Pasolini come se lo immaginano

Calderón

Se c’è una certezza a conclusione del progetto Come devi immaginarmi, curato da Valter Malosti, che ha portato le 6 tragedie di Pasolini in scena prodotte da ERT in questa stagione, è che il teatro di Pasolini è più che mai vivo: non solo già da tempo entrato nel repertorio drammaturgico, ma anche sempre in grado di sorprenderci, ricordandoci che la chiave sta nel considerare le opere teatrali di Pasolini come copioni vivi per la scena e non come reliquie di un santino. Sei spettacoli ce ne hanno dato ulteriore conferma – e proprio il ventaglio completo è stato utile per comprendere meglio la ricchezza di quei testi come materiale incandescente, pronto a rinascere in scena – con una buona maggioranza di ottime proposte, con buona sensibilità interpretativa delle parole ed efficace rielaborazione scenica capace di dialogare con il presente, mentre uno spettacolo ha messo in luce, per contrasto, la strada da evitare. Punto di forza è stata la scelta produttiva di chiamare registi di una generazione orfana di Pasolini, nata negli anni 80 e costretta a immaginarsi – e rifondare – il rapporto con Pasolini, con due eccezioni anagrafiche significative. Ma procediamo con ordine, cominciando da quattro spettacoli che hanno saputo rilanciare potentemente le tragedie di Pasolini sulla scena contemporanea. Con alcuni comuni denominatori: la capacità di ascolto (e rielaborazione) delle parole del testo, la libertà rispetto ai presunti lacci teorici di Pasolini e alla sua ingombrante figura, la sottile ironia che pervade quei testi che altrove ho definito tragedie umoristiche. Tutto ciò ha portato a un perfetto equilibrio tra la necessità di porgere il testo e quella di realizzare uno spettacolo necessario.

Calderón

Fabio Condemi si è avvicinato a Calderón dopo aver incontrato più volte Pasolini, quindi con una competenza intellettuale che, combinata con un saldo pensiero teatrale, ha consentito di presentare uno spettacolo di grande respiro ed efficacia, cioè portando il senso poetico e politico del testo a trasferirsi in una teatralità non posticcia ma scaturita dalle parole stesse. Il punto di forza sta nella destrutturazione dell’opera in diversi momenti teatralmente pressoché autonomi, portando alle estreme conseguenze la struttura modulare (seriale) originaria, concepita dunque come assemblaggio di visioni e sensi differenti piuttosto che come sviluppo narrativo unitario come abitualmente viene concepita. Il risveglio aristocratico è caratterizzato da uno studio quasi geometrico degli spazi, con una rigorosa esplorazione visiva, dove il pianoforte si contrappone al proiettore, dove il ritratto di Franco (che esplicita il rimando storico alla dittatura inserito nel testo, a cui si aggiunge il costume delle sorelle da giovani fasciste) sembra fare da pendant ai citati quadri del Prado, dove insomma il mondo immutabile della ricca Rosaura è perfettamente incastonato in una leggibilità razionale, dentro una scenografia costruita, cioè artefatta e rassicurante, anche se venata di inquietudini. Il secondo risveglio, quello sottoproletario, rimanda invece a un luogo in sottrazione e libertà rispetto alle linee chiuse dello spazio precedente, una landa senza confini e costrizioni, dove è poggiata, come una zattera dopo il naufragio o un nuovo eden reietto, la capanna all’interno della quale si avvicendano i relativi episodi, in un gioco di contrasto tra la claustrofobia socio-ambientale della prostituta e l’altrove.

Calderón

Infine, il risveglio borghese prosciuga l’azione e lo spazio stesso, lasciando solo le parole, dette dai personaggi attorno a un tavolo, con un’idea ben diversa dal semplice teatro senza azione reclamato da Pasolini, con il quale Condemi sembra giocare ironicamente: l’azione manca perché vanificata dalle parole borghesi stesse, come un vaniloquio da cui è stata espunta la realtà. O anche come il segno di una paralisi concettuale, quella della borghesia di fronte alla tragedia di essere sé stessa. Condemi ha colto bene anche il registro dell’umorismo, calibrando tra gli attori una recitazione capace di esplorare un equilibrio tra tragedia e farsa (intellettuale, ça va sans dire), ma anche venando di umorismo concettuale l’intero spettacolo, a cominciare dalla figura dello Speaker, ridicolmente impacciato, per continuare con il grande nodo che quest’opera impone alla sua messinscena, e cioè il quadro di Velázquez Las meninas. Qui il regista individua come punto centrale del discorso non il quadro (e quindi la sua visualizzazione), ma il mettere in cornice, ossia l’autorappresentazione dei personaggi, anzi del Potere che determina come esso debba essere percepito: ed è infatti Basilio che regge la cornice anziché stare nello specchio. Altre intuizioni, in un fiorire di segni teatrali d’impatto e allusivi, rendono questa versione di Calderón una preziosa occasione di reimmersione nell’opera di Pasolini, a cominciare dal risveglio iniziale in cui compaiono le tre Rosaure, come ad anticipare la tripartizione dei blocchi narrativi, per finire con la corretta intuizione della proiezione della fotografia del lager per un solo attimo nel sogno anziché a lungo nella realtà. Corretto non solo per fedeltà al testo, ma anche perché il lager di cui parla Pasolini non è affatto quello di Auschwitz evocato nella foto, ma proprio lo spazio borghese in cui ci troviamo in questo momento. Concetto che si accresce di apocalittica folgorazione con la calata finale del sipario durante la recitazione degli ultimi versi, prima che finiscano, come a rendere palpabile proprio la permanenza di quella condizione nella realtà stessa degli spettatori di uno spettacolo-lager che – come la sceneggiatura di Porno-Teo-Kolossal – non ha fine.

Affabulazione

Di analogo grande respiro è la prova registica e interpretativa di Marco Lorenzi con Affabulazione, a cui probabilmente deve molto anche la presenza di una dramaturg come Laura Olivi, che ha rimodulato il testo originario (anche con tagli significativi e riprese e dislocazioni di versi) offrendone una versione sorprendente. Che si basa su un assunto che sposa due nodi nevralgici del teatro (e non solo) pasoliniano: il sogno e il rito (in senso antropologico e misterico). La storia intera, infatti, è come se fosse un sogno (un incubo) del Padre, ovattato da diversi velatini che si susseguono nella profondità della scena: davanti sta lo spazio in cui l’Ombra di Sofocle introduce al pubblico, poi dietro il primo velatino sta la casa borghese, e poi, dietro ancora, il livello dell’inconscio o della trasfigurazione fantasmatica della realtà e dove dovrà avvenire la manifestazione del sesso e della morte. Il sogno di Affabulazione è scandito sia da lacerti testuali che vagano fin dal prologo trasognato, sia da un suono disturbante nel buio come un acufene nell’affanno del delirio, sia soprattutto dalla vertigine visionaria (in cui si ricollega l’idea del rito) degli agnelli antropomorfi, che sono al tempo stesso dei doppi mitici della famiglia (è percepibile l’eco lontana dei maiali di Porcile) e anche agnelli sacrificali, caprii espiatori di una colpa che grava nell’animo del protagonista e della sua classe sociale. La formidabile intuizione dell’intera storia come sogno innesca dunque il dubbio sulla verità delle cose, che neanche l’epifania finale, con il sollevamento dei velatini, riesce a svelare, mostrando dapprima l’artificio di una scenografia convenzionalmente prospettica, con tanto di fuga delle porte laterali (e sappiamo bene quanto sia importante la porta-soglia come oggetto ricorrente e determinante in questo testo), e poi il vuoto assoluto solcato da sole luci che abbagliano lo spettatore come allucinazioni che sprofondano negli abissi del mito e del rito.

Affabulazione

Immergendosi in quegli abissi, Lorenzi recupera, forse inconsapevolmente, la purtroppo dimenticata drammaturgia visionaria di Pasolini Nel ’46! (che peraltro l’autore non dimenticava affatto scrivendo le sue tragedie, umoristicamente vertiginose). Ed è talmente impregnato di trasfigurazione ultrasensibile e metafisica lo spettacolo, che la parte concepita da Pasolini come confronto diretto con la magia, ossia la lunga e testualmente determinante scena della Negromante, diventa ora superflua fino a scomparire: è l’intera opera, infatti, a presentarsi come la rivelazione di un veggente o una seduta psicanalitica, e tutto sembra essere nient’altro che l’esplosione metatemporale di un attimo di illuminazione, quello che blocca l’intero racconto alle ore 19 (come da orologio sempre fermo) nel tempo-spazio sospeso del sogno o della memoria. La partitura testuale pasoliniana si intreccia così con quella visiva complessiva, disseminata di segni umoristico-grotteschi, che rendono palpabile l’invito dell’Ombra di Sofocle, opportunamente impersonata da un’attrice, alla ritualità fisica e soprattutto visiva del teatro. E proprio l’idea della visione e dello sguardo sostiene scelte significative, precisamente in rapporto al senso del teatro. Infatti, l’uccisione del Figlio non è visibile (a causa dei fari puntati verso il pubblico) come a ribadire non solo l’insostenibilità dello sguardo di fronte al delitto, ma soprattutto il rifiuto alla rappresentazione, proprio quella richiamata dall’Ombra di Sofocle come dimostrazione della realtà: e quindi, ancora una volta, se l’omicidio non è rappresentabile allora forse non è reale, è niente altro che un sogno (e stavolta è percepibile l’eco di Calderón), proprio come tutto ciò che stiamo vedendo. Con un ultimo accorgimento, sul finale, non presente nel testo e totalmente controcorrente (quasi mélo ma con un limpido rigore direi poetico): lo Spirito del Figlio appoggia la giacca sulle spalle del Padre infreddolito, suscitando così un istante di imprevista commozione.

Porcile

Felicemente inattesa è anche la rilettura compiuta dal più anziano dei registi (qui perfettamente in sintonia con le giovani generazioni), Nanni Garella, che si confronta insieme alla sua compagnia di attori con disturbi psichiatrici Arte e Salute con Porcile, ricavandone uno spettacolo anche qui capace di suggerire nuove interpretazioni, grazie a una proficua infedele fedeltà al testo originario. In questo caso, ha giocato favorevolmente la collaborazione con una coreografa come Michela Lucenti e con i performer del suo Balletto Civile, con i quali il corpo e la fisicità del movimento riconquistano centralità, non solo riallacciandosi vagamente a quel timido tentativo di Pasolini di balletto che fu il progetto mai realizzato di Vivo e Coscienza, ma soprattutto apportando un’interessante nuova lettura all’opera originaria. Il punto centrale del lavoro, infatti, è la presenza orgogliosa e volitiva della massa proletaria o sottoproletaria fin dall’inizio, che invece nel testo comparirebbe solo alla fine e in dimensione subalterna e sottomessa in una mera reinterpretazione dell’anghelos classico. Praticamente si tratta di una rivoluzione copernicana dell’opera, che lungi dal tradirla riesce a mostrarne in modo efficace altre prospettive. La massa irrompe fin dall’inizio, ed è una massa viva (Vivo e Coscienza, appunto), che si esprime con il corpo e la coreografia, infrangendo, in tableaux vivants e con rapide corse e scontri, la razionalità di una scenografia – ateniese e palladiana al tempo stesso – con tre porte aperte sullo sfondo. È la massa che si pone fin da subito in alternativa all’individuo, e dunque all’individualismo, ossia all’autistico egotismo di Julian, qui perfetto pendant dell’autistico egotismo dei capitalisti e dei borghesi. Peraltro, è interessante il fatto che nelle scene coreografiche tutti gli attori vi prendano parte, come a porsi in maniera concertata nel senso dell’alterità rispetto al giovane protagonista, al diverso.

Porcile

Anche se non in modo onnicomprensivo come in Affabulazione di Lorenzi, il tema del sogno, così importante in Pasolini, è qui recuperato in maniera determinante, come azione di collegamento tra un episodio e l’altro, con chiaro intento di ‘alleggerimento’ spettacolare, ma anche per ricondurre l’intera azione a uno scontro tra la realtà della parola borghese e il sogno della massa contadina e operaia (quella che in Calderón non può essere niente altro che un sogno). Come negli altri due spettacoli, anche qui diventa fondamentale la capacità di lettura umoristica, che oppone in modo complementare alla densità filosofica e concettuale dell’opera una levità quasi mozartiana, planando dalle parti (coerentemente con il testo) di Brecht e Grosz, ma anche del cinema di Marco Ferreri, mentre del film Porcile approdano solo pochi accenni, più che altro quasi un riferimento dovuto, in un breve momento onirico cannibalesco. Se Porcile riletto da Garella non presenta quella complessità e stratificazione (concettuali e sceniche) offerte dal Calderón di Condemi e dall’Affabulazione di Lorenzi, tuttavia, scegliendo invece un linguaggio semplice ed efficace, senza rinunciare ad approfondire alcune questioni centrali dell’opera pasoliniana, riesce a offrire una delle interpretazioni più originali di Porcile, più vivide e stuzzicanti, offrendo allo spettatore importanti spunti di riflessione sulle dinamiche tra massa e individuo, ben supportate da un’orchestrazione fresca e suggestiva degli attori di Arte e Salute e dei performer di Balletto Civile.

Orgia

È una felice sorpresa anche Orgia, presentata ufficialmente come una semplice lettura, e invece trasformata in scena dai due attori Federica Rosellini e Gabriele Portoghese in un’avventura teatrale di straordinario fascino, quasi a dimostrazione della validità di quell’idea che aveva Pasolini quando nei suoi discorsi di principio sul rinnovamento teatrale metteva al centro autori e attori, ‘dimenticando’ i registi. E c’è proprio da dire che solo la sensibilità di due attori, e in qualche modo – felicemente – una certa loro ‘incoscienza’, ha trasformato la sedicente lettura in un momento di potente teatro partecipato. I due, infatti, leggono il testo (anche qui, come gli altri, opportunamente tagliato, come peraltro aveva indicato Pasolini quando, regista di sé stesso nel ’68, aveva alleggerito il suo Orgia), lui da un libro, lei da fotocopie, seduti a un grande tavolo attorno a cui stanno anche i pochi spettatori ammessi. Praticamente, una simulazione di prova all’italiana, condivisa con amici o curiosi, tutti attorno al tavolaccio di legno, con fogli sparsi, bottigliette d’acqua e la luce del neon. Eppure, fin da subito gli spettatori si rendono conto di essere parte di ciò che sta avvenendo: gli attori leggono e si rivolgono a loro, in un continuo invito implicito alla consapevolezza di essere testimoni attivi di ciò che viene raccontato. Una vertigine incalzante, un’esperienza di ascolto della poesia tragica che, grazie anche a una partitura interpretativa sensibile (anche qui, efficacemente) all’umorismo, accompagna gli spettatori negli orrori della famiglia piccolo borghese fino alla rivelazione finale.

Orgia

Apparentemente la scelta della lettura sembra riprendere l’invito (provocatorio, contraddittorio) di Pasolini a disfarsi di ogni elemento scenico per puntare alla sola parola, mentre in realtà risponde genuinamente alla sua idea ben più vera e profonda: il teatro come dialogo con lo spettatore. Lo spettacolo di Rosellini e Portoghese è, insomma, rivelazione di una comunità, effimera come può esserlo quella del pubblico teatrale, ma pur sempre collettività di borghesi ‘avanzati’ che in nome della poesia si incontra e condivide con gli attori (e, tramite loro, con l’autore) il rito culturale prescritto nel Manifesto per un nuovo teatro. E il corpo, che pure è insopprimibile nel Teatro di Parola di Pasolini, dov’è? C’è eccome: sta nella prossimità dei corpi e delle voci degli attori, nei loro movimenti e cambi di posto, nei corpi stessi degli spettatori, sempre in luce e visibili agli altri, segni evidenti di una società che si sta incontrando nel rito teatrale, talvolta parte integrante dei dialoghi quando magari l’Uomo e la Donna (o la Ragazza, interpretata dalla stessa attrice, che spiega come forse questo personaggio sia il fantasma della moglie suicida) si parlano a distanza di un metro, e in mezzo c’è uno spettatore, terzo incomodo un po’ testimone un po’ vittima un po’ performer involontario e pur sempre partecipe. Al punto da diventare protagonista, alla fine, quando attorno a quel tavolo, spenti gli applausi, si può continuare ancora a lungo, parlando, confrontandosi, in una vera comunità, in una vera compagnia che sta provando uno spettacolo, come nessun ‘dibattito’ (come se ne fecero dopo l’Orgia torinese diretta da Pasolini) potrebbe mai essere. Concludendo, insomma, l’Orgia di parole e di violenza e sesso raccontati, in un’orgia intellettuale ed emotiva che coinvolge, dall’inizio alla fine e oltre, spettatori e attori.

Pilade

Meno riuscito è invece il tentativo di Giorgina Pi di entrare nella complessità stratificata di Pilade, testo davvero difficile per la molteplicità di sensi e di rimandi e la contorsione di certi passaggi, che avrebbe meritato un intervento forse più attento. Sia chiaro che il tentativo di affrontare quest’opera con spregiudicatezza interpretativa è di per sé positivo, considerando anche alcune opportunità còlte in certi passaggi dalla regista (insieme a un dramaturg di profonda competenza pasoliniana come Massimo Fusillo), ma nel complesso mi sembra che non sia scattata la stessa felicità di rilettura degli altri quattro per un errore di fondo che ha compromesso tutto il resto, e che imputerei al tentativo di arrivare a Pilade con una visione aliena, quasi con la volontà di sovrapporre al testo un altro tracciato di senso, cercando insomma di trovare in Pilade un discorso arrivato da altrove. La regista ha infatti trasferito l’opera dalla sua genuina dimensione allegorica di mitopoiesi diacronica della Storia d’Italia (postfascista e liberata prima, e poi consumistica e neofascista) a una dimensione da Dopo-Storia, in realtà astorica e atemporale e soprattutto sincronica, senza evoluzioni e complessità. Ne è venuta fuori, in sostanza, una visione uniforme e turgidamente cupa dei nostri tempi attuali (la regista dichiara di aver collocato la vicenda sulla soglia indeterminata di un dopo-rave): molto interessante per certi versi, e scenicamente suggestiva – una waste land dove stanno copertoni e macchine sfasciate – ma non del tutto efficace nel momento in cui si perdono alcuni riferimenti concettuali e temporali, che sono invece fortemente legati a un discorso sull’evoluzione storica e sociale italiana. E così, per esempio, gli scontri tra Oreste e Pilade rischiano di limitarsi a un bisticcio generico, poco decodificabile e comprensibile, e le stesse sottili sfumature di senso politico nei dialoghi con Elettra si perdono a vantaggio di una tensione generica e morbosa di instabilità, scenicamente splendida ma concettualmente un po’ gratuita, fino a rendere poco efficace e chiaro il discorso.

Pilade

I punti di forza stanno invece in alcune belle intuizioni, che rimandano all’idea di una realtà fluida, queer, inclusiva e multietnica, che non sono precisamente il centro del discorso pasoliniano (e però in qualche modo lo sono), ma che comunque offrono momenti stimolanti, purtroppo slegati da quella visione interpretativa complessiva che qui mi è sembrata carente: per esempio il Vecchio e i montanari sono migranti dei giorni nostri, mentre le Eumenidi (acutamente individuate nel loro processo di trasformazione) sono interpretate da un’attrice transessuale, la cui verità sostiene adeguatamente il corto circuito tra corpo e parola, e così via. In questo senso, l’importanza del corpo – il corpo migrante, il corpo transgender – al centro della tragedia pasoliniana mi sembra una scelta decisiva. Analogamente poteva essere interessante la scelta di presentare Oreste e Pilade vestiti come rispettabili quadri dirigenziali del neo-capitalismo, visivamente riconoscibili come uno il doppio dell’altro senza reale distinzione, ma i loro contrasti sfociano troppo facilmente in una recitazione tesa e agitata, comune a quasi tutti gli interpreti, che disperde le parole e i sensi in un flusso indistinguibile. Alla narrazione dell’evoluzione sociale e politica italiana, raccontata in Pasolini, si sostituisce insomma l’istantanea di un paradiso perduto, e tuttavia vitale e brulicante, ancorché calato in un’atmosfera costantemente plumbea e notturna, senza il necessario umorismo e senza il necessario senso storico della progressione narrativa, con un tappeto sonoro di trepidante sospensione e tensione, di nichilismo permanente dall’inizio alla fine. E con il risultato di una narrazione e di una tensione poetica respingente alla comprensione.

Bestia da stile

Ma se Giorgina Pi accetta comunque, come gli altri, la sfida del corpo a corpo con il testo di Pasolini, con un approccio consapevole del senso del rileggere nel 2023 un’opera scritta 60 anni fa, la scelta di Stanislas Nordey, regista di Bestia da stile, mi sembra vada nel senso opposto, quello del sottrarsi: sottrarsi al tempo presente, all’interpretazione, al testo, al pubblico, al teatro, e in definitiva a Pasolini stesso. Proprio il regista francese che più di altri si è confrontato nella sua lunga carriera con la drammaturgia pasoliniana compone qui l’unico spettacolo di caduta dell’intero progetto. E il fatto che l’allestimento sia a conclusione di un percorso formativo di giovani (e generosi) attori non è una giustificazione. Nordey decide di mettere alla prova pratica le indicazioni provocatorie di Pasolini sul Teatro di Parola, in cui dovrebbe essere eliminato ogni elemento a esclusione della parola stessa. A prescindere dalla necessità di una verifica di questo tipo, il punto di partenza è erroneo, perché la riflessione teorica del Manifesto per un nuovo teatro (spesso tirata in ballo superficialmente da chi si approccia per la prima volta a un allestimento, e quindi a maggior ragione stupisce sia fatto da Nordey) è laterale e ininfluente rispetto alla sua drammaturgia e quindi agli allestimenti: una consapevole provocazione per assurdo rispetto a un concetto – quello sì – imprescindibile per Pasolini, e cioè l’importanza centrale delle idee rispetto alla pura esibizione spettacolare (che tanto andava di moda in quel periodo negli ambienti della neoavanguardia teatrale) e rispetto alle testualità superficiali che allignavano nei teatri convenzionali. Oltretutto Pasolini non la mise davvero in pratica nell’unica esperienza registica, nella quale si era misurato con la teatralità, tagliando parti della sua opera, facendo recitare gli attori, con costumi, scenografia e pure la musica. Insomma, pensare di sperimentare oggi un teatro con attori immobili che centellinano parole secondo la presunta teoria pasoliniana (peraltro programmaticamente utopistica e mai attuata) sarebbe come voler fare Shakespeare esattamente nelle stesse condizioni in cui è nato, magari con boy players per i personaggi femminili e con gli spettatori in piedi sotto il sole.

Bestia da stile

Lo spettacolo di Nordey è introdotto dalla recitazione di un pezzo del dibattito di Pasolini con il pubblico del ’68 ed è concluso dall’elenco degli striscioni da lui apposti alla prima di Orgia. Inoltre, sempre all’inizio, viene recitata la dichiarazione dell’autore su Bestia da stile come autobiografia, e alla ripresa dopo l’intervallo la poesia sulla solitudine e verso la fine la canzone di Che cosa sono le nuvole?. L’impressione è che si ricada in un’altra classica sindrome che colpisce molti che si confrontano ingenuamente con Pasolini (ed evitata negli altri cinque spettacoli), ossia il bisogno di citare esplicitamente l’autore, inserirlo nell’opera, come per accreditare il lavoro del regista con la sua presenza o le sue parole non teatrali a garanzia della giustezza delle scelte, e quindi in definitiva mostrando di credere che di per sé il testo teatrale scelto non abbia la forza intrinseca per affrontare la scena. Una sindrome legata a un passato di incomprensioni teatrali e di insicurezze, che fonda la costruzione dello spettacolo sulla ‘reliquia’ Pasolini piuttosto che sulle sue parole agìte dialetticamente e criticamente nel nostro presente.
E così questa Bestia da stile, ambientata su una pedana allestita in mezzo al teatro, con il vuoto della platea dietro e lo sfondo dei palchetti del teatro all’italiana, e con le luci piene e immutate, vede gli attori esporre il testo sempre seri e tetri (non sia mai che si colga l’umorismo di certe battute!) e scandire le parole agitando didatticamente il braccio e la mano su e giù, facendo lunghe pause quasi a ogni verso (evidentemente per far depositare le parole), con gli occhi che spesso vagano altrove, quasi evitando il rapporto con lo spettatore a cui sembrano rivolgersi paternalisticamente. L’impressione è di uno spettacolo con parole che piovono dall’alto per 3 ore, compresi i nomi dei personaggi, le didascalie e le parti più incomprensibili e infatti incomprese dal pubblico (come la lunga e cerebrale Notte di Valpurga del secondo episodio), che non riesce a gestire la confusa verbosità e si trova frastornato, senza alcun appiglio per seguire la storia, la differenza tra i personaggi, le loro evoluzioni di pensiero, le sottigliezze dei diversi discorsi, tutto a causa di una recitazione, volutamente appiattita, uniforme e monocorde. Così Nordey, partito con il voler mettere in scena la Parola assoluta affinché le idee e la poesia arrivassero allo spettatore come in un dialogo intellettuale, ottiene l’esatto opposto: non c’è dialogo con il pubblico, non c’è possibilità di comprensione, ma solo una valanga di parole centellinate punitivamente senza alcuna differenza tra i personaggi e senza far capire il senso delle battute stesse. Anzi, alla fine sembra quasi di aver assistito alla sofisticata parodia di un certo modo di pensare il teatro di Pasolini come un teatro di sola parola senza azione, o una parodia del teatro di Pasolini tout court. E quasi quasi, dopo questo spettacolo ci avrei davvero creduto alla saccente e velleitaria inutilità del teatro pasoliniano… non fosse che per fortuna gli altri cinque spettacoli abbiano dimostrato abbondantemente il contrario.

Progetto Come devi immaginarmi dedicato a Pier Paolo Pasolini:

Calderón di Pier Paolo Pasolini; regia, ideazione scene e costumi Fabio Condemi; con Valentina Banci, Matilde Bernardi, Marco Cavalcoli, Michele Di Mauro, Carolina Ellero, Nico Guerzoni, Omar Madé, Caterina Meschini, Elena Rivoltini, Giulia Salvarani, Emanuele Valenti; scene, drammaturgia dell’immagine Fabio Cherstich; costumi Gianluca Sbicca; luci Marco Giusti; disegno del suono Alberto Tranchida; assistente alla regia Angelica Azzellini; produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, LAC Lugano Arte e Cultura, in collaborazione con Associazione Santacristina Centro Teatrale; prima assoluta: Bologna, Arena del Sole, 2 novembre 2022.
Visto a: Bologna, Arena del Sole, 2 novembre 2022.

Pilade di Pier Paolo Pasolini; uno spettacolo di Bluemotion; regia, scene, video Giorgina Pi; con Anter Abdow Mohamud, Sylvia De Fanti, Nicole De Leo, Nico Guerzoni, Valentino Mannias, Cristina Parku, Aurora Peres, Laura Pizzirani, Gabriele Portoghese, e con Yakub Doud Kamis, Laura Emguro Youpa Ghyslaine, Hamed Fofana, Géraldine Florette Makeu Youpa, Abram Tesfai; dramaturg Massimo Fusillo; ambiente sonoro Collettivo Angelo Mai; musica e cura del suono Cristiano De Fabritiis – Valerio Vigliar; disegno luci Andrea Gallo; costumi Sandra Cardini; assistente alla regia Giorgio Zacco; ritratti Anna Faragona; immagine Mattia Zoppellaro/Contrasto; produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Teatro Nazionale di Genova, in collaborazione con Angelo Mai e Bluemotion; prima assoluta: Bologna, Arena del Sole, 16 febbraio 2023.
Visto a: Bologna, Arena del Sole, 16 febbraio 2023.

Porcile di Pier Paolo Pasolini; regia Nanni Garella; coreografia Michela Lucenti; un itinerario artistico e progettuale di Arte e Salute e Balletto Civile; con Luca Bandiera, Nicola Berti, Enrico Caracciolo, Barbara Esposito, Luca Formica, Francesco Gabrielli, Pamela Giannasi, Filippo Montorsi/Simone Francia, Mirco Nanni, Alessandro Pallecchi, Roberto Risi, Emanuela Serra, Giulia Spattini; assistente alla regia Nicola Berti; assistente alla coreografia Emanuela Serra; luci Tiziano Ruggia; suono Massimo Nardinocchi; costumi Elena Dal Pozzo; collaborazione produttiva Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Balletto Civile, in collaborazione con Associazione Arte e Salute, Regione Emilia Romagna – Progetto “Teatro e salute mentale”, Dipartimento di Salute Mentale dell’Azienda USL di Bologna; prima assoluta: Bologna, Arena del Sole, 18 aprile 2023.
Visto a: Bologna, Arena del Sole, 28 aprile 2023.

Orgia di Pier Paolo Pasolini; voci di Federica Rosellini e Gabriele Portoghese; luci Lorenzo Maugeri; produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale; prima assoluta: Bologna, Teatro delle Moline, 11 maggio 2023.
Visto a: Bologna, Teatro delle Moline, 11 maggio 2023.

Affabulazione di Pier Paolo Pasolini; regia Marco Lorenzi; con Danilo Nigrelli, Irene Ivaldi, Roberta Lanave, Barbara Mazzi, Riccardo Niceforo; dramaturg Laura Olivi; scenografia e costumi Gregorio Zurla; disegno luci Giulia Pastore; disegno sonoro Massimiliano Bressan; assistente alla regia Yuri D’Agostino; produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, in collaborazione con AMA Factory e Il Mulino di Amleto, si ringrazia TPE – Teatro Piemonte Europa; prima assoluta: Bologna, Arena del Sole, 18 maggio 2023.
Visto a: Bologna, Arena del Sole, 18 maggio 2023.

Bestia da stile di Pier Paolo Pasolini; regia e progetto pedagogico Stanislas Nordey; con Flavia Bakiu, Catherine Bertoni de Laet, Antonio Capone, Lara Cosentino, Pietro Gambacorta, Anna Sharon Lazzeri, Dora Macripò, Claudia Perossini, Flavio Pieralice, Davide Riboldi, Giorgio Ronco, Christian Sidoti, Giulia Sucapane, Nicolas Toselli, Giovanna Virdis, Mattia Zavarise; disegno luci Stéphanie Daniel; assistente alla regia Valentina Fago; produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale; spettacolo collegato al corso Pier Paolo Pasolini – Cantiere su Bestia da stile – Alta formazione attoriale internazionale co-finanziato dal Fondo Sociale Europeo, Regione Emilia-Romagna; prima assoluta: Modena, Teatro Storchi, 25 maggio 2023.
Visto a: Modena, Teatro Storchi, 25 maggio 2023.

Foto di scena: Luca Del Pia (Calderón, Porcile, Bestia da stile), Guido Mencari (Pilade), Giuseppe Distefano (Affabulazione). Le foto di Orgia sono tratte dalla ripresa video.

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