A Claudio Meldolesi, studioso e docente del Dams scomparso 5 anni fa, il Cimes di Bologna dedica domani, venerdì 28 novembre, una riflessione pubblica in occasione dell’uscita del numero monografico di “Prove di drammaturgia” (la rivista che ha diretto per anni) dal titolo – appunto – Per Claudio Meldolesi, a cura di Gerardo Guccini e Laura Mariani, che a sua volta raccoglie gli atti di una precedente giornata di studio/omaggio, svolta presso l’Università di Bologna il 18 marzo 2013. E’ l’occasione per me per raccogliere due riflessioni su due temi da lui affrontati soprattutto negli ultimi anni di attività: una sul dramaturg, al quale ha dedicato un ampio saggio in un libro a quattro mani con Renata Molinari, e una sui suoi pochi ma illuminanti articoli sul teatro “di interazione sociale” (che si trovano ora nel numero 33, nuova serie, di “Teatro e Storia”, uscito nel 2012, da cui è tratto il mio intervento che qui ripubblico).
Ma è anche l’occasione per sottolineare un aspetto forse poco evidenziato della sua elaborazione scientifica e della sua scrittura. Prima ancora del contenuto delle analisi di Meldolesi, anzi ben intrecciata a quel contenuto, sta una straordinaria ricchezza semantica e capacità di reinvenzione linguistica, a cominciare dai titoli. Si pensi, per esempio, al titolo dell’ineludibile volume Fondamenti del teatro italiano (1984), il cui primo termine cala con una perentorietà inaudita ad azzerare ogni approccio precedente e a dare alla storiografia teatrale un’impostazione completamente diversa. O al titolo del libro Fra Totò e Gadda. Sei invenzioni sprecate del teatro italiano (1987), con il concetto innovativo di “invenzione sprecata”: un’eccellente definizione per descrivere gli esiti di un teatro distratto o incapace, magari dolosamente, di cogliere le vere energie strutturalmente innovative. Un concetto che ci aiuta a individuare, nel percorso storico, quei vicoli ciechi che sarebbero potuti diventare percorsi maestri col semplice abbattimento di un muro; e che quindi ci aiuta meglio a capire – con la messa a fuoco della novità abortita – i limiti delle invenzioni vincenti che hanno poi portato a costituire il mainstream. Ma non solo titoli. Basti pensare, ad esempio, al concetto di “riattivazione”, che è uno dei cardini dei compiti del dramaturg, al quale ha dedicato il suo ultimo libro, arioso e magmatico al tempo stesso. “Invenzione sprecata” o “riattivazione” sono solo alcune delle espressioni potenziate da Meldolesi, che creano una nuova semantica della teatrologia, ma lo fanno con la felicità creativa della poesia. Sarebbe bello raccogliere e ricucire tutte le espressioni “inventate” da Meldolesi perché non vadano “sprecate”, e perché siano “riattivate”. Anche sotto il segno di una diversa idea di poesia.
Sul dramaturg
Il lavoro del dramaturg (2007) è diviso in due parti, la prima scritta da Meldolesi e la seconda da Renata Molinari. Un libro che, come gli altri che l’hanno preceduto (non solo i già citati Fondamenti e alle Invenzioni sprecate: penso, per fare solo due esempi, al Profilo di Gustavo Modena del 1971 e al Brecht regista del 1989), costituisce un punto di partenza storiografico e teorico per alzare anche in Italia il livello di attenzione verso un elemento della produzione teatrale da noi (apparentemente) lontano. Non si tratta di un libro di storia del dramaturg, ma piuttosto di metodologia. Si sbaglierebbe a cercare in queste pagine una cronologia, una sistematizzazione, un vademecum, un manuale, o anche perlomeno un’infarinatura di primo orientamento. Tutt’altro: ciò che attende il lettore è il nervo scoperto dell’elaborazione in fieri: appunti magmatici o fulminanti, reticolati con connessioni ardite e imprevedibili, ma spesso illuminanti per cercare di inquadrare una figura difficile da inquadrare. Proprio l’impossibilità di una “precisione” dei suoi compiti ha reso ostica in Italia la figura del dramaturg, laddove nel suo paese natale (padrino il Lessing di Drammaturgia d’Amburgo, due secoli e mezzo fa) la voluttà nomenclatoria sta rischiando di ridurla a figura fin troppo burocratica.
Dunque, il libro offre materia incandescente in attesa di coagularsi e trasformarsi in piattaforma teatrologica su cui attirare studiosi e critici (e aspiranti dramaturg, perché no?) per dar vita a una ricerca permanente sull’argomento. In questo senso si può affermare che, nonostante il rifiuto della sistematizzazione, siamo di fronte a un vero e proprio libro di “fondazione” (proprio come, in altro modo, Fondamenti del teatro italiano) di una nuova attitudine critico-storiografica nei confronti del tema in oggetto. Alcuni particolari rafforzano questa indicazione. Come l’istituzione dell’iniziale minuscola per la parola originaria tedesca “dramaturg”, fino a questo momento scritto sempre “Dramaturg”: rifondazione grafica, solo apparentemente minimale, perché si impone così una italianizzazione del concetto contro il permanere della dizione esotica, e dunque una diversa responsabilità storiografica. E poi la coppia oppositiva “riattivazione/riduzione”, cioè la proposta di superare il concetto di “riduzione” di un’opera letteraria in spettacolo (uno dei tipici processi creativi del dramaturg), come se lo spettacolo fosse riduttivo, e non già rafforzativo e interpretativo nei confronti del testo originario: usare “riattivare” anziché “ridurre” consente di maneggiare in termini più corretti e positivi il meccanismo della trasformazione di un’opera in un’altra, e oltretutto fa definitivamente i conti con l’antiquata idea dello spettacolo come occorrenza subordinata (platonicamente) a un testo-idea verso cui si tende senza fine.
Dunque, attraverso nomi, esempi, intuizioni, Meldolesi sollecita la storiografia teatrale a ribaltare molti luoghi comuni sulle sue categorie di riferimento in merito alla creazione. Si avverte in queste pagine il sapore di una rivoluzione copernicana nell’approccio storiografico e critico, poiché si riafferma la centralità delle posizioni intermedie nella creazione e nella produzione teatrale, superando di fatto le varie “dittature” che si sono succedute nelle epoche: quella dell’attore, quella dell’autore, quella del regista… E invece no: il teatro richiama con forza la sua essenza di luogo della complessità e di luogo delle mediazioni interpersonali nel gioco creativo. Lo spettacolo non è opera di individui isolati, ma nasce nel rapporto tra diverse energie, compresa quella del dramaturg: una sorta di fantasma del palcoscenico, che Meldolesi – ancora poetico inventore di nuove definizioni – accresce di volta in volta di nuovi attributi, come il bellissimo “cercatore asimmetrico al lavoro di scena”, affidandogli la modalità lavorativa degli “oscuri abbracci”. Ribadire dunque la centralità del dramaturg, a dispetto dei “dissenzienti” (che pure hanno ragione nel ribadire dal canto loro una secondarietà di questa figura, peraltro non sempre presente nella creazione), significa ribaltare il bianco&nero dell’illustrazione del teatro per andare a scoprire i mille grigi che davvero nutrono la prassi teatrale o, secondo un’altra bella definizione, “l’energia meticcia delle identità teatrali”. In altre parole, si tratta di superare la lettura crociano-romantica (individualista) dell’arte teatrale, che pure continua a persistere, per arrivare a riconsiderare figure finora sfuggenti a questa lettura. Figure, cioè, apparentemente non rivestite di autoralità, come appunto il dramaturg, e che invece sono portatrici di una prassi artistica, magari non definitiva (non al punto da determinare la scelta finale sull’opera, che spetta tradizionalmente al regista), ma spesso determinante. In questo modo andranno riscritte molte pagine del teatro dei secoli scorsi: Meldolesi si spinge fino al “suo” Gustavo Modena, e addirittura a Goldoni, finendo per esplorare un’inedita area di “proto-dramaturgie” italiana, quasi come fosse un’ulteriore “invenzione sprecata” del nostro teatro all’indomani della vera nascita amburghese con Lessing. Ma si tratta soprattutto di riscrivere i decenni a noi più vicini, imponendo altre prospettive. Penso al suo rincorrere i segni della dramaturgie nelle prassi extrateatrali, per esempio di Fassbinder, oppure individuare i meccanismi più sottili della “riattivazione” in esempi celebri, da Brecht ai “travestimenti” di Sanguineti, passando per il Mahabaratha. Penso all’analogia, indicata da Meldolesi, con il lavoro dell’attore contemporaneo che porta improvvisazioni nel lavoro scenico, alla maniera di un dramaturg che offre al regista una molteplicità di materiali tra cui scegliere e su cui lavorare (e già Brecht definiva la sua squadra di attori come di dramaturg, proprio per questa attitudine). Penso alla rilettura di determinate figure alla luce di una loro nuova definizione, come è il caso di molti collaboratori di rappresentanti della regia critica, a cui oggi possiamo finalmente riconoscere non un non-ruolo di marginalità casuale, ma il loro ruolo fecondo di dramaturg, come Lunari, Morteo, Kezich, Tofano… Uno per tutti, è esemplare il discorso su Gerardo Guerrieri, che esce ora dalla categoria degli intellettuali “eclettici” (con la connotazione negativa che spesso ha avuto e continua ad avere questo aggettivo) per vedersi riconosciuta l’identità di dramaturg, che fu peraltro il primo a indossare consapevolmente: un’identità che proprio dell’eclettismo si nutre, ma per poter arricchire di potenzialità la straordinaria fase della creazione altrui.
Insomma, un libro da leggere e studiare, ma con attenzione raminga, pronti a lasciarsi avvinghiare o (perché no) respingere. Perché la scrittura stessa di questo libro è, per così dire, da dramaturg: una scrittura non definitiva o schematica, né normativa o prescrittiva, ma piuttosto una scrittura poetica, allusiva, insinuante, spiazzante, da dramaturg del cuore e del pensiero come è Renata Molinari, e da dramaturg della storiografia come possiamo considerare Meldolesi, storico-esploratore disposto a collaborare con il lettore come fa il dramaturg con il regista. E anche questo è un bel modo, nuovo e diverso, di inventare una diversa teatrologia e un diverso dialogo con chi legge un saggio.
Sull’interazione sociale
I tre brevi e occasionali interventi ripubblicati su “Teatro e Storia” cercano di individuare e ridefinire i contorni di un’area sulla quale Meldolesi non arrivò mai a concepire uno studio organico. D’altra parte già il primo e più ampio articolo sul tema, Immaginazione contro emarginazione (1994), mirava a gettare le basi per un ulteriore approfondimento, ma si trattava di uno sguardo – per così dire – “ingenuo” di uno studioso di teatro che si affaccia su un terreno complesso e potenzialmente irto di trabocchetti, il più significativo dei quali (ricorrente negli scritti di Meldolesi, così come nelle riflessioni di tutti coloro che si addentrano in questo campo) è il difficile confine tra arte e riabilitazione, sia questa terapica o giudiziaria. Ne è una spia il fatto che Meldolesi, in quel suo primo intervento, abbia sentito il bisogno di mettere in esergo una citazione (pirandelliana!) di Giovanni Macchia, il suo maestro, come sigillo di garanzia del rigore scientifico (da storico e studioso del teatro) con cui osava addentrarsi in un terreno guardato ancora, a quell’epoca, con un certo sospetto: le stesse righe iniziali di quell’articolo denunciavano proprio la condizione di sostanziale boicottaggio dell’argomento.
Ed è proprio un rigoroso approccio da studioso quello che Meldolesi cerca di ribadire a ogni passo del suo percorso in questo ambito, fino al TIS Festival, durante il quale, nell’autunno del 2003, con la direzione artistica sua e di Franca Silvestri, alcune città dell’Emilia Romagna accolsero esempi e riflessioni in tema: la stessa sigla TIS è l’acronimo di Teatri d’Interazione Sociale, proprio nel tentativo di imporre una denominazione unitaria, riconosciuta e scientificamente condivisibile.
Se per Immaginazione contro emarginazione si trattava di ripartire autorevolmente da Macchia (sia pure in esergo) per affermare il diritto di cittadinanza del teatro in carcere, a due anni di distanza Meldolesi riparte più accuratamente da Fabrizio Cruciani per trovare finalmente la chiave concettuale d’accesso al teatro d’interazione sociale. Ed è una chiave inattesa, se si pensa che a imporla nel dibattito è uno studioso come Meldolesi che, sul rapporto fra teatro e politica, fra teatro e società e scienze sociali, ha imperniato gran parte del suo lavoro e dei suoi studi. Ebbene, la chiave non starebbe sul coté politico o sociale (pur significativi, ovviamente) della questione, ma su quello più squisitamente teatrale: si tratta del concetto di costringimento, che Meldolesi mutua dagli studi di Cruciani fatti su Jacques Copeau.
Meldolesi, insomma, trova qui, finalmente, il punto di contatto, anzi il perno condiviso, che accomuna il teatro d’interazione sociale e il teatro tout court: e questo perno diventa garanzia per inserire del tutto e definitivamente il primo all’interno degli studi sul secondo. Alla ricerca di una specificità riconoscibile del teatro d’interazione sociale, Meldolesi si era limitato precedentemente a elencare i protagonisti di quel teatro (handicappati, carcerati, immigrati), identificandoli come non professionisti del teatro e, semmai, latori di una eccentricità sociale rispetto alla maggioranza: ma si trattava di una specificità meramente sociale, importante ma pur sempre laterale rispetto alla teatrologia; una specificità tecnica, non ontologica. E invece, ecco che la vera specificità squisitamente teatrale si rivela essere quella del costringimento, individuato sull’asse Copeau-Cruciani, che è una condizione di ricerca tipica dell’attore: “Il costringimento è un fattore chiave per la cultura novecentesca del teatro”, ricorda nell’intervento Cari lettori, cari spettatori (nato proprio in occasione del TIS Festival). E dunque, la specificità del teatro d’interazione sociale finisce per identificarsi con quella del teatro tout court (quasi perdendo in specificità, per acquisire in teatralità). Proprio questa identificazione rafforza Meldolesi nella sua esplorazione, sia pure saltuaria o occasionale: il concetto di costringimento è indubbiamente più funzionale dell’opposizione precedentemente utilizzata di “immaginazione vs emarginazione”, proprio perché se quest’ultima ha la potenza evocativa dello slogan (sia pure perfetto e acuto), il concetto di costringimento serve per ricondurre il teatro d’interazione sociale all’interno del discorso generale del teatro, e in definitiva per continuare a parlare di teatro. Ancora dall’intervento Cari lettori: “Si tratta di teatri veri, in cui il corpo dell’attore agisce da epicentro psico-fisico stabilendo relazioni di base preconscia umili, ma non diverse da quelle stanislavskiane”.
Già, l’attore. Perché il teatro è prima di tutto “attore” (ancor di più per Meldolesi, diplomato attore all’Accademia d’Arte Drammatica e attore in sodalizio con Carlo Cecchi e Gian Maria Volonté, prima della carriera universitaria), e allora non è casuale che proprio nell’anomalia dell’attore Meldolesi riscontri l’identità condivisa di teatro e teatro d’interazione sociale. Sia gli attori professionisti che quelli dilettanti e marginali sono portatori di una diversità e – in un certo senso – di un handicap psico-fisico rispetto alla normalità: “gli attori da sempre realizzano mentali sospensioni delle condanne loro proprie. Per loro è la condizione stessa del debordare espressivo”, ci ricorda sempre in Cari lettori. Sarebbe interessante rileggere l’opera saggistica di Meldolesi alla ricerca delle varie incarnazioni della diversità e dell’anomalia dell’attore, che talvolta raggiunge apici importanti o inattesi. Come quando, nel già citato Fra Totò e Gadda, parla di Totò “mezzo cieco”, condizione di handicap fisico che per Meldolesi si trasforma in talento: “La vista di memoria gli serve a potenziare la vista naturale la quale, a sua volta, gli serve a tenere sotto controllo la situazione in scena e in sala” (e poco prima aveva parlato del rapporto fra “terribile disordine mentale” e “seme di genialità” in Memo Benassi). O come quando (in un vecchio saggio sul Teatro e l’arte di piacere, uscito sempre su “Teatro e Storia” nel 1988) parla di Carlo Bertinazzi, ovvero il Carlin della Comédie Française, “la cui omosessualità era considerata portatrice di grazia e d’arte”: ancora una volta Meldolesi annota, anche proseguendo con l’accenno alla “schiena […] geniale” di Carlin, come una condizione di diversità (sia pure ben diversa dall’handicap, ovviamente) consenta all’attore di esprimere l’anomalia con l’arte. Insomma, la diversità del sentire o la diversità fisica possono innescare l’invenzione di un linguaggio teatrale (e quindi di un teatro) proprio nel superamento del costringimento originario: d’altra parte, come scrive in Un teatro del “costringimento”, “il mondo del teatro […] crea deformazione” e “il teatro e l’handicap ci riportano al valore costitutivo della deformazione”.
Insomma, attori professionisti e attori “sociali” sono uniti dalla deformazione come “valore costitutivo” e dalle dinamiche di costringimento: per entrambi il costringimento è questione sia privata sia sociale, e per entrambi è funzione del loro essere attori e grimaldello della propria arte. Arte, si badi bene. Nell’intervento Un teatro rinato dai mondi costretti, l’autore è chiarissimo nella sua perentorietà: “Ogni evento scenico di questi artisti si rivela con il tessuto sociale suo proprio” (il corsivo è mio). Ecco allora ritornare il peso specifico del sociale, ma con la garanzia che qui non si sta parlando banalmente di handicappati o carcerati che fanno teatro, ma di artisti che provengono da condizioni sociali di differenza.
Ed ecco spiegato, infine, l’inizio così tranchant del primo intervento Un teatro del “costringimento”, quando Meldolesi inserisce il teatro d’interazione sociale “nella continuità delle storiche anomalie del teatro italiano”, secondo un approccio che rimanda direttamente alla famosa categorizzazione delle “invenzioni sprecate dal teatro italiano”. Un messaggio radicale e assoluto mandato al mondo della teatrologia.
Ringrazio Laura Mariani per la gentile concessione della fotografia qui pubblicata.