
Il confronto serrato con la realtà e la chiave politica sono ben piantate al centro dell’arte contemporanea: si tratta di una necessità forte, inderogabile, personale, vissuta nei corpi degli artisti e trasmessa negli oggetti della loro creazione, dove le istanze della polis e della res publica si materializzano come scudisciate sugli osservatori. No, non sto parlando dell’arte occidentale, ma di quella del Medio Oriente, perlomeno quella filtrata da Marco Scotini, curatore della mostra Too early, too late, allestita alla Pinacoteca Nazionale di Bologna fino al 12 aprile. Una sessantina di autori (pochissimi dei quali occidentali) che spalancano per noi le porte del Medio Oriente attraverso una visione di forte impegno unita a un’esemplare raffinatezza artistica, dall’Egitto alla Turchia, dall’Arabia all’Afghanistan, dalla Palestina all’Iran. Quello che segue è un percorso molto parziale e personale in quelle sale che racchiudono mondi interi.
La grande aspettativa rispetto a una mostra concepita come un focus geografico in un’area che vive, anche in maniera devastante, fortissime tensioni tra tradizione e modernità è che l’arte sia capace di interpretare questo dissidio, magari riuscendo a suggerire sintesi poetiche. La mostra scardina questo preconcetto, che sembrerebbe perfino suggerito dal pannello iniziale che accoglie il visitatore mettendo a confronto la “scoperta” napoleonica dell’Egitto con tre piccole teche in cui sono conservati oggetti artistici attuali come fossero reperti archeologici. Il confronto tra tradizione e modernità, invece, sembra eluso dagli artisti qui raccolti, che semmai trovano nell’adesione alla concretezza della realtà e nella politicità del loro gesto il vero senso dell’agire artistico. Forse, l’unica opera – o perlomeno la più eclatante – che allude al rapporto tradizione-modernità è la bellissima serie fotografica Qajar dell’iraniana Sadhi Ghadirian (nata a Teheran nel 1974): ritratti di donne eseguiti secondo la concezione estetica dei ritratti in studio di fine 800, ma nei quali sono collocati elementi moderni. Una donna è raffigurata accanto a una radio, altre due reggono uno specchio che mostra i loro volti da una prospettiva inedita. La potenza concettuale si sposa con la bellezza delle immagini rendendo al meglio proprio la riflessione su tradizione e modernità: ma forse non è un caso che queste opere risalgano a (poco) prima del 2000. E in un certo senso anche queste fotografie hanno una valenza politica: la scheggia di modernità tardonovecentesca inserita in una cornice ottocentesca non è un semplice appunto sull’evoluzione sociale o antropologica, ma un potente collegamento e corto-circuito tra l’era della dinastia degli scià Qajar e quella confessionale di Ali Khamenei. E comunque per “arte politica” va intesa non solo quella (molto presente nella mostra) che denuncia qualcosa, ma anche quella che, usando slittamenti di segni e oggetti, si relaziona direttamente con la realtà del suo tempo: che trova nell’evidenza dei reperti della realtà (qui la radio e lo specchio) il grimaldello per parlare della realtà altrimenti indecifrabile.

Ne è un esempio il lavoro di un altro artista iraniano, Mahmoud Bakhshi (nato a Teheran nel 1977): la serie Talk Cloud (2013), ossia nuvole luminose e parlanti, che riportano caratteri e suoni di discorsi di Khomeini e Ali Khamenei, così come di Lenin e Lunačarskij (nonché – vera chiave concettuale di volta – Andy Warhol), sul ruolo sociale dell’arte. L’oggetto da design pop, nella tranquillizzante innocenza della sua fattura perfettamente inseribile nell’arredamento moderno, si rivela inquietante cavallo di Troia dal quale fuoriescono i proclami dei leader iraniani e sovietici (in un accostamento di per sé eloquente) che dettano “la linea”. Che non si tratti di mera opera d’arte autoreferenziale (l’arte che parla dell’arte) nasce proprio dal suo essere calata in una nazione nel quale l’arte è quotidiano campo di battaglia per la libertà d’espressione e specchio critico di una realtà che fa i conti con una politica complessa e pervasiva. Basti pensare all’opera cinematografica di Jafar Panahi, dalla fenomenologia delle contraddizioni della società urbana in Oro rosso alle diverse denunce della condizione femminile, come nel lieve Offside e soprattutto nel folgorante Cerchio che ridà alla donna una centralità negata, per evidenziarne l’emarginazione (e al riguardo non si può non pensare alla graphic novelist e anch’essa regista Marjane Satrapi). Senza dimenticare Bahman Ghobadi, non solo per la straordinaria tetralogia delle guerre e dei confini (Il tempo dei cavalli ubriachi, Marooned in Iraq, Turtles can fly e Half moon), ma anche per il vivacissimo I gatti persiani in cui lo sguardo sulla scena musicale underground della capitale iraniana rappresenta un atto d’accusa gioiosamente politico.

Dunque, parlare di arte in Iran ha un peso fortemente politico di per sé, e il lavoro di Jinoos Taghizadeh (nata a Teheran nel 1971) Rock Paper Scissors, creato nel 2009, in occasione del trentesimo anniversario della rivoluzione, ne è forse l’esempio più eclatante: una serie di collage di giornali che parlano della caduta dello scià e dell’ascesa di Khomeini, sui quali sono sovrapposte immagini da Bosch e Bruegel, con infine una terza sovrapposizione di mani che giocano a sasso-forbice-carta. Dunque, la celebrazione della rivoluzione su cui agisce l’immaginario inquietante dei fiamminghi, il tutto annegato nella ludica casualità di un gioco di fortuna: politica (i quotidiani come frammenti di realtà), incubo (la rievocazione dei fiamminghi: fantasia) e la quotidianità (con il ritorno della realtà, ma questa volta corporea, e quindi personale) in cui radiose vittorie e stridenti presagi annegano lasciando il passo all’improvvisazione e alla quotidiana borghese lotta per la sopravvivenza, che ci riporta ancora – in un certo senso – al cinema, con i vividi zoom domestici di Asghar Farhadi.

Più espliciti i fumetti satirici di Cem Dinlenmiş (nato a Istanbul nel 1985), nei quali “tutto è permesso”, come dice il titolo Her Sey Olur: disegni fitti di caricature e parole, pubblicati settimanalmente su “Penguen”, che attraversano la politica internazionale ma soprattutto nazionale, affrontando anche temi scottanti come la brutalità della polizia e la vicenda delle proteste di Gezi Park. Sempre con il disegno umoristico interviene l’egiziano Ahmed Sabry (nato ad Al-Minya nel 1982) con The Truth on Mohannad’s Death, che prende ispirazione da una falsa notizia diffusa dai media e attraversa episodi della vita politica e sociale del suo paese, trasformando protagonisti e comprimari dell’epoca di transizione in icone beffarde, grottesche (comiche) e ambigue, in un helzapoppin’ che sembra riflettere il caos post-rivoluzionario. Siamo nel 2012, alle spalle della rivoluzione che ha portato alle dimissioni di Mubarak e prima del colpo di stato di Al-Sisi: nel ribollire degli eventi e nell’altalena tra aperture e rimbalzi, Sabry riduce la complessità del gioco politico e delle istanze popolari in una serie di post-tazebao grafici, imperniati sulla fallacia delle immagini, di ciò che veicolano e dell’informazione tout court: il titolo, che ricorda la falsa notizia serpeggiata nei social network, è la chiave per perdersi nella rete di trabocchetti delle immagini e delle parole presenti in questi disegni, e – in definitiva – per irridere e denunciare il ruolo dei media e delle notizie nella creazione e nella potenziale falsificazione della realtà.

Proprio dall’Egitto arrivano due opere che sembrano ricalcare la stessa necessità, non solo tematica ma anche materiale. Il racconto comune è quello, ancora una volta, che parte dalla rivoluzione del 2011, e cioè le proteste di piazza Tahrir, per estendersi a tutte le proteste di questi incandescenti anni egiziani. Lo sforzo di Hany Rashed (nato al Cairo nel 1975) e Moataz Nasr (nato ad Alessandria nel 1961) è quello di rendere materiale – fisica – la memoria e di rendere tangibile la partecipazione popolare, intesa non come massa ma come pluralità di individui che formano la società egiziana. In Tahrir Square (2014) Rashed ricostruisce con tante sagome di legno colorate il dispiegamento di dimostranti e polizia in piazza durante l’occupazione. Di fatto, in questo modo, Rashed “occupa” a sua volta una sala intera (ed è suggestivo che si tratti di una sala con brandelli di affreschi quattrocenteschi), non solo rievocando, ma facendo abitare quella sala-piazza da una miriade di presenze che mostrano la dinamica di uno scontro in atto. Il dispiegamento delle figurine ha qualcosa del gioco infantile, e per questo impone al visitatore uno scarto nello sguardo. Uno scarto nel visitatore egiziano, che può riconoscere particolari noti o anche il fatto che l’installazione nasca dalla sovrapposizione temporale di diversi fatti accaduti nello stesso luogo. E uno scarto nel visitatore estraneo, che può cogliere soprattutto lo scollamento tra l’apparente tranquillità delle persone raffigurate e la drammaticità delle sagome dei carri armati che fanno da sfondo e soprattutto della figura centrale con le braccia alzate, attorno a cui tutto sembra ruotare come un maëlstrom colorato.

Così come accade con El Shaab (2012) di Nasr, una serie di statuette in ceramica che dovrebbe rappresentare, come dice il titolo, il popolo egiziano, e più precisamente il popolo che passa quotidianamente da piazza Tahrir e che di quella piazza, durante le proteste, è stato protagonista. Donne, uomini, ragazzi, famiglie, religiosi, persone in carrozzella, perfino lo stesso Nasr a braccia conserte, tutti allineati come per una rassicurante passerella in proscenio. Ma tra queste 25 figurine, qualcuno è ferito e soprattutto, staccato dalla passerella e posto a un significativo dislivello, ecco un gruppo tutt’altro che rassicurante: tre poliziotti che inferiscono su una ragazza a terra. Eccolo, il popolo delle statuette: ecco il popolo, dice Nasr. Che è un campionario di gente che rivendica eretta e con dignità la propria centralità e le proprie differenze, salvo scoprire in un angolo la violenza del potere esercitata su quelle stesse persone. Le statuine, seducenti nella loro grazia, si trasformano in schegge drammatiche di realtà, sferzando il lindore asettico dello spazio espositivo.

Fortissimo è il bisogno di realtà di questi artisti. Da una parte, certamente, c’è la produzione di manufatti artistici allusivi (la nuvola parlante di Bakhshi ne è un esempio), ma torna fortemente il senso di un’arte che più che mimesi della realtà diventa evidenza della realtà, nonché evidence (in inglese: prova, testimonianza) della realtà. Gli artisti egiziani appena citati mostrano chiaramente come il mettere in evidenza la realtà e il mostrare testimonianza di ciò che accade ed è accaduto, attraverso la sua materia o le sue icone, nascano da una necessità che intreccia arte e politica. Il video, croce e delizia di tanta arte contemporanea, riafferma proprio questa necessità di testimonianza – non di trasfigurazione o interpretazione – della realtà. Come nel caso di Lida Abdul (nata a Kabul nel 1973), che nei suoi video documenta azioni lancinanti. Come in Brick Sellers of Kabul (2006), in cui tanti bambini in fila, nell’arido paesaggio afghano, portano con sé dei mattoni recuperati dalle macerie dei bombardamenti per rivenderli: mattoni che serviranno per ricostruire nuovi edifici. C’è un concentrato vorticoso e sconvolgente di sensi ed emozioni in questo video di 6 minuti, che lascia storditi, e nel quale il voyeurismo dello spettatore delle cronache da tg si mescola con la pietas rivolta a quei bambini e, attraverso di loro, al loro paese e, più in assoluto, al genere umano che ha permesso lo strazio di questa realtà.

O come nel caso del saudita Ahmed Mater (nato ad Abha nel 1979), che in Ground Zero (2012) mostra distruzioni di edifici alla Mecca. E qui il corto circuito è potentissimo tra la dichiarazione del titolo, che allude alla distruzione della Twin Towers, e le immagini che riproducono azioni di normalissime demolizioni per consentire l’ammodernamento dei quartieri. Il tutto mostrato sullo schermo di alcuni smartphone, punto d’arrivo artistico di video che proprio sugli smartphone sono nati, poiché si tratta delle riprese fatte dagli operai stessi che lavoravano alle demolizioni. Ancora una volta i video mostrano frammenti concreti di realtà, evidenze (nuovamente, anche nel senso inglese del termine: prove), che tuttavia si riempiono ambiguamente di complessità grazie allo slittamento proposto dall’artista: per chi o per cosa queste demolizioni sono “ground zero”, con un’espressione che in Occidente ha un preciso significato collegato tragicamente alla dialettica con il mondo arabo? Qui ci mancano elementi per comprendere meglio cosa stiamo osservando, ma è intuibile che la distruzione di questi edifici, certamente “pacifica”, sia in realtà collegabile con lo stravolgimento urbanistico e architettonico della Mecca storica, riprendendo così in maniera diversa il rapporto fra tradizione e modernità di cui parlavo all’inizio, tuttavia non come questione, ma semmai come abdicazione della questione: non c’è alcun confronto fra tradizione e modernità, ma solo sopraffazione della seconda sulla prima. Ed è proprio lo strumento dello smartphone, imposto all’osservatore come cornice obbligata, a sancire il trionfo della nuova era dell’immagine.

Necessariamente, è la Palestina la terra dove l’arte si confronta direttamente con la sua urgenza politica e la sua funzione di evidenza, concetto chiave – sempre nella doppia accezione di rendere evidente e offrire una prova – per un popolo a cui solo l’ostinazione a mostrare l’evidenza della propria esistenza consente di continuare a esistere. Un’arte di resistenza, dunque, che il curatore della mostra fa partire non a caso dal film di Pasolini Sopralluoghi in Palestina, il cui titolo viene usato per la sezione che riguarda questo paese. Perché non si tratta di recuperare suggestivamente quel titolo, ma anche di dialogare direttamente con l’intellettuale italiano che negli anni 60 ha mostrato al suo paese l’alternativa orientale. Nei suoi Sopralluoghi Pasolini si aggira per la Palestina del 1965 alla ricerca di location per il film Il Vangelo secondo Matteo, ma finendo deluso: la Palestina moderna non corrisponde all’ambiente di cui ha bisogno, al Vangelo che vuole raccontare, e che infatti girerà poi in Italia. Ebbene, Pasolini entra potentemente nella mostra grazie a due opere, realizzate da un israeliano e una palestinese: due risposte nette al regista italiano, che con lo strumento del video entrano nelle faglie della riflessione di Pasolini per mostrarne gli “errori”. Ayreen Anastas (nata a Betlemme nel 1968, ma residente a New York), si confronta direttamente con i Sopralluoghi, rifacendo il percorso concettuale e geografico del regista per giungere a una diversa conclusione: non è vero che la Palestina abbia perso la genuinità cercata da Pasolini, basta ripercorrerla con gli occhi giusti, ed eccola dispiegare tutta la sua forza e bellezza. Il video Pasolini Pa* Palestine (2005) porta in sé l’affermazione potente dell’identità palestinese, e dunque un valore politico che prende Pasolini come pretesto per rilanciare il discorso altrove. La stessa costruzione del video è parte integrante del senso dell’opera: le frasi di Pasolini e le immagini attuali creano scollamenti che spetta all’osservatore riempire o comunque interpretare. Perché sono scollamenti temporali nei quali sono incisi i 40 anni di storia che passano tra l’originale e l’opera di Anastas, ossia 40 anni di occupazione israeliana, tangibili sullo schermo attraverso l’alterazione della Palestina rispetto a quella raccontata da Pasolini.

Anche l’israeliano Amir Yatziv (nato nel 1972 a Karmiel, ma residente tra Belgio e Germania) conduce un potente gioco di slittamenti, che viene ulteriormente riverberato nella collocazione scelta per l’esposizione: l’audio di Sopralluoghi in Palestina sovrapposto alle immagini del Vangelo secondo Matteo, a sua volta sovrapposto agli affreschi del gotico bolognese della chiesa di Sant’Apollonia di Mezzaratta, in una vasta sala della Pinacoteca. Così, mentre la voce di Pasolini descrive perplessa paesaggi e persone incontrate in Palestina che potrebbero richiamare luoghi e personaggi per il suo film, noi vediamo il film realizzato che però usa luoghi e personaggi completamente diversi. This is Jerusalem, Mr. Pasolini (2012) gioca su questo spiazzamento per ritornare su quei concetti di realtà e di rappresentazione della realtà che abbiamo già incontrato. Con un’aggiunta determinante, ossia l’affermazione di una realtà altra, che il titolo – imperniato su un ulteriore spiazzamento – offre: noi sentiamo Pasolini che parla di Gerusalemme ma vediamo Matera (vera location del film), e intanto Yatziv ci dice che questa è Gerusalemme. Dunque, qual è la vera Gerusalemme? Dov’è? E’ solo un’idea, una stato mentale, una proiezione politica o un luogo fisico? Il dubbio si aggroviglia non solo in senso spaziale, bensì, come nel video di Anastas, anche in senso temporale: questa è Gerusalemme, ma quale? La Gerusalemme evangelica di duemila anni fa, la Gerusalemme visitata da Pasolini a stento pacificata o la Gerusalemme attuale occupata? Pasolini è sfidato, ma la sfida – attraverso di lui – è rivolta a tutti noi, per ripensare in modo diverso le coordinate spazio-temporali che determinano la nostra idea e la vera realtà di Gerusalemme e della Palestina.

Vedere la Palestina è già affermazione politica, in un paese dove le forme di lotta per l’autodeterminazione e contro i soprusi dei diritti umani e internazionale si concentrano in uno slogan tanto semplice quanto impressionante: Existence is Resistance. Si pensi allora alla portata di un’opera così apparentemente innocua come Untitled (fragments from ex libris) (2010-12) di Emily Jacir (nata a Ramallah nel 1970): una serie di stampe di ex libris e frontespizi di antichi volumi. Si tratta di libri appartenenti a palestinesi, pochi esempi delle decine di migliaia saccheggiati dagli israeliani nel 1948, alcuni distrutti, alcuni inglobati nella Biblioteca Nazionale (di questi, alcuni sono finiti in un fondo dal titolo, tragicamente surreale, “Proprietà abbandonata”). Dare visibilità ai reperti libreschi di un popolo come quello palestinese del quale si vuole negare la memoria è di per sé atto politico. Ribadire il passato attraverso questi oggetti, esposti come evidences, significa sfidare la propaganda israeliana che vorrebbe azzerare la memoria palestinese, e dunque il suo futuro. Futuro che Khaled Jarrar (nato a Jenin nel 1976) prefigura nell’oggi con State of Palestine (2011-12), ovvero il timbro di uno Stato di cui è impedita l’esistenza, ma che l’artista usa per timbrare passaporti e documenti, fino alla creazione di una serie di francobolli, stampati grazie alla collaborazione delle Poste di alcuni paesi europei (come Germania e Olanda, mentre da Francia e Spagna sono arrivati rifiuti alla collaborazione). La visionarietà dell’artista rende tangibile una realtà negata.

Tra il passato riportato a evidenza da Jacir e il futuro prefigurato da Jarrar, ecco il presente raccontato da Bisan Abu Eisheh (nato a Gerusalemme nel 1985) nel suo Untitled (work in progress) (2015), dove quel “in progress” ha una valenza tutt’altro che scontata. L’opera è infatti una radiolina fatta in piccoli pezzetti. Era così, attraverso piccoli elementi da riassemblare, che la radio veniva fatta arrivare segretamente al padre, detenuto politico nelle prigioni israeliane, che poi la ricostruiva (ecco il senso di “work in progress”) per poter ascoltare le notizie, eludendo i controlli della feroce repressione israeliana. I pezzi della radiolina giacciono ora inerti e muti, e ancora una volta interrogano l’osservatore, lo spingono a immaginarne il riassemblaggio: quello storico del padre dell’artista, ma anche quello potenziale odierno. Ma si può anche dire che la radio disarticolata rifletta la disarticolazione dell’informazione stessa, la verità spezzata e soverchiata dal silenzio, dalla censura o dalla propaganda. In questo senso, la riproposizione di un vecchio documentario come Tall El Zaatar (1977) di Mustafa Abu Ali, che ricostruisce il massacro di migliaia di palestinesi nell’omonimo campo profughi avvenuto nel 1976, rappresenta una scheggia potente di cronaca (di storia, ormai, ma sempre presente e purtroppo rinnovata) all’interno di una mostra che ribadisce a ogni passo la necessità di mettere in evidenza, sotto forma artistica, la realtà.

Ed è un’artista che riassume nella sua biografia i punti più sofferenti della situazione mediorientale a offrirci gli oggetti più interessanti da questo punto di vista. Si tratta di Mona Hatoum, che è nata a Beirut nel 1952 da famiglia palestinese profuga dopo la fuga da Haifa in seguito alla creazione dello stato di Israele, e che ora vive a Londra dallo scoppio della guerra civile nel 1975: dunque “cosa” è? Palestinese, libanese, inglese? Di lei la mostra presenta diverse opere, in cui la realtà dell’oggetto esposto nasconde la realtà della materia con cui è stato realizzato, come fragili trame di tessuto fatte con la pasta ed esposte in una teca (Pasta Vitrine, 2006), o ancor più fragili trame fatte con i capelli (Untitled – Hair grid with knots, 2006). Proprio la trama, il paziente intreccio di fili che dà vita a una rete – e dunque a un discorso collettivo – sembra racchiudere il senso di molte intenzioni e di molte storie che abbiamo attraversato, a partire proprio dalla biografia della stessa Hatoum, che dalla continua perdita di radici (prima la famiglia strappata dalla Palestina, poi lei stessa strappata dal Libano) anela alla ricostruzione di una trama di senso che unisca e crei relazioni anziché disperdere e isolare. Anche se le sue trame sono frammentarie, monadi che ancora una volta è l’osservatore a dover cercare dolorosamente di riallacciare. Fino alla trama universale, racchiusa nel tappeto Bukhara (multicoloured) (2008), consunto da ampi segni di usura che come brutte macchie deturpano i colori. Quelle macchie sono il nostro mondo: l’America, l’Africa, l’Europa, l’Asia si mostrano all’osservatore come orride aree consunte, vecchie e marce, che offendono la florida bellezza di un tappeto orientale. La trama del tappeto si interrompe qui, proprio dove siamo noi, rivelandoci la nostra vera natura, con tutta l’evidenza della rovina. Ma anche con tutto il bisogno di restaurare e ricucire questo mondo.
Too Early Too Late. Middle East and Modernity, a cura di Marco Scotini. Presentato nell’ambito di Arte Fiera Collezionismi. Pinacoteca Nazionale di Bologna. 27 gennaio-12 aprile 2015.
[…] Come nei “presepi” di Hany Rashed e Moataz Nasr, visti alla mostra Too early, too late (di cui ho parlato a suo tempo in questo blog). La piazza Tahrir di Rashed si presentava con l’ampia e certosina meticolosità di un vero e […]
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