita non la puoi raccontare davvero, ma solo vivere, cogliere per frammenti e per frammenti provare a condividerla. C’è solo uno strumento che ti consente di “raccontarla” senza farlo, eppure riuscendo a entrarci più di ogni altra cosa, ed è la poesia. Raccontare Giuliano Scabia è possibile solo partendo dalla poesia e sempre lì ritornando, proprio come ha fatto lui, che ha attraversato la sua vita – e il teatro, e il romanzo, e l’insegnamento, e l’attività sociale e politica – sempre con la poesia come stella polare. È dunque ben più di un titolo ad effetto quello scelto da Massimo Marino per il suo racconto nonracconto di Scabia: Il Poeta d’oro. Il gran teatro immaginario di Giuliano Scabia. È il riconoscimento di un’identità centrale da cui tutto si muove nell’opera poliedrica e inetichettabile di Scabia. Poeta. Ma di quei poeti che non chiudono gli orizzonti nell’intimità, non li delimitano nella realtà e nel realismo, e non li forzano nella prescrizione, nella declamazione di un qualsivoglia ‘impegno’. Perché poi, Marino ci ricorda, il poeta Scabia è “d’oro” e il suo “gran teatro” è “immaginario”. Raccontare di Scabia è come raccontare una favola, una visione, una folgorazione, un incantamento.

Dopo la morte di Scabia, avvenuta nel maggio 2021, due libri ci hanno fatto sentire un po’ meno la sua assenza. Il primo è la ristampa del suo Forse un drago nascerà che racconta un’affascinante esperienza alle origini del suo Teatro Vagante, materializzata tra aprile e maggio 1972. Ossia, tre giorni con bambini e ragazzi a inventare una città ideale, costruire e far recitare dei pupazzi, scrivere un giornale, costruire un drago che dovrà combattere contro un cavaliere e poi smontare tutto: un’azione lampo, ripetuta per dodici volte in dodici luoghi d’Abruzzo, da L’Aquila a Pescara, da Fossa a Massa d’Albe, sperimentando un meccanismo teatrale, forse pedagogico, sicuramente politico, inevitabilmente poetico.
Forse un drago nascerà è il suo diario di quegli eventi, con foto, racconti e riflessioni. La riedizione non è semplicemente un’operazione storica, ma soprattutto un atto profondamente contemporaneo, perché contemporanei sono i temi, i modi, gli snodi che Scabia riesce a mettere a punto in quell’occasione, e che ancora oggi, soprattutto oggi, sono necessari per rimettere in gioco la necessità poetica del teatro. Che era poi ciò che muoveva Scabia: la necessità del teatro, unita a quella della poesia e della scrittura. Scrittura che, qui, è capace di risucchiarci nell’entusiasmo del suo fare e del suo riferire, così come nella lucidità del suo riflettere. Il libro, insomma, non è solo un documento e uno studio sul teatro di partecipazione, ma anche un avvincente diario di due mesi di avventura, grazie a una scrittura erede dello sperimentalismo a cui l’autore aveva aderito da giovane, che qui frantuma la narrazione in appunti, punteggiature ardite, schemi e disegnini, che danno al lettore il brivido di assistere in diretta a qualcosa che sta nascendo.
Aggressività e divertimento sono i due poli tra cui si muovono molte azioni svolte durante il progetto abruzzese: Scabia registra tutto, non giudica, osserva, e il suo mettersi in ascolto è già di per sé azione. Azione teatrale, perché poi per Scabia il teatro non ha davvero confini, come la poesia di cui si rivela una materializzazione o una variante: può essere perfino la redazione di un giornale o un’assemblea per dirsi quello che è andato storto. E azione politica, cioè della polis, cioè in grado se non di cambiare le cose, almeno di farle emergere. E proprio la polis è il nucleo concettuale del progetto, ossia la costruzione di una nuova città affidata ai bambini, con gli scatoloni e i materiali a disposizione, e che diventa, per esempio, Nuova Avezzano, Amicopoli (a Teramo) o Minimondo (al quartiere San Donato di Pescara). Nucleo formale è invece lo “schema vuoto”. Agli albori dell’animazione teatrale, di tutte le esperienze di teatro con i ragazzi, di quello che oggi è il sempre più diffuso (e spesso modaiolo) teatro di partecipazione, Scabia mette a punto un sistema, che immediatamente si definisce in modo a-sistematico: lo schema vuoto, appunto. Ossia, un canovaccio, che correttamente Francesco Cappa nella sua introduzione collega alla grande tradizione della Commedia dell’arte: una scaletta, che richiede un forte pensiero creativo iniziale, una grande complessità concettuale e anche drammaturgica, perfino una forte rigidità e al contempo elasticità e capacità di assorbimento delle condizioni nelle quali quello schema va applicato. Il lettore riesce a divertirsi anche in questo, nel vedere come lo schema vuoto esposto all’inizio venga poi declinato in modo diversissimo nelle diverse località, in un vortice di fascinazione delle variabili e delle varianti.

Il secondo libro è, appunto, Il Poeta d’oro. Non una biografia, non un saggio critico, non uno studio storico, non un repertorio documentario: è certamente tutto questo, ma al tempo stesso sfugge dai lacci di quelle scritture, cercando un’altra forma, più libera, all’inseguimento del suo oggetto di scrittura, che della libertà dai recinti aveva fatto una scelta di vita e d’arte, esplorando la possibilità di un racconto aperto.
Il libro di Marino è soprattutto l’appassionato omaggio di un allievo, che negli anni ha nutrito il suo lavoro di critico e studioso dalla frequentazione con il maestro, e che a lui ritorna ora per esplorarne le innumerevoli sfaccettature, riconnettendo i fili del suo lavoro in una trama fitta e cangiante, per restituire l’immagine e la storia di Scabia a chi ha avuto la fortuna di conoscerlo e a chi avrà la possibilità di scoprire in queste pagine la ricchezza seminale di un Poeta assoluto della scrittura e del teatro.
I sette capitoli di questa storia, non a caso racchiusi tra un prologo e un congedo, hanno l’impeto di una drammaturgia allusiva e al tempo stesso sono capaci di restituirci la ricchezza della poesia di Scabia, che si fa teatro o romanzo, e che soprattutto si fa corpo e visione. Perché è poi nel corpo, nel suo corpo, che Scabia precipita la poesia, proponendosi non solo come voce, ma come andante nei boschi e nelle città, in guisa di cavalier fantoccio o di diavolo o anche solo (solo?) di guida carismatica di proletari e sottoproletari nei quartieri torinesi o di degenti psichiatrici o, come detto prima, di bambini a caccia del drago. Corpo che richiama visione, perché è nell’immateriale che la poesia di Scabia si fa oggettiva, concreta, materiale, cioè nella capacità di vedere nei segni tangibili della quotidianità e della storia l’incanto per un possibile magico che alla quotidianità e alla storia deve e sa ritornare: la sua poesia, il suo teatro non sono fuga dalla realtà, ma anzi hanno la grazia rara di saperla guardare dentro e in una prospettiva di trasformazione. La sua, insomma, è una strada profondamente politica, lontana dalla propaganda ma capace di ridisegnare i contorni dei conflitti – degli ‘scontri’, come si legge nel titolo del suo primo volume teatrale – come una condizione imprescindibile della storia e delle relazioni, sulla quale sollecitare un pensiero.
Marino ripercorre la sua vicenda artistica, unica nella storia culturale italiana, in una narrazione tendenzialmente cronologica, ma che rilancia esche continuamente avanti e indietro, mostrando i fili degli innumerevoli percorsi, con preziosa ricchezza di informazioni, spesso di primissima mano, e di fotografie, che ci accompagnano dai primi ‘tremiti’, con Luigi Nono o Lisetta Carmi (e già da questi due primi nomi si intuisce la straordinaria articolazione degli interessi e delle possibilità esplorate da Scabia), attraverso i molti rivoli della sua poesia, instancabilmente capace di prendere forma – sia pure per poco tempo – nei contenitori in cui di volta in volta, come un’acqua vitale, si trova a fluire. E allora, ecco la scoperta del teatro, ecco la nascita dell’animazione all’epoca del decentramento, ecco il Teatro Vagante e Marco Cavallo. Ecco il Gorilla Quadrumàno e la straordinaria avventura dell’insegnamento anti-didattico all’Università di Bologna: raccogliere in un volume quei trent’anni di incredibile sperimentazione con gli studenti di diverse generazioni dagli anni ’70 al nuovo secolo, e ripensarli come un’ascesa di illuminazione, fu la sua ultima fatica prima di morire (Scuola e sentiero verso il Paradiso. Trent’anni di apprendistato teatrale attraversando l’università, a cura di Francesca Gasparini e Gianfranco Anzini, ed. La Casa Usher-Nuova Catarsi, 2021). Ecco poi il Diavolo e il suo Angelo, l’apertura di nuove possibilità al di fuori degli schemi produttivi e distributivi, in un’affollata solitarietà, fatta di scrittura personale e di affabulazione pubblica, e comunque sempre ricca di incontri e relazioni, sempre radicata nelle reti sociali. Ecco la scrittura narrativa, con le due serie di romanzi, il Ciclo dell’eterno andare e la saga di Nane Oca…
Alla fine del libro, la foto che illustra il Congedo ci mostra il Poeta nel suo aspetto più quotidiano, con i capelli bianchi da vecchio saggio e il volto sorridente e malandrino da bambino. E tutto il suo segreto di poeta d’oro, forse, sta proprio qui.
Giuliano Scabia, Forse un drago nascerà. Un’avventura pedagogica di teatro con i ragazzi, saggi di Francesco Cappa e Laura Vallortigara, Milano, Babalibri, 2022, pp. 212, euro 20.
Massimo Marino, Il Poeta d’oro. Il gran teatro immaginario di Giuliano Scabia, Firenze, La Casa Usher, 2022, pp. 248, euro 28.
