
Tra gennaio e febbraio sarà possibile rivedere uno di seguito all’altro i tre spettacoli che Andrea Adriatico ha realizzato sopra, dentro e attorno i testi di Elfriede Jelinek. Gli spettacoli, che hanno debuttato in ordine sparso tra l’estate e l’autunno del 2014, si materializzeranno così in modo esplicito, tra Bologna e Ravenna, come altrettante tavole di un trittico coerente nell’ambito del Festival Focus Jelinek, e quindi questa sarà l’occasione giusta per cercare di annodare i fili segreti tra un’opera e l’altra o per scoprire distanze e vicoli ciechi. Adriatico lavora spesso su autori ricorrenti, come Koltès, Pasolini o Copi, ma la creazione programmatica di un vero e proprio ciclo è rara (il più immediato precedente sono i 4 spettacoli beckettiani del 2009 riuniti nella tetralogia Non io nei giorni felici) e quindi ghiotta per un affondo di ampio respiro nel reciproco universo artistico dei due autori. In attesa di assistere a conferme o smentite, ecco qualche ipotesi interpretativa, sulla base della memoria delle rappresentazioni di qualche mese fa.
Adriatico arriva a Jelinek dopo aver attraversato Koltès, Pasolini e, in anni più lontani, Mishima e Brasch, mentre in anni più recenti gli autori principali sono stati Beckett e Copi. Non è una banale girandola di nomi, ma piuttosto una cartografia drammaturgica che aiuta a comprendere come il suo approccio agli autori abbia al suo centro la debordante presenza della parola e il suo contrario, cioè il suo esorcismo e trasformazione. L’incontro con Elfriede Jelinek (annunciato agli inizi del 2009 e poi rimandato fino a oggi) sta sotto il segno degli incontri con gli autori portatori di problematicità della parola, ma con una differenza rispetto ai precedenti: la testualità di Jelinek è impiantata al tempo stesso sulla parola e sul suo esorcismo. Nelle sue opere la scrittrice austriaca costruisce veri e propri monumenti alla parola per poi intaccarli, macerarli, sgretolarli, trasformando la parola in qualcos’altro. La parola cessa di essere veicolo di comunicazione. Le parole diventano cose, diventano esse stesse quella realtà che sembrano voler descrivere. A quel punto, al posto della parola c’è piuttosto un magma incandescente di puri frammenti di realtà, che tuttavia creano un’altra realtà, artificiale, teatrale. La debordante presenza della parola, dunque, non è altro che debordante presenza di realtà, o meglio debordante presenza di una finzione di realtà: Jelinek sembra parlare, ma ci lancia addosso i simulacri del nostro mondo (sul rapporto tra linguaggio e realtà in Jelinek, si veda la mia riflessione del mese scorso). Difficile, a questo punto, maneggiare quelle parole, perché – appunto – non sono parole. “Cercare di ‘rappresentare’ questi testi credo produca un fallimento”, scrive Adriatico. Tuttavia, il punto non è solo quello della rappresentazione dei testi (che oltretutto nascono in un’epoca postdrammatica e postrappresentativa, di cui sono esempi puntuali), ma semmai è quello del considerarli proprio come testi, alla stregua di qualsiasi altro testo drammatico o postdrammatico. Il problema è, insomma, quello della adulterazione del reale che passa dentro le parole per creare un’altra realtà che dialoga con la realtà di cui abbiamo esperienza. Credo che questo sia il punto nevralgico con il quale un regista deve fare i conti nel momento in cui accetta la sfida con i testi di Jelinek: rapportarsi con architetture verbali di manipolazione della realtà. Non solo. Questi testi-realtà vanno poi sostenuti da voci e corpi, che non coincidono con il classico personaggio drammatico – e questa non è certo una novità – ma neanche con un non-personaggio o con ulteriori declinazioni della figura in scena. Tecnicamente non so come si potrebbe definire, ma la riduzione elementare espressa da Adriatico mi sembra efficace, perlomeno per permetterci di entrare nei suoi spettacoli: “I personaggi di Elfriede Jelinek non sono altro che corpi che danno parole”. Corpi che danno parole. O meglio, corpi che danno quelle parole che non sono altro che frammenti adulterati di realtà.
Adriatico attraversa tre testi di Jelinek, rimodellandoli (anche nei titoli) per farli propri, secondo una sua modalità piuttosto ricorrente. Infatti, ci sono autori per i quali si offre come regista, e ci sono, invece, autori con i quali ha bisogno di innescare un dialogo alla pari, secondo quella che Gerardo Guccini ha definito (proprio analizzando, in un suo saggio, il ciclo di Adriatico su Beckett) “tenace paradigma di una doppia autoralità”. E così L’addio. La giornata di delirio di un leader populista diventa, nel primo spettacolo del trittico, Delirio di una TRANS populista. Un pezzo dedicato a Elfriede Jelinek; mentre Jackie diventa Jackie e le altre. Un altro pezzo dedicato a Elfriede Jelinek; e infine Sport. Una pièce diventa Un pezzo per SPORT. Un’altra visione su Elfriede Jelinek. Il processo di appropriazione parte da qui, e parte dal ricorrere della parola “pezzo”, che arriva dritta dritta dal tedesco Stück, concetto che, nella risemantizzazione di Adriatico, sembra sfuggire dal glossario teatrale a cui è comunemente collegato, per dare semmai il senso del frammento (un “pezzo” di cosa? forse, ancora, un frammento di realtà, schizzato su un palcoscenico?) e, al tempo stesso, il senso della poca importanza che quel frammento ha: in fondo, qui non si tratta di “spettacoli” o “rappresentazioni”, ma di semplici “pezzi”, ossia oggettistica residua del quotidiano…

In Delirio di una TRANS populista (slogan: “VOTA TRANS”), basato sul monologo che l’autrice ha costruito sulla figura del politico xenofobo Jörg Haider, Adriatico allestisce un improbabile comizio campestre, al suono di una polka, nel quale un leader populista arringa tre devote e ginniche seguaci barbute, da un rustico piedistallo, una rotoballa di fieno che può sembrare anche la versione bucolica di una statua (magari proprio del Nettuno bolognese che al tridente ha sostituito roncola e forcone). Durante il “pezzo”, nel quale il populista inneggia all’unità della massa, le tre villose fanciulle cambiano i loro abiti con vestiti lunghi da sobrie drag queen per siparietti musicali su canzoni di Mina e di Conchita Wurst (la drag singer che viene dallo stesso Paese di Jelinek e Haider), e lo stesso leader populista si trasforma in donna, finendo addirittura per piegare la lingua, sostituendo al pronome io il neologismo ia. Alla fine, la transessualizzazione del leader, dei seguaci, e perfino degli spettatori (che indossano una parrucca e sono immortalati in selfie), è completa: il delirio ha avuto successo e la grottesca trasformazione in massa uniforme è definitiva. Come in altre occasioni, è significativo che protagonista (perentoria ed efficacissima) del “pezzo” sia Eva Robin’s, trans che gioca sul trans, e che non a caso entra ed esce dallo spazio scenico ballando la finlandese Ievan polkka (cioè la “polka di Eva”).
In Jackie e le altre (slogan: “IO, LEI, L’ALTRA”), il monologo che Jelinek attribuisce a Jacqueline Kennedy è trasformato in coro da quattro figure femminili vestite in modo identico, che ci appaiono come altrettanti cloni imperfetti dell’originale e che incedono e si muovono, sulla musica languida di Nina Simone, con flemmatica solennità (vengono alla mente, anche visivamente, gli spettacoli della “trilogia della clonazione” creati da Adriatico vent’anni fa: Ferita, Solo, Salvo). Alternandosi nel racconto, le quattro “altre” Jackie, o meglio le quattro sedicenti Jackie (ancora Eva Robin’s, affiancata qui da Anna Amadori, Olga Durano e Selvaggia Tegon Giacoppo: un composito e perfetto quartetto d’archi, verrebbe da dire), raccontano l’esperienza del potere, l’importanza dei vestiti, del look e dell’apparenza (con accenti sul significato degli indumenti che sembrano riecheggiare l’Orgia pasoliniana), il rapporto col Presidente-marito e con Marilyn Monroe. Lo fanno, anch’esse, su un piedistallo: un cubo luminoso, su cui stanno come rigide cubiste o manichini da vetrina, mentre uno schermo alle loro spalle ripropone stralci documentari dalla vita dei Kennedy, alternati con frasi estrapolate dal testo. Anche qui, in un breve intermezzo, alcuni spettatori vengono forniti di parrucca e portati a sostare per poco sullo spazio scenico, in mezzo a un pubblico di bamboline mini-Jackie.
Un pezzo per SPORT (slogan: “NOI, MASSE”) le presenze si moltiplicano in misura esponenziale: il “pezzo” è in realtà un vero e proprio spettacolo di massa con ben 27 figure in campo (ancora una memoria dalla teatrografia di Adriatico, sia tematica che visiva: oplà. noi viviamo. fratelli di massa pensando ernst toller, realizzato nel 1992 nello sferisterio di Santarcangelo). Ma in questa massa, non tutti sono uguali. Quasi tutti sono vestiti come atleti di squadre calcistiche, che si allenano e poi giocano col pallone, tranne due, i due poli di frattura della massa. Il primo è una figura umana con la testa d’uccello, picchiata e negletta, che alla fine si scoprirà essere una trans. Il secondo è l’arbitro, ossia l’autrice, che giganteggia dall’alto di un’enorme gonna nera che sovrasta la scena e che regola ciò che accade sotto (regolando anche la contestazione rivolta a sé): l’interprete è Patrizia Bernardi, che già vent’anni fa aveva “guidato” il primo esperimento teatral-sportivo di Adriatico al Festival di Urbino, con il koltesiano Là, dove ci si vede da lontano, in cui una squadra atletica (lì gli attori erano 15) salutava allusivamente e sinistramente la recente “discesa in campo” del patròn del Milan Silvio Berlusconi. Durante il “pezzo” scorrono monologhi, dialoghi e cori, che raccontano il potere, il conflitto, l’idolatria del corpo e dello sport, mentre sulla scena si compongono, scompongono e ricompongono coreografie di massa.
Nel ciclo beckettiano di Non io nei giorni felici, Adriatico aveva lavorato sulla solitudine, sullo strappo dell’individuo, soffocato dalla propria condizione monadica (Dondolo, Non io) o straziato dall’incomunicabilità e dal sadismo delle relazioni (Giorni felici, Senzaparole). La somma delle individualità, ricomposta nella visione organica e complessiva del ciclo, generava un coro di alienazione. Mi sembra che il trittico dei “pezzi” di Jelinek proceda in senso opposto: in tutti e tre i lavori, è centrale la moltiplicazione, la massificazione, il coro, sia esso il coro dei devoti adepti della trans populista, il coro delle pseudo-Jackie o quello degli atleti. Ma tutti questi cori si sovrappongono e si riducono a una unicità di voce: l’io-ia della trans populista percorre tutto il trittico, rivelando come tutti i personaggi non siano altro che rifrazioni di un’unica individualità: perfino in Un pezzo per SPORT, dove l’arbitro-autrice è, in definitiva, demiurgo di alter ego. Oggetto è, insomma, la società di massa, dove non esiste una vera differenza tra individui, la cui intercambiabilità è funzionale alla gestione del potere, che non a caso è filo rosso potentissimo in tutti e tre i “pezzi”.
Ma il punto di originalità nell’approccio di Adriatico al mondo di Jelinek, alla sua analisi della realtà, alla sua visione del potere e alla sua costruzione delle parole, è il travestimento del corpo. Proprio quel corpo che “dà” le parole, che sono frammenti adulterati di realtà, diventa nel trittico di Adriatico un corpo adulterato, in movimento, in trasformazione, a significare una nuova frontiera del potere. Se il potere, come ricorda Foucault, ha esercitato in passato la sua capacità di controllo e condizionamento proprio attraverso il controllo e condizionamento del corpo, ecco che la nuova frontiera del controllo del potere sul corpo consiste non nella sua umiliazione, ma nella sua manipolazione e nell’esaltazione della manipolazione. Filo conduttore del trittico, insomma, è la manipolazione del corpo come arma accettata e condivisa del potere, che ovviamente Adriatico gioca non in termini banalmente simbolici, ma in termini più evocativi e spiazzanti. Ci troviamo così, “pezzo” dopo “pezzo”, il potere che uniforma le stesse identità di genere, “transessualizzando” (in un felice e geniale ribaltamento rispetto alla realtà, ma anche in un accenno quasi “movimentista” alle battaglie per i diritti lgbt) e uniformando la massa; il potere che trova nei vestiti, nel make up e nelle acconciature (e quindi nell’alterazione strategica della forma dell’identità) la leva per gestire il consenso e per comunicare; il potere che esalta il training fisico e lo sport, secondo una ben nota strategia plurisecolare, ma che appunto – in una più ampia visione contemporanea della manipolazione del corpo, esaltata attraverso la retorica dei mass media e gli interessi di economia e potere – rivela qui un impulso del tutto particolare.

Su questa base, diventa allora più chiaro il reticolato di rimandi interni, tematici o formali, ai tre “pezzi”: più che fili rossi che ritornano in tutti e tre i lavori (l’unico è proprio la presenza strategica di Eva Robin’s), si tratta di un unico filo concettuale, che si esprime attraverso ricorrenze concrete solo legando gli spettacoli a due a due. Per esempio, la figura trans ricorre nel primo e nel terzo; la parrucca per gli spettatori nel primo e nel secondo; il movimento atletico nel primo e nel terzo; il piedistallo del potere nel primo e nel secondo, e così via. Ancor più interessante, per altro verso, è la differente scelta stilistica. Delirio di una TRANS populista fa riferimento al delirio camp, presentandosi a tratti come un folle divertissement, magari uscito dalla costola di Copi (a cui Adriatico ha dedicato diversi spettacoli recenti), un buffo sketch infarcito di verbosità comiziesca e di balletti en travesti: un vero e proprio depistaggio formale rispetto a un contenuto semplicemente agghiacciante, che è quello delle dinamiche massificanti delle dittature e, in fin dei conti, di quella politica che distingue “noi” da “gli altri” (azzerando le differenze, “perché tutti siano davvero tutti”). Jackie e le altre cambia completamente registro, presentandosi come una sorta di spettacolo post-pop, proprio facendo leva su un’icona warholiana del pop: lo spettacolo si presenta non solo come un’elegia caustica di Jacqueline Kennedy e del suo mondo di potere fintamente naif, ma – formalmente – come una sorta di funerale della pop art, di cui rimangono frammenti incerti e decaduti: spezzoni video raccattati da YouTube, bamboline Barbie con le sembianze dell’eroina, gli stessi elementi caratterizzanti (il cappellino, la parrucca, l’abito, ma reinterpretati da una stilista attuale, Angela Mele) indossati da improbabili epigone che sembrano uscite da un reality show sul miglior sosia (“Guardateci e ordinate subito qualcosa di simile perché proprio uguale non l’avrete mai”). Il magazzino pop, saccheggiato nei decenni passati, lascia solo residui, raccontandoci di un’epoca non più pop, bensì residuale e citazionista, fatta solo di ombre condivisibili in modo cheap, con un clic su YouTube, con un selfie (nuova frontiera della massificazione individualista), con il cappellino indossato da chi ha qualche sogno di gloria e cerca di ripetere stancamente parole non più sue. Un pezzo per SPORT, infine, ha il respiro del grande spettacolo di prosa (o del grande match sportivo), con un impianto scenico e attorale di ampio respiro, dove i brani testuali si susseguono chiaramente distinti tra figure che a tratti si identificano come personaggi, dove la gestione di individui e cori ha il ritmo musicale di un’orchestrazione imponente e coerente.
Il trittico dedicato a Jelinek fa a “pezzi” la testualità della scrittrice austriaca, e dunque la realtà che essa manipola e veicola, facendola planare nel mondo complesso e visionario di Adriatico, fatto di rebus e di spiazzamenti, di impertinenze e di sottrazioni alle regole del bon ton teatrale. Insieme, Jelinek e Adriatico (la “doppia autoralità” di cui parlava Guccini), ci raccontano in questi tre “pezzi” le dinamiche più nascoste del potere, che passano attraverso il corpo e la sua manipolazione ed edulcorazione, trascinandoci nel gioco subdolo della coralità dietro cui si nasconde la massificazione moderna: il mondo dopo il genocidio antropologico… ossia, Jelinek che racconta a Pasolini cos’è successo nel frattempo, quarant’anni dopo la sua morte.
Delirio di una TRANS populista. Un pezzo dedicato a Elfriede Jelinek, di Andrea Adriatico; con Eva Robin’s e Saverio Peschechera, Alberto Sarti, Stefano Toffanin…; suono, scene e costumi Andrea Barberini; cura Daniela Cotti, Monica Nicoli, Saverio Peschechera, Alberto Sarti, Sarah Patanè, Isabella Gatti, Rabii Sakri; grafica Albertina Lipari de Fonseca; produzione Teatri di Vita, in collaborazione con Festival Focus Jelinek. Prima assoluta: Bologna, Festival Cuore di Brasile, Teatri di Vita, 25 giugno 2014.
Visto a: Bologna, Teatri di Vita, 25 giugno 2014.
Jackie e le altre. Un altro pezzo dedicato a Elfriede Jelinek, di Andrea Adriatico; con Anna Amadori, Olga Durano, Eva Robin’s, Selvaggia Tegon Giacoppo; costumi Angela Mele; suono, scene Andrea Barberini; grafica Albertina Lipari de Fonseca; cura Daniela Cotti, Monica Nicoli, Saverio Peschechera, Alberto Sarti, Sarah Patanè, Isabella Gatti, Rabii Sakri; traduzione dal tedesco dell’opera originale Luigi Reitani; produzione Teatri di Vita, in collaborazione con Fondazione Orizzonti d’Arte, Festival Focus Jelinek. Prima assoluta: Chiusi, Festival Orizzonti, Piazza del Duomo, 6 agosto 2014.
Visto a: Chiusi, Festival Orizzonti, 6 agosto 2014.
Un pezzo per SPORT. Un’altra visione su Elfriede Jelinek, di Andrea Adriatico; arbitro Patrizia Bernardi, titolari in campo Alberto Sarti, Andrea Fugaro, Anna Amadori, Carolina Talon Sampieri, Chiara Guadagnini, Daniela Cotti, Fabrizio Croci, Francesca Mazza, Gianluca Enria, Nunzio Calogero, Olga Durano, Saverio Peschechera, Selvaggia Tegon Giacoppo, Stefano Toffanin, in panchina Camilla Quarta, Delia Porcu, Dimitris Papadopoulos, Elisa Moscatelli, Giulia Lorenzelli, Giulio Maria Corbelli, Giuseppe Pagliarisi, Gloria Lanzoni, Ilaria Cecchinato, Lorenzo Pacilli, Piero Giovannini, a terra Eva Robin’s; luci, scene e costumi Andrea Barberini con la collaborazione di Chiara Guadagnini; tecnica Francesco Bala, Rabii Sakri; grafica Albertina Lipari de Fonseca; foto Giulio Maria Corbelli; cura Daniela Cotti, Monica Nicoli, Saverio Peschechera, Davide Preti, Alberto Sarti; produzione Teatri di Vita, in collaborazione con Emilia Romagna Teatro, Festival Focus Jelinek. Prima assoluta: Bologna, Festival VIE, Arena del Sole, 23 ottobre 2014.
Visto a: Bologna, Arena del Sole, 23 ottobre 2014.