
La perdita della memoria è l’ossessione dei nostri giorni, di un’umanità sempre più smemorata e al tempo stesso sempre più desiderosa di marcare la propria presenza a futura memoria ma su pagine effimere. Spam di Rafael Spregelburd sembra discostarsi, almeno strutturalmente, dalla drammaturgia dell’autore argentino, per lasciar posto a un monologo a blocchi intercambiabili che ricostruiscono la fallace parvenza di una trama. Lasciate le costruzioni da interni borghesi da telenovela, in cui l’ordinarietà dell’apparenza di dialoghi e situazioni svela i meccanismi sociali attraverso progressivi slittamenti di realtà, Spregelburd si lancia in un thriller virtuale che pone in controluce le ansie moderne, e in particolare l’ossessione (e la perdita) della memoria. L’occasione per ripensare a quest’opera è data da un articolato focus dal titolo A tutto Spregelburd, a cura di Silvia Mei, organizzato da La Soffitta / Dipartimento Arti Visive Performative Mediali dell’Università di Bologna, all’interno del quale è stato riproposto lo spettacolo scritto e diretto dall’autore argentino, interpretato da Lorenzo Gleijeses, con i suoni dal vivo di Alessandro Olla.
Non che Spam sia lontano dalle modalità creative di Spregelburd, ma è evidente che questo testo rappresenti il tentativo di sperimentare qualcosa al di fuori di uno stile riconosciuto. Cosa vera solo in parte. In Spam, infatti, rimane il dato forse più caratteristico della sua scrittura, che è lo studio del meccanismo e della lingua. I suoi testi canonici sono una sorta di malata rappresentazione della realtà, dove l’accento sembra cadere più sulla rappresentazione e sui suoi artificiosi intrecci che sulla realtà stessa: è il gioco arguto sui meccanismi ad attirare l’attenzione, come se i meccanismi riuscissero a spiegare una realtà assolutamente inspiegabile, confusa, probabilmente “vera” ma che a noi appare solo “verosimile”, e perciò sospetta e incerta. E allora, in soccorso di chi ha bisogno di una bussola, ecco non la certezza di una storia, ma la sua esplosione abnorme e malata, come in una brutta telenovela, con una pletora di personaggi reali o virtuali vomitanti chiacchiere, ciascuno portatore di una storia più individualista che individuale, ciascuno aggrappato come può a una zattera della Medusa troppo stretta per contenere tutte le opzioni del verosimile. A cominciare dai primi testi apparsi in traduzione italiana (Eptalogia di Hieronymus Bosch. Volume primo, ed. Ubulibri, 2010), per continuare con la grande saga di Bizarra, un’opera di 30 ore in 20 puntate, fino a Lucido (di cui, contestualmente alla rassegna bolognese, è uscita la pubblicazione italiana presso Editoria & Spettacolo). Spam scaturisce da questa officina drammaturgica, portando al parossismo il gioco del meccanismo, dichiarandolo, magari anche ingenuamente, per disperderne subito le potenzialità di spiazzamento e per metterlo subito a regime come modalità naturale di interpretazione del reale. D’altra parte, anche il protagonista dichiara subito la propria oggettiva inconsistenza, dopo aver perso non solo il parossistico individualismo dei personaggi delle commedie di Spregelburd, ma perfino la pura e semplice individualità, frantumata ma non moltiplicata, annichilita ma non evaporata.

Lo spettacolo è costituito da una serie di blocchi narrativi (apparentemente casuali nella sequenza: l’estrazione delle scene da recitare è parte del senso dell’opera, non del suo concreto svolgimento) che pian piano dovrebbero metterci in grado di risolvere l’enigma dichiarato all’inizio: un uomo si sveglia in un albergo di Malta senza ricordare più nulla della sua vita. Tracce, indizi, piste e depistaggi ci conducono a una dichiarazione di verità presunta, che si svela a pezzi fino a una non-chiarezza finale. Si tratterebbe di un professore che ha lo stesso nome del presidente del consiglio italiano Mario Monti (Spam è stato scritto nel 2012): un esperto di glottologia antica, che ha ricostruito la lingua perduta di Ebla, e che sta seguendo la tesi di una studentessa sugli inuit. Adesso lui si trova all’hotel Caravaggio di Malta, dopo essere caduto nella trappola di una banda di asiatici che, attraverso una tipica e-mail civetta, gli ha preso il numero di conto bancario trasferendo lì una somma enorme di denaro, da lui immediatamente trasferita su PayPal e da loro violentemente rivoluta indietro; in mezzo, bambole parlanti che dicono parolacce e un turista svizzero che gira un documentario subacqueo. Insomma, cinematograficamente parlando, sembra l’odissea nella memoria di Memento spalmata sulla mappa di Babel: ossia, il dramma raccontato da Christopher Nolan dell’identità perduta e a fatica ricostruita, riverberato nell’orizzonte globale di Alejandro Iñarritu e Guilliermo Arriaga dove gli accadimenti più remoti azzerano le distanze in una narrazione segretamente e necessariamente intrecciata.
Spregelburd sembra impiantare questa ricerca e questa globalizzazione, grazie al dichiarato riferimento al mondo di internet, su un altro piano. Internet non è semplicemente oggetto di descrizione, con tutte le caratteristiche che, adeguatamente còlte, portano all’ironia (una per tutte, i paradossi traduttivi di Google Translator): internet è la forma nuova che condiziona la narrazione stessa. Lo smemorato che cerca di ricordare chi era non si muove più, come in Memento, per segmenti paratattici che aggiungono ogni volta la variazione che aiuta a progredire (sia pure per poco tempo) nel recupero del passato: il protagonista di Spam va alla ricerca della sua storia muovendosi all’interno di un labirinto ipertestuale, dove, secondo le regole del web, collegamenti fruttuosi si mescolano con vicoli ciechi e piste ingannatrici. Al di là del puro inserimento in un testo teatrale di termini e realtà nuove, ma quotidiane nella nostra esperienza (Google, e-mail, spam, Skype, PayPal…), l’opera assimila i meccanismi stessi del web trasformandoli in dispositivi narrativi.

Ma il punto centrale di Spam è forse un altro: quando perdiamo la memoria, cosa perdiamo? E quindi, di cosa andiamo alla ricerca? Degli oggetti o della lingua? Perdiamo oggetti o perdiamo la lingua? E quindi, cerchiamo oggetti che ricompongano il mosaico dell’esistenza perduta, oppure cerchiamo lo strumento per ridefinire ciò che abbiamo perso e ciò a cui tendiamo, cioè la lingua? Questo interrogativo è alla base del lavoro di Spregelburd, che proprio tra il magazzino di oggetti evocati da ricomporre e i codici linguistici da testare conduce il gioco combinatorio di Spam. Gli oggetti come pezzi di realtà si mescolano nella scena e nel racconto, come per ribadire proprio quella realtà che si tenta di ricostruire. Oggetti che tuttavia sfuggono alla concretezza, o meglio: che rimandano ad altri fantasmi. Come l’intricata realtà della Decollazione di San Giovanni Battista di Caravaggio, che con Roberto Longhi possiamo definire proprio pittore della realtà, e che definisce al tempo stesso la fisicità concreta di luci, ombre e corpi, ma anche la loro evanescenza di figure e fantasmi, e che può assumere ulteriori rappresentazioni, come nella Decollazione ‘cinese’ fotografata da Nicolás Levin. O come il libro Lo straniero di Camus, che è evidente attributo del protagonista e che introduce il discorso dello spiazzamento linguistico, così come accade con la bambola parlante (oggetto) che chiama “troia” (lingua) la bambina. Bambola assemblata in Cina, con la voce di un’operaia ignara dell’italiano: nel mondo globalizzato, le lingue si confondono in una babele dove all’impasto inglese comune si sovrappongono le aberrazioni delle traduzioni automatiche. E così, la memoria viene ricostruita cercando di percorrere da una parte il sentiero materico della realtà fisica attraverso i suoi simulacri, come Pollicino che nella foresta ignota deve distinguere le briciole come reperti di una realtà nota; e dall’altra la fluidità di codici linguistici sfuggenti nella loro fenomenologia e nelle loro regole grammaticali, come l’antica lingua di Ebla, il cui bizzarro nominalismo figlio di una logica imperscrutabile guida come rotta privilegiata il percorso mnemonico del protagonista, attraversato da interferenze linguistiche di varia provenienza, dalla Malesia della truffatrice alla Cina dell’operaia al tedesco del sommozzatore, passando ovviamente per Google Translator, e senza dimenticare tutti i trabocchetti che l’italiano stesso può riservare. “A me interessano opere che costruiscono linguaggi”, dichiara Spregelburd (citato da Silvia Mei nell’introduzione a Lucido), il quale però dichiara anche: “Il reale sarebbe la parte dell’accadimento che il linguaggio non riesce a catturare” (in Prospettiva, a cura di Fabrizio Arcuri e Ilaria Godino, ed. Titivillus). E allora, sono gli oggetti a mantenere la memoria oppure è l’enunciazione? La seconda, direbbe il protagonista di Memento, costretto a scrivere sulle polaroid e perfino sul proprio corpo le parole che servono a fissare il tempo labile del passato. I primi, direbbe invece il protagonista di Ogni cosa è illuminata di Liev Schreiber, collezionista di oggetti la cui conservazione permette la permanenza della memoria. La seconda che crea i primi, sintetizzerebbe il personaggio interpretato da Sandro Lombardi nel film Il mnemonista di Paolo Rosa, in cui la saturazione delle parole in chi non riesce a dimenticare genera immagini e azioni.

Nella condizione dell’amnesia, il movimento dello smemorato Mario Monti verso la ricostruzione di sé è un casuale slittamento in orizzontale, tra le giornate di un calendario di un mese di perdizione-agnizione, come fossero caselle di una tombola senza soluzione. Non si torna indietro, si può solo saltare a zig-zag, consapevoli di un’erranza tra segni e reperti che rischia di essere infruttuosa. Nella Maison en petits cubes, cortometraggio capolavoro del cinema d’animazione, firmato da Kunio Katô e vincitore del Premio Oscar 2008, l’innalzamento del livello del mare comporta la progressiva costruzione di ulteriori piani sui vecchi edifici: così, le case sono composte di tanti piani subacquei, abbandonati insieme agli oggetti del passato e alle loro memorie, mentre le persone si trasferiscono progressivamente in alto. La ricerca del proprio passato diventa quindi un movimento verticale, con il quale si scende attraverso gli stadi della vita e le emozioni: la verticalità del nuoto subacqueo richiama la verticalità psichica del ricordo personale. Che è precisamente ciò che il protagonista di Spam non vuole o non sa affrontare: rimossa la psiche, rimosse le emozioni, dunque rimossa l’interiorità dell’individuo, rimangono solo oggetti che non sanno più comunicare o lingue che si rapprendono come pezzi di materia inintellegibile. Con il rischio che il tracciato degli oggetti o il recupero della lingua conducano alla ricostruzione di un’identità fallace e ambigua. Rischio tutt’altro che remoto: la ricerca del passato attraverso le tracce del ricordo può rivelarsi fallace, come ci ricorda la nostrana storia vera dello smemorato di Collegno con l’oscillazione mai risolta tra due diverse identità (entrambe acclarate dalle rispettive famiglie) o la più recente vicenda del canadese, raccontata nel film di Denis Langlois Amnésie. L’énigme James Brighton: un giovane ritrovato nudo e senza memoria in mezzo alla strada, con due sole certezze del proprio passato, il fatto di essere gay e il nome James Brighton, salvo essere poi accusato di impostura. Senza dimenticare i depistaggi e i rivolgimenti di identità della smemorata di Mulholland Drive, in cui gli indizi – come in ogni film di David Lynch che si rispetti – ricostruiscono frammenti illusori del passato, incidendo ambiguamente sull’identità stessa.

Perché a mancare in questi tentativi di ricordare è, forse, qualcos’altro. In mezzo al dubbio tra lingua e oggetti, si insinua una terza possibilità, che ci viene suggerita da un altro spettacolo sulla memoria da riconquistare: Pinocchio di Babilonia Teatri. Ossia, il corpo. In Pinocchio, tre persone uscite dal coma raccontano brandelli di memoria, che non è né memoria di oggetti (anche se, a un certo punto, manipolano dei vecchi giochi) né memoria linguistica (anche se, per tutto lo spettacolo, il loro parlare è una lotta contro gli impedimenti del parlato dovuti al trauma), ma è memoria del corpo. Ci si presentano con i loro spogli corpi attuali, che hanno attraversato drammaticamente l’immobilità psicofisica, marcando visivamente un tempo presente che chiede di ricordare ma non di recuperare il tempo passato. Il corpo non torna indietro, può solo rievocare gesti e movimenti appartenuti al passato, ma non riviverli. D’altra parte, se è vero che la permanenza sta negli oggetti e nella lingua, è anche vero che entrambi sono elementi morti: gli oggetti imbustati nella plastica asettica in Ogni cosa è illuminata sono senza più vita, così come le bambole di Spam, chiuse nelle loro confezioni e pronte a parlare suggerendo una lugubre (e volgare) parvenza di vita. E le lingue sono quella morta della città di Ebla, spazzata via dalla sabbia su cui fu scritta, oppure quella mai vissuta e mai viva delle traduzioni automatiche del web. Gli oggetti e la lingua, col portato mortale della loro essenza, gettano la memoria in un passato che non ritorna; i corpi, invece, trasformano la memoria (che il corpo non può più rivivere) in slancio verso il futuro. La bellezza dei corpi degli interpreti di Pinocchio non ha nulla da invidiare al passato di quei corpi, perché sono corpi vivi. Proprio l’ignoranza della via del corpo, allora, porta il protagonista di Spam ad avvitare la ricerca su sé stessa, nel labirinto del calendario in cui il tempo va avanti e indietro in base al sorteggio, tra reperti fisici e reperti linguistici, dove l’unico accenno davvero ‘sensibile’ al corpo è la mail che pubblicizza l’allungamento del pene… spam, appunto. Con il dubbio che anche il nostro passato e la nostra memoria, con i loro oggetti e con la lingua che serve per rievocarli, non siano altro che noioso, ridondante, incalzante, fastidioso, ossessivo e soprattutto inutile spam, che impedisce ai nostri corpi (e, dunque, alla vita) di essere e avanzare nel presente.
Spam, una Sprechoper di Rafael Spregelburd; regia di Rafael Spregelburd; con Lorenzo Gleijeses; musiche originali eseguite dal vivo e video project Alessandro Olla; spazio scenico Roberto Crea; lihgt designer Gigi Ascione; movimenti coreografici Marco Mazzoni; aiuto regia Manolo Muoio; assistente alla regia Laura Amalfi; traduzione italiana Manuela Cherubini; area tecnica Rosario D’Alise; collaborazione alla creazione musicale Zypce; realizzazione scene e oggetti Michele Gigi; motion grafica Elisa Marras (Multiforme); illustrazioni Valentina Olla; apparizioni in video Maria Alberta Navello, Laura Amalfi, Pino Francio, Patrizia Frencio, Manolo Muoio; voci documentari Eblaiti Laura Amalfi, Manolo Muoio; fotografia Caravaggio cinese Nicolás Levin; ufficio stampa Paola Rotunno; organizzazione Luca Marengo. Un progetto di Lorenzo Gleijeses e Rafael Spregelburd. Produzione Fondazione Campania dei Festival – Napoli Teatro Festival Italia, Festival delle Colline Torinesi,Teatro Stabile di Calabria, Teatro a Corte, TiConZero, in collaborazione con Ambasciata Argentina in Italia. Prima assoluta: Napoli Teatro Festival, Teatro Nuovo, 7 giugno 2013.
Visto a: Bologna, Laboratorio delle Arti, 12 febbraio 2015.