
Memoria e desiderio, ossia storia e futuro: se gran parte della produzione culturale palestinese è rivolta alla rappresentazione e all’elaborazione di un presente di sofferenza – sofferenza individuale e collettiva, umana e nazionale –, c’è una parte meno consistente che rivolge l’attenzione alla questione della storia e della memoria, ovviamente non in termini puramente rievocativi, ma con uno slancio verso la questione della costruzione del futuro. Ci offre questo spunto di riflessione la notizia di poche settimane fa riguardante i due premi vinti dall’ultimo film di Annemarie Jacir When I saw you (2013) all’Olympia International Film Festival, che si aggiungono ai già tanti ricevuti finora a Berlino, Atene, Abu Dhabi, Brisbane, Phoenix, ecc. Una quantità di riconoscimenti che non stupisce: da anni, ormai, direi dall’inizio del nuovo secolo (o meglio, dopo l’inizio della seconda Intifada), il cinema dei registi palestinesi dimostra un eccellente livello qualitativo e ottiene ottimi riscontri internazionali, come hanno reso evidente anche al grande pubblico le nomination agli Oscar di Paradise Now (2005) e Omar (2013), entrambi di Hany Abu-Assad, e del documentario 5 broken cameras (2011) diretto da Emad Burnat insieme all’israeliano Guy Davidi. A cui va aggiunto, almeno, il folgorante umorismo surreale di Elia Suleiman con i suoi formidabili sketches alla Buster Keaton sulla follia del quotidiano nei territori occupati (Intervento divino, 2002).
In una così ricca, ampia e articolata produzione cinematografica, i temi portanti sono, appunto, quelli della vita di tutti i giorni sotto occupazione. Temi trattati in modo diverso a seconda della sensibilità del regista. Nella commedia si va dalla garbata profondità di Rashid Masharawi (come nello spirito naif di Ticket to Jerusalem, 2002, fino all’apologo amaro di Laila’s birthday, 2008) al più leggero umorismo di Sameh Zoabi (con la comicità generazionale di Man without a cell phone, 2010). Nel dramma, oltre ai film già citati di Abu-Assad, che affrontano di petto il conflitto sondando i labirinti oscuri del terrorismo e del tradimento, penso ai robusti chiaroscuri di Tawfik Abu Wael (che si è misurato sia con una campagna desolata da western – un po’ Sergio Leone e un po’ Manchevski – in Sete, 2004, sia con una città che risucchia una coppia nel suo destino in Last days in Jerusalem, 2011) o agli spaesamenti lirici e notturni di Michel Khleifi in Zindeeq (2009). Ma non vanno dimenticati percorsi più originali e particolari, come le autoproduzioni para-documentarie di Sahera Dirbas (Jerusalem Bride, 2010) o le riflessioni sul ruolo dell’intellettuale nella condizione palestinese compiute da Raed Andoni nell’illuminante Fix me (2009), dallo spirito che ricorda un po’ Woody Allen, fino alla nascente produzione di cinema d’animazione con il primo e toccante Fatenah (2009) di Ahmad Habash dedicato a Gaza, o ai cortometraggi realizzati in particolare da folgoranti videoartisti, come Larissa Sansour (che in A Space exodus, 2005, trova come unica soluzione per la Palestina piantare la bandiera sulla luna) o Sharif Waked (che in Chic point, 2003, inventa una linea d’abbigliamento appositamente per i checkpoint dell’esercito israeliano).
Come si vede, una ricchezza e varietà che riflette la più ampia produzione culturale, mostrando il suo rapporto con la resistenza, in una nazione – forse l’unica al mondo – dove praticamente non esiste una produzione culturale che non sia giocoforza politica e di resistenza, dove qualsiasi atto artistico riflette, anche lontanamente, la condizione in cui vive la Palestina. Al punto che si può dire che oggi la produzione culturale palestinese sia una delle più vivaci e nette forme di resistenza non violenta che il popolo palestinese sta conducendo: le interviste a 21 artisti e intellettuali raccolte da Fiamma Arditi nel bellissimo e raccomandabile libro Buongiorno Palestina (ed. Fazi, 2014) danno un quadro ampio ed efficace al riguardo, che ci porta nella creazione artistica, teatrale, cinematografica, musicale, mostrandone le profonde connessioni con la realtà contingente in cui quella creazione prende corpo.
Però, sembra che il cinema di fiction non si confronti direttamente con la storia della Palestina, che è invece questione centrale, perché proprio sulla rimozione della storia e della memoria si basa gran parte della retorica israeliana, della quale uno spettacolo israeliano, di cui ho parlato su questo blog, ci aveva mostrato le dinamiche. A misurarsi con questo tema è stato, tra i pochi, proprio Elia Suleiman in Il tempo che ci rimane (2009), raccontando – naturalmente a modo suo, cioè stralunato, graffiante, raggelato – la parabola palestinese. Sono pillole di storia palestinese, passate in rassegna attraverso la vita della famiglia del regista: dalla partecipazione iniziale alla resistenza fino al crescente disagio e amarezza, sia per la decadenza anagrafica dei genitori sia per quella antropologica dei palestinesi: insomma, si passa dalla resistenza all’intifada fino al karaoke in cui affoga la gioventù odierna, mentre il protagonista assiste imperscrutabile all’avanzare del vuoto che ci attende nel futuro.

A confrontarsi direttamente e senza compromessi tematici con la storia della Palestina, e con un suo momento molto preciso, è proprio il pluripremiato When I saw you di Annemarie Jacir. Quando si vede un film di Jacir occorre dimenticare Suleiman o il sapore agrodolce di Masharawi o la foga narrativa incalzante di Abu-Assad. I suoi film sono ben più che graffianti: sono lame che affondano senza edulcorazioni o compromessi nella coscienza di chi guarda, in modo straziato e perfino fastidioso, obbligando a una presa di posizione. Il suo primo film Salt of this sea (2008), il primo della cinematografia palestinese girato da una donna, attaccava frontalmente la questione dei diritti dei palestinesi privati della loro terra e dei loro beni a seguito della nascita dello Stato di Israele nel ’48. Nel film, una ragazza americana cerca di riottenere inutilmente i risparmi depositati dal nonno palestinese in banca: nei suoi vani tentativi subisce con rabbia umiliazioni e angherie, fino a rapinare la banca che le nega il dovuto. Ma più dell’esito criminal-avventuroso alla Bonnie & Clyde sono altri i momenti cruciali del film, come le vessazioni subite ai vari checkpoint, fino al più ostico di tutti: la protagonista arriva nella casa che fu della propria famiglia, nella quale abita ora una famiglia di ebrei. Si tratta di una delle questioni aperte e più dolorosamente sensibili (anche per la sua sostanziale irrisolvibilità): l’esodo dei palestinesi dalle loro città e dai loro villaggi ha significato lasciare le proprie case, di cui i profughi portano ancora la chiave (che infatti è uno dei simboli della resistenza), agli ebrei che le hanno requisite. I racconti fatti da Suad Amiry nel suo ultimo libro Golda ha dormito qui (ed. Feltrinelli, 2013) sono illuminanti per comprendere esattamente il problema e il significato che la casa ha per il popolo palestinese espropriato. Ebbene, nel film Salt of this sea la famiglia ebrea che vive nella casa dei palestinesi cacciati è progressista e disponibile al dialogo, ma la protagonista rifiuta in maniera netta e ‘cattiva’ quel dialogo. Ecco, credo che occorrerebbe partire proprio da qui, da questa scena così poco politically correct, così poco buonista, così respingente e sgradevole, per comprendere a fondo la questione palestinese. Perché il buonismo del dialogo significa porre sullo stesso piano due interlocutori in parità conflittuale, mentre qui ci troviamo di fronte a un oggettivo disequilibrio, che va affrontato come tale.
Questa scena è esemplare anche per comprendere il cinema stesso di Jacir, un cinema che non fa sconti. La regista passa dallo strappo del ’48 riflesso in Salt of this sea a quello del ’67 in When I saw you, che – e qui sta la novità, mi sembra – ci porta direttamente nella storia. Siamo proprio nel 1967, subito al di là del confine giordano, dove è stato creato un campo profughi per i palestinesi scappati con l’occupazione israeliana della Cisgiordania e dove, sulle colline, sono accampati nuclei di fedayyn che si addestrano alla guerriglia. Nel film, un ragazzino profugo (il bravissimo Mahmoud Asfa, che si è aggiudicato uno dei due premi di Olympia, come miglior attore) si unisce proprio ai partigiani, sognando così di poter rientrare nel villaggio da cui è dovuto scappare e riabbracciare il padre. Se la lingua non fosse l’arabo, si direbbe un classico film sulla nostra Resistenza: per noi italiani è impossibile non sovrapporre i due contesti narrativi e non richiamare alla memoria l’immaginario mitopoietico di quella lotta contro l’occupazione tedesca. Da questo punto di vista, mi sembra di poter dire che questo film rappresenti il primo (perlomeno, non conosco altri film ambientati nel ’48 o nel ’67) che possa dare ai palestinesi quella base mitico-storico-fondativa che è spesso un passaggio importante e significativo per la memoria e, soprattutto, per la costruzione della memoria, di un popolo: l’immensa produzione western americana ne è l’esempio più evidente, ma molti paesi hanno dedicato una parte importante del proprio cinema a ridefinire (ad alterare…) la propria storia, individuando il momento cruciale dell’affermazione della propria idea di nazione. Per l’Italia più che il Risorgimento, che pure ha avuto importanti film, è stata proprio la Resistenza a catalizzare gli sforzi di narrazione e mitopoiesi nazionale. Ebbene, credo che il cinema palestinese abbia nel suo futuro il diritto-dovere di intraprendere anche questa strada, di cui vediamo qui un primo, notevole esempio.
La regista sceglie di raccontare l’occupazione israeliana del ’67 attraverso la reazione di riscatto, delineando attraverso i personaggi diversi atteggiamenti e diverse possibilità, puntando decisamente la sua attenzione e la sua adesione sul ragazzino che, con la purezza del desiderio, si limita semplicemente a volere ciò che non ha più. Siamo in pieno recupero di certe dinamiche e strategie narrative, riprese da tanta cinematografia occidentale, che però rinunciano al puro disegno dell’eroismo per lasciare il posto a un vero e proprio poema lirico, capace di entrare nelle pieghe dei sentimenti: quello dell’acuta nostalgia e quello della volontà di riscatto. La figura ‘eroica’ del bambino racchiude proprio entrambi i sentimenti, che si sottraggono al pragmatismo di chi lo circonda: una nuova incarnazione della protagonista di Salt of this sea, tutta sentimenti (e senso assoluto della giustizia) e contro ogni pragmatismo (e buonismo). Ma ben più centrale del ragazzino mi sembra la figura della madre, la cui presa di coscienza transita dalla passiva accettazione della condizione di profuga alla corsa verso la propria terra, grazie allo slancio del piccolo Tarek: è lei l’unico personaggio del film che modifica il proprio atteggiamento, passando dall’accettazione dello status quo alla reazione, che – si badi – non è militare, come quella del gruppo di partigiani, ma puramente di principio, seguendo la pulsione ingenua e incrollabile del figlio. E’ dunque lei la chiave moderna, proprio in quanto dinamica, di questo film storico-mitico: tutti i personaggi, compreso il bambino, vivono fissati in icone statiche (ancorché splendidamente raffigurate), e sono quindi alla base di quella mitopoiesi di cui parlavo; mentre lei vive le trasformazioni, proiettando i propri dubbi e tentennamenti sullo spettatore, e quindi proponendosi come figura dialettica, storica, anzi attuale (stavo per scrivere brechtiana). E quando nell’ultimo minuto del film compie l’atto impensabile, decidendo di tornare – contro ogni pragmatismo e contro ogni logica – verso la sua casa, questo atto suona come punto di partenza per ogni pensiero o azione nel presente, 45 anni dopo.
When I saw you (لما شفتك), regia di Annemarie Jacir; soggetto e sceneggiatura di Annemarie Jacir; con Mahmoud Asfa, Ruba Blal, Saleh Bakri, Anas Algaralleh, Ali Elayan, Ruba Shamshoum, Ahmad Srour, Firas W. Taybeh. Palestina, Giordania 2013.
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