Esce in questi giorni il libro di Joyello Triolo Dentro questi specchi, ed. Crac. Si tratta della prima monografia e – come dice il sottotitolo – disco(bio)grafia di Fausto Rossi, che fino al 1985 era Faust’O. In attesa di leggere il libro, ripubblico due mie note apparse e sparse su Facebook in occasione dell’uscita dei suoi ultimi album Becoming visible (2009, pubblicato a ben 12 anni di distanza dal precedente Exit) e Blank times (2012). Tra i due, era uscito un altro album, Below the line (2010), al quale non avevo dedicato una riflessione specifica, vista la particolarità di quell’opera, ma del quale parlo nella seconda parte. Dal 2012 non sono usciti più suoi album.
Becoming visible
Becoming visible (Interbeat 2009) è un titolo ambiguo e stratificato. Fausto Rossi decide di diventare visibile dopo tanti anni di “clandestinità”. Tutti si aspettavano il botto. Ma diventare visibili non significa fare scintille: significa affiorare dall’invisibilità con la consapevolezza di una nascita o rinascita. Per capire l’album occorre iniziare da questo titolo. E dalla foto di copertina, un ritratto sfocato di Fausto fatto da Mara Gnecchi, con colori accesi, con un’inquadratura quasi teatrale alle spalle: elementi che richiamano la pittura di Francis Bacon. Per Bacon affiorare dall’invisibilità era lo strappo di un dolore esistenziale straziante. Per Fausto il dolore è già stato consumato nei lavori precedenti (fino al potente climax di L’erba e l’ultimo Exit), ed è arrivato il momento di ripartire da ciò che è rimasto: sé stesso. La canzone Don’t cry che troviamo in questo nuovo album è esplicita:
I got a call
From my self
Asking for love
More and more.
Affiorare dall’invisibilità è dunque possibile solo facendo riemergere sé come individuo. Io sono, e posso riaffiorare. Per questo l’album è il segno più consapevole e maturo che Fausto potesse regalarci oggi: le canzoni sono segnali di un’esistenza che ha bisogno di riaffermare la propria anima e i propri sentimenti per poter affiorare, cioè per diventare visibile, rimandando a un secondo momento il confronto con l’esterno. Si sente in Stand apart, in cui rivendica uno stare a parte che non è fuga dal mondo ma affermazione di un’identità che in questo mondo si definisce in opposizione al vortice delle “falling tears”, dei “fighting pigs” e di tutto l’ “helpless pain” che ci circonda: non per negarli, ma per riconoscerli ripartendo da sé.
Questo è forse l’album in cui Fausto si scopre di più, quello in cui ritorna a parlare di sé e dei suoi sentimenti come fosse la prima volta. Non a caso in una lingua straniera, sia pure un inglese elementare, straniero a sé stesso (“I wish I was an alien”, canta in Foolish things); non a caso con pochi strumenti e pochi accordi, i minimi indispensabili per affermare la propria esistenza. Il sound da antica ballata country che accompagna In a couple of years nasconde il cuore di una confessione potente:
I don’t know where I belong
O my
But if you call my name I know
I’ll find my way around,
che è poi la strada verso casa, cioè verso la propria anima più segreta. Forse, non a caso, la parola più ricorrente in diverse canzoni è home, così come ricorrente è il cielo, sia esso sky o paradise (la canzone più orecchiabile si intitola proprio Paradise), ma è un cielo tanto alto quanto interiore: non spirituale, si badi, ma piuttosto un cielo interlocutore della solitudine (o meglio di una sorta di solitarietà), segno ulteriore di un’individualità che si assume la responsabilità di dire io sono, perfino trasfigurato in un altro sé “with my wings / Flying over the hill” (Tonight).
Una ripartenza apparentemente minimalista ma spaventosamente deflagrante. Un cantante partito con un Suicidio (1978), che ha saputo affermare Cambiano le cose (1992) fuggendo da ogni facile strada aperta, e che infine aveva proclamato il suo definitivo Exit (1997), arriva ora a ridefinirsi prima di tutto come uomo e poi come artista, per becoming visible, per diventare visibile. A chi? Prima di tutto a sé stesso, alla sua solitarietà, e poi agli altri: la canzone Everyone nella sua semplicità e universalità ha il sapore di una pacificazione con quel mondo che ha la dignità di poter dialogare con lui, non il mondo dei sistemi sovrastrutturali ma quello delle persone. Contro ogni massificazione. E la già citata Tonight chiude l’album sospendendoci verso il Fausto Rossi visionario e misterioso che abbiamo conosciuto finora e che non abbiamo perso qui, ma solo ritrovato. Più visibile. Visibile non perché era scomparso per ben 12 anni dalla scena musicale, ma perché ha avuto il coraggio di mettersi a nudo nella sua fragilità di artista.
Becoming visibile è un album potente proprio per questa sua dichiarazione di fragilità. Per chi non ha conosciuto il Faust’O degli anni 70/80 e per chi non ha conosciuto il Fausto Rossi degli anni 90 sarà una strana scoperta (e dovrà correre ai ripari recuperando le sue canzoni precedenti). E per chi conosce i suoi 9 album precedenti sarà come riscoprirlo daccapo.
[Pubblicato su Facebook: 12 aprile 2009]
Blank times
Fausto Rossi ci aveva abituato ad album definitivi e radicali: opere che con assoluta perentorietà si imponevano per il loro essere inizio o fine di qualcosa, e comunque svolte decisive. Ognuno di questi album sembrava essere la svolta epocale oppure la pietra tombale, dopo la quale non saper più cosa aspettarsi o se aspettarsi ancora qualcosa…
Ci aveva abituati così almeno dai tempi della riappropriazione del suo nome, Fausto Rossi, dopo tanti anni di Faust’O: come se, riconquistando a fatica (e dolorosamente, credo) il proprio nome, avesse sentito l’esigenza di esprimere una sincerità più nuda, e ‘quindi’ più radicale ed estrema. Già il primo album col nuovo nome aveva il sapore del “definitivo”: Cambiano le cose (1992), quando le cose cambiarono davvero rispetto a prima, non solo col nome ‘nuovo’ ma anche con una sonorità elettronica e una testualità talmente minimali da sfiorare l’haiku concettuale. “Definitivi” furono poi i due album successivi, entrambi: L’erba e Exit, quasi apertura e chiusura – entrambe radicali – di una sofferta confessione e di un’altrettanto lancinante j’accuse (senza più “amore mio” però, verrebbe da dire) al sistema, e forse anche a se stesso. Album estremi: il primo (1995) che apre, anzi spalanca la porta a nuovi suoni e parole uscite direttamente dal cuore e dall’anima, levigate alla lezione della beat generation. Le primissime parole pronunciate in quell’album suggeriscono l’enunciazione di una poetica, e dunque – come dicevo – la “definitività” di quell’album: “Prendimi per mano Fausto ovunque andrai / in cerca di silenzio e di visioni”. D’altra parte Exit (1997) porta l’idea della definitività della fine fin dal titolo, che sembra richiamare in modo forse ancor più estremo l’album d’esordio Suicidio (1978), chiudendo dopo vent’anni e nove album un’intera storia poetica e musicale, concedendosi perfino pezzi che sembrano usciti più dalla penna logorroica del diario intimo che non dalla creazione cantautorale, come Blues. Ma “definitivo” fu ancora l’album successivo (e però nel frattempo gli anni passati dall’“exit” erano stati davvero tanti), cioè Becoming visible (2009), anch’esso perentorio fin dal titolo. Perché per Fausto non si trattava di “tornare” visibile, di ri-nascere, ma di “diventare” visibile, come se fosse la prima volta, azzerando completamente la sua storia, cercando un dialogo “semplice” con il suo ascoltatore, fatto di testi (apparentemente) elementari e di una musica che può contare solo su una chitarra. Ci sembrava una rinascita (perché non avevamo capito la forza iniziale, aurorale, di quel “becoming”) e invece, ancora una volta, Fausto ci avrebbe spiazzato, con Below the line (2010), forse il suo album più radicale e concettualmente cupo, in un luddismo perfino autolesionista, quando nel continuum della fastidiosa distorsione acustica (eppure attentamente calibrata e perfino musicale) affoga vere e proprie canzoni inedite: che stanno lì, ci sono, dentro quell’album, ma sotto cumuli di macerie sonore, pressoché incomprensibili all’ascoltatore. Qualcuno avrebbe potuto dire: canzoni sprecate. Semmai, canzoni sotto la linea dell’orizzonte sonoro: presenti e invisibili. E allora: come pensare che dopo un album così definitivo ci potesse essere ancora qualcosa?
Quel qualcosa è arrivato, oggi. Un nuovo album, destinato ancora una volta a spiazzare ogni aspettativa. Ma questa volta lo spiazzamento è ancora più inatteso. Perché questo è il primo album di Fausto non “definitivo”. Blank times (2012) non chiude nulla in maniera estrema e non costituisce una nuova svolta. Per la prima volta un album di Fausto si pone senza la perentorietà del limite, ma cercando la sua perentorietà nell’affermazione di un discorso sincero, strutturato secondo i meccanismi della classica forma-canzone. Con momenti o ritornelli (!) perfino cantabili e un po’ pop-rock, come nel ricorrente “I don’t wanna say it / An’ I don’t wanna mean”. Questo non significa che Fausto abbia rinunciato alla sua dichiarazione di guerra a una società alienante e alienata: tutt’altro. In questo nuovo album ricorre più violentemente e insistentemente che mai un’opposizione io(noi)/voi o io(noi)/loro, che denuncia la radicalità del sentimento di isolamento e auto-isolamento di Fausto da un mondo che ha sostituito i sogni con le allucinazioni, come canta nel primo brano Tu non lo sai. Termini non casuali, e che ci riportano agli album precedenti, spiegando meglio a ritroso la sofferta visione del mondo di Fausto: il luogo dove è avvenuto uno strappo dalla purezza della verità e del sogno, e dove le convenzioni sociali e gli interessi di potere hanno imposto le allucinazioni, siano esse drogate o televisive o pura vacuità verbale. L’aveva detto, ma solo intuitivamente, fin dal 1980 nella canzone Non vendere i nostri sogni, poi avvicinandosi un po’ di più in Per il mio compleanno (1992), quando “il mio sogno è perduto” si sposava disperatamente con “ho visioni nel buio del cielo”. Ma è proprio nella canzone che dà il titolo alla raccolta Exit (1997) che troviamo l’abbinamento delle due parole:
Voci irreali dai muri che producono allucinazioni nervose
raggi segreti ultraveloci trasformano i sogni in cristalli liquidi.
E come per un riscatto (e come per un’ulteriore grido d’accusa) è il concetto di “sogno” a ricorrere prepotentemente in questo Blank times: su 10 canzoni, ben 7 contengono (anche massicciamente) la parola “sogno” o “dream”, variamente inteso.
Una spia di questa nuova prospettiva, che Fausto indica tenacemente in questa raccolta di canzoni (ecco, forse mai come per questo album, perlomeno dalla “svolta” di Cambiano le cose, quelle che sentiamo sono vere canzoni), è nel brano che s’intitola, guarda caso, Sogni:
Quella voce appena sento
mi risponde – Jeess!
Vola via da qui.
Dreams! Dreams! Dreams!
Sapendo che Jeess è l’alter ego di Fausto, ecco che questi versi assumono un peso specifico importante, e sanciscono per questo album una funzione poetica di distacco, di taglio netto (il “sorriso tagliato a metà” di Tu non lo sai) dal mondo, di ricerca di un’alterità che riposa nei sogni. Sogni, si badi bene, non come mondo virtuale o edenico in cui rifugiarsi. Nello stesso brano, il pericolo è ben chiaro:
I sogni, sì
portano via
poi tornare è tanta pena sai.
Ed è ben presto esorcizzato attraverso l’idea del sogno come realtà prima e primigenia, perciò più sincera, il cui ingresso è precluso a “voi” (che non sapete sognare). È la casa sulla collina, secondo un’immagine che sfiora il bucolico, ma che ha invece il sapore della visionarietà che sa dire la verità (viene in mente il concetto di Sogni espresso nel suo omonimo film-testamento da Kurosawa):
Sometimes I feel
I miss my home on the hill
(…)
It was a dream
It was real thing
But not here to stay,
canta in The Hill, che nell’incipit melodico iniziale ricorda Don’t cry (2009), dove l’amico di quel brano aveva, guarda caso, “bad dreams he can’t understand”. E potrebbe essere interessante verificare come una melodia analoga conduca verso un percorso analogo, sia pure in contesti diversi. In Don’t cry si dice “I got a call / from the sky”, mentre in The Hill (dove non c’è cielo, ma semmai terra: “ground”) sembra ritornare quella chiamata da un altrove, questa volta non per “silence at night” tutt’altro che rassicurante, ma per richiamare Fausto verso la pace domestica della propria coscienza: “È tempo di tornare a casa / L’inverno è ormai vicino” (e, come si sa, bisogna stare attenti al “panico d’inverno”, Buon anno, 1980). Insomma, c’è un qui/here e c’è un altrove in cui “volare via” o in cui “tornare”. Un dissidio che apre uno squarcio irrisolvibile, e che forse, a sua volta, nasconde una trappola: “It’s just electric noise on the tv screen”.
Da una parte c’è l’“universo (…) facile” dell’individuo che aspira alla libertà e alla verità, dall’altra “il vostro mondo”, come appunto si dice in Il vostro mondo, che si conclude, ancora una volta, con una tensione all’altrove: “it’s not here to stay”. E dove ritorna una delle espressioni-chiave del Fausto degli album precedenti: “gli occhi / si chiudono”. E come in Gli occhi si chiudono (1996) in cui “i sogni si avverano / (…) / la mente si libera / (…) / le tracce si perdono”, anche in questa nuova canzone “Tutti i sogni / si avverano” e “i cinque sensi / respirano”. Ecco allora che, attraverso questa canzone (e anche altre), Fausto ricollega Blank times a Exit, riprendendone sensi e temi, ma quasi sciogliendoli in una musicalità più morbida e in una testualità che, senza perdere nulla della sua radicalità (anarchica e individualista, verrebbe da dire per certi versi), si stempera, anche grazie a inserti in inglese che smussano le asperità dell’italiano. Si pensi a Non vi ho creduto mai, dove torna fin nel titolo l’opposizione io/voi che, come dicevo, è concettualmente ricorrente in tutto l’album. Ritorna qui una parola che, nella sua ricercatezza (o meglio, nella sua anomalia all’interno di una canzone), è oltremodo indicativa, come una spia:
Ho alzato gli occhi e ho visto il futuro
Gli animali le astronavi
Anche senza di voi.
Si tratta della parola (indubbiamente poco presente nelle canzoni italiane) “astronavi”, che era già presente proprio in Exit, nel brano Strani pensieri: “Splendide visioni di astronavi nello spazio persi all’infinito”, calate in una visione ginsberghiano-apocalittica da brividi. Una visione da “terzo occhio”, quella di Strani pensieri, che sembra ritornare puramente profetica (ma non apocalittica né “ginsberghiana”, se vogliamo mantenere questo forse inesatto riferimento) in Non vi ho creduto mai, dove semmai l’attenzione più che sulla visione è sull’atto (spirituale più che fisico) del vedere: “Ho alzato gli occhi”, lo stesso gesto di Ultimi fuochi (1982) in cui l’azione era “alzare sguardi” o de L’erba (dall’album omonimo) dove era “Buddha che alza gli occhi al cielo”.
Insomma, una fitta rete di rimandi che dimostra la continuità assoluta del discorso di Fausto, e quindi “giustifica” la necessità di abbandonare (forse solo per questa volta) la forma dell’album “definitivo” e di cercare invece di far rimbalzare come una cassa di risonanza quei temi, quelle parole, quei sensi, in una raccolta di “canzoni” apparantemente pacificate. Lo stesso verso che dà il titolo alla canzone Non vi ho creduto mai ha musicalmente un andamento cantabile che stride con il contenuto testuale, portando sottilmente l’ascoltatore quasi a “condividere” nella “cantabilità” di quelle parole l’accusa totale che esse veicolano: roba da urlare in faccia a quei “voi” che credevano di abbindolarci, e invece – qui – parole che potrebbe cantare melodiosamente un crooner con la voce impostata e rassicurante. Con un effetto spiazzante e potente: una contraddizione fra testo e musica che si duplica nell’incipit della seconda strofa, ancor più inattesa: “È stato il tuo amore / La luce dei sogni”. Davvero stupefacente, se si pensa a quando “il mio amore affonda in questa vita / nudo mistico affamato” di Perché il mio amore (1995), ma anche, più vicino, all’incipit di Tu non lo sai: “Pensavo all’amore / quello che resta del sogno”.
Ci sarebbe ancora tanto da dire, perché Blank times si rivela, a ogni ascolto, una miniera di pietre preziose mimetizzate sotto la sabbia. E quindi, per il momento, mi fermo qui, non senza aver detto un’ultima cosa sul titolo dell’album. Che, forse per la prima volta, colpisce per la sua polisemia. “Blank” sta per bianco, vuoto, ma anche sciolto (in senso metrico: il famoso “blank verse” shakespeariano). D’altra parte i “times” non possono limitarsi solo ai nostri “tempi” epocali, ma possono restringersi alle “ore” della nostra giornata e soprattutto (pensando che siamo in ambito musicale) possono far riferimento al “tempo” musicale. Le combinazioni, a questo punto, sono tante. I “blank times” raccontati da Fausto trasmettono, nell’ambiguità di quelle parole, la complessità di questo album, che scorre sottopelle. E s’infiltra nelle nostre teste mentre, ignari, ci viene da canticchiare qualche refrain. Magari, e non a caso, proprio questo: “I don’t wanna say it / An’ I don’t wanna mean”.
[Pubblicato su Facebook: 2 luglio 2012]
Fausto Rossi, Becoming visible (Interbeat 2009); 8 brani, 55′ 45″.
Fausto Rossi, Below the line (Interbeat 2010); 3 brani, 25′ 12″.
Fausto Rossi, Blank times (Interbeat 2012); 10 brani, 36′ 25″.