Orchi, draghi e flauti magici: il fantasy nell’epoca della crisi

“Il racconto dei racconti”, regia di Matteo Garrone

Negli stessi giorni hanno debuttato in Italia sul grande schermo e sul palcoscenico due opere fantasy che, partendo da testi del ‘600 e del ‘700, suggeriscono al pubblico odierno una riflessione sulla volontà, sull’equilibrio, sulla responsabilità, sulla crisi. Il film Il racconto dei racconti diretto da Matteo Garrone ispirato al Cunto de li cunti di Giambattista Basile e Il flauto magico di Mozart con la regia di Luigi De Angelis e la direzione musicale di Michele Mariotti dialogano inconsapevolmente a distanza, rilanciando questioni simili, con una differenza di approccio. Garrone recupera tre racconti di Basile (Lo polece, La cerva fatata e La vecchia scortecata) conferendo alla narrazione da un lato la visionarietà spettacolare e barocca della tradizione cinematografica fantasy, e dall’altro una profondità di senso che si addentra nei sentimenti dei personaggi e nel valore filosofico delle vicende. De Angelis, invece, lavora sulla sottrazione decorativa e di senso, cercando di evitare le densità filosofiche ed esoteriche, per prosciugare la narrazione in senso quasi ludico e astratto, ma insinuandosi nella questione del ruolo dello spettatore. Con questo procedimento quasi opposto si arriva da entrambe le parti a definire alcune questioni centrali, che sono enunciabili proprio grazie alle radici fiabesche e al fantasy che allontanano dall’attualità per farne emergere meglio un aspetto più sotterraneo.

Il film di Garrone è imperniato sulla questione dell’equilibrio nella volontà umana, in rapporto al destino, alle avversità, ma soprattutto al problema del limite. E’ infatti la forza di volontà a muovere le decisioni di ogni personaggio e a formarne il carattere stesso: dai racconti di Basile, Garrone e i suoi co-autori Edoardo Albinati, Ugo Chiti e Massimo Gaudioso traggono storie morali, vagamente apologanti, fortemente fondate sull’imperativo della volontà. E’ questo che porta la regina desiderosa di essere madre a scatenare le vicende del primo racconto: la fatale ricerca del drago marino a cui strappare il cuore da mangiare, la nascita dei due gemelli – il principe e il servo – e la loro fraterna solidarietà fino alla separazione con l’ostracismo del più debole e il suo tentativo di annientamento. La volontà del re donnaiolo incrocia la volontà della vecchia tintora del secondo racconto: ne scaturiscono l’amplesso e il rifiuto, e poi la metamorfosi dell’anziana decrepita in sensuale ragazza, fino alle nozze in un ambiguo lieto fine. Ed è, invece, la rinuncia alla responsabilità della volontà, compiuta dal re del terzo episodio, a innescare la deriva che inizia con l’ingrasso abnorme della pulce addomesticata per arrivare alla resa incondizionata di fronte all’orco che vuol sposare la figlia, finché quest’ultima non riconquista interiormente una forza di volontà che raddrizza il corso della storia sua e del reame. Proprio la volontà come responsabilità soggettiva di fronte alla vita, insomma, sembra essere lo snodo concettuale che anima i tre “cunti” ri-architettati da Garrone. La volontà, sembra suggerire l’episodio della pulce, non è un opzione negoziabile, ma una precisa responsabilità. Il punto vero, semmai, è l’equilibrio tra volontà e destino, ossia tra volontà e condizioni esterne – le condizioni della storia, verrebbe da dire – e, dunque, tra volontà e spirito interiore. La volontà della regina che desidera un figlio innesca la storia, ma non tiene conto delle condizioni di quella storia, e cioè la necessità che l’equilibrio complessivo non venga alterato. Questione di entropia? Il punto è che una vita in più comporta una vita in meno, e la volontà all’azione deve tener conto di cosa mettere sull’altro piatto della bilancia. La sequenza del funerale del re (ucciso dal drago a cui aveva strappato il cuore per consentire alla moglie di diventare madre) in cui al feretro segue la portantina con la regina che culla il neonato, avuto dopo una sola notte di gravidanza, è esemplare. Ma ciò che si innesca non si può mai controllare: altro concetto che ritorna in tutti e tre gli episodi. Al figlio avuto in questo modo si affianca una sorta di fratello gemello partorito dalla serva nella stessa circostanza, e i loro nomi biblici richiamano la responsabilità dei loro destini: il patrizio Elias richiama il destino del profeta immortale capace di grandi imprese, come quella che il ragazzo compirà salvando l’altro, mentre il povero Jonah porta nel suo nome il predicatore inghiottito dal mostro marino. Saranno i due fratelli a dimostrare come alla volontà mal temperata corrisponda una reazione che deve riportare all’equilibrio. Esattamente come la favola della vecchia corteggiata dal re, poi defenestrata e infine trasformata in giovane. Qui le due volontà si articolano nell’ignoranza e nel nascondimento, ossia – in entrambi i casi – in un difetto (naturale o indotto) della conoscenza. Il re lussurioso si innamora della voce, ma non conosce il corpo e alla scoperta del vero corpo grinzoso e sfatto ne rimarrà sconvolto. D’altra parte, la vecchia tintora nasconde la sua verità perché vuole trarre profitto dall’inatteso spasimante, un re nientemeno, ma prima di tutto non sa gestire l’opportunità, facendosi cogliere nella sua reale fisionomia, e poi, una volta magicamente trasformata in avvenente fanciulla, non sa cosa questa trasformazione possa realmente significare. Semplicemente, la vive, accorgendosi solo alla fine che evidentemente quella metamorfosi era solo temporanea. Il punto più evidente ed esplicito che riguarda l’equilibrio è nel terzo episodio, quando la principessa viene salvata (sia pure per pochi attimi) dall’orco grazie a dei giocolieri. Il salvataggio è compiuto da un equilibrista, che traghetta la ragazza su una fune sospesa su un terribile abisso. Quella sequenza ha una forte carica cinematografica, ma solo alla fine del film ci accorgeremo anche della sua forte carica simbolica, di come – cioè – proprio quell’immagine dell’equilibrista sia così centrale, al punto da essere scelta dal regista come “morale” conclusiva del suo lavoro. E forse non è un caso che la “morale” dell’equilibrista sia ambientata nel più filosofico e mentale dei tre castelli italiani usati come location, e cioè Castel del Monte, che impone uno sguardo di razionale equilibrio e di mistero per poter essere osservato e attraversato; laddove l’impervio castello di Roccascalegna che si erge spavaldo verso il cielo richiama la spavalderia calcolatrice dei due protagonisti del racconto delle vecchie, e il sontuoso palazzo di Donnafugata, ricco, solare e altero, è la dimora della regina sprezzante nei confronti del destino, e che ama correre dentro l’abbacinante labirinto di pietra con la sicurezza di chi lo sa dominare, senza rendersi conto che è proprio in quel labirinto che si manifesterà per la prima volta (perlomeno agli occhi dello spettatore) l’impensabile, ossia la rivelazione del “doppio” di suo figlio.

Matteo Garrone Il racconto dei racconti 1
“Il racconto dei racconti”, regia di Matteo Garrone

Garrone si incontra, insomma, col fantasy cercando in esso le allegorie per raccontare il senso dei comportamenti umani e di ciò che smuove le azioni delle persone, incapaci di reggersi sull’equilibrio. In fondo, lo ha quasi sempre fatto nei suoi film. E’ la storia dell’Imbalsamatore, quasi un fantasy realista: il bello e la bestia, ossia l’imbalsamatore nano in forza alla camorra e il bel ragazzo fatalone di cui il primo è innamorato; ossia, ancora, un gioco perverso di volontà incrociate e di sconfinamenti dall’equilibrio naturale. E’ la storia di Primo amore, durissimo vortice negativo di un’ossessione, che mette in campo volontà estreme: quella del protagonista innamorato delle anoressiche, e quella della donna disposta a sacrificarsi. In entrambi i film la storia acquista il suo senso nel momento in cui, alla fine, assistiamo impotenti alla rottura di un equilibrio che fin da subito sapevamo compromesso. E un vero fantasy è Reality (un fantasy-reality, insomma), vero preludio a Il racconto dei racconti (anche visivamente, nel sontuoso gusto tra barocco e pittoresco), con quel protagonista-Pinocchio, irretito dal Paese dei Balocchi del reality show, risucchiato dalla sua spasmodica tensione verso la sirena televisiva a perdere tutto, a cominciare dal lume della ragione. Tre film con altrettanti “mostri”, secondo una teratologia dell’animo umano, che nell’ultimo film diventa speculare: uno sguardo umanista con i mostri del fantasy scaturiti dall’invenzione del barocco Basile, e cioè la pulce gigante, l’orco cavernicolo, il drago marino…

Prima di Basile, Boccaccio. Prima di Garrone, Pasolini. Viene naturale pensare alle differenze profonde tra Il racconto dei racconti e il Decameron girato oltre 40 anni prima. Quando Pasolini decise di portare al cinema il novelliere di Boccaccio, l’operazione fu caratterizzata da un approccio concettualmente molto complesso. Si trattava di riportare (con un approccio intellettuale) a una visione “popolare” un’opera letteraria colta (intellettuale), che a sua volta mescolava aspetti popolari e tradizioni erudite. Per farlo, Pasolini ritaglia esclusivamente novelle che hanno come protagonisti gente del popolo e gente di chiesa, ignorando sovrani e nobili. E’ il contrario dell’operazione di Garrone, che invece concentra l’attenzione su tre novelle che hanno protagonisti dei re, perché la chiave che gli interessa non è il popolare, bensì il simbolico. Si pensi alla lingua. Quella di Pasolini è una scelta linguistica “incoerente” con Boccaccio, ma coerente con il discorso storico-politico messo sempre più a fuoco dalla metà degli anni ’60 da Pasolini, cioè l’omologazione borghese e la neutralizzazione delle differenze. Il trionfo dell’italiano unico e “artificiale” riflette il trionfo della società borghese e il “genocidio antropologico”, e quindi Pasolini gli contrappone in modo antropologico (quasi “demartiniano”) la ricchezza e molteplicità delle lingue e dei dialetti pre-industriali. Anche la scelta linguistica di Garrone è incoerente rispetto a Basile, arrivando a staccarsi non solo dal napoletano ma anche dall’italiano, e approdando infine all’inglese: certamente per ragioni prima di tutto produttive, ma che risultano in fin dei conti coerenti con la scelta di un genere legato agli sviluppi cinematografici di area inglese. Quello che è del tutto assente in Garrone è l’ulteriore sviluppo innescato da Pasolini, e cioè il discorso sullo sguardo. Pasolini pone il suo sguardo all’interno del film, diventando egli stesso interprete di un personaggio che a sua volta allude a lui: un pittore giottesco, che osserva la realtà e poi la rappresenta nei suoi affreschi. In altre parole, l’opera di Boccaccio non è altro che un pretesto (o, forse meglio, un dispositivo) che gli consente di affrontare e risolvere artisticamente la questione della rappresentazione della realtà, e quindi del “mandato” dell’artista e dello sguardo critico sul mondo. Decameron racconta l’atto del guardare da parte dell’artista, racchiuso nella fortissima immagine di Pasolini che con le dita di fronte al suo occhio osserva la realtà prima di dipingerla.

Fanny & Alexander Il flauto magico
“Il flauto magico”, regia di Luigi De Angelis (foto di Rocco Casaluci)

Il discorso su Pasolini mi serve per arrivare all’altra opera, Il flauto magico, proprio partendo dall’idea di raccontare l’atto del guardare, che sembra essere centrale nella regia di Luigi De Angelis e nella drammaturgia di Chiara Lagani (ossia, insieme, nel lavoro di Fanny & Alexander). L’opera, infatti, ha alcune parti in video, per le quali è richiesto allo spettatore l’uso di occhialini che mostrano le immagini in 3D. Dal punto di vista dell’efficacia e del senso complessivo, confesso di essere rimasto molto deluso da questa trovata: osservare il tutto senza occhialini non cambiava sostanzialmente nulla nella visione (se non un lievissimo brivido tridimensionale, assolutamente irrilevante rispetto al più elementare dei film 3D attualmente in circolazione), anzi faceva godere molto meglio della visione e della profondità naturale della scena con i cantanti e i figuranti. E allora, che senso avevano quegli scomodi occhialini che i soprattitoli sul boccascena indicavano quando mettere, causando negli spettatori una fastidiosa rottura della concentrazione e un “lavoro” metti-togli che, alla fine, distoglieva dall’opera per portare lo sguardo sulla marginalità – spesso poco significativa – dello schermo (per esempio in lunghe panoramiche su erba e felci, con l’occhio dello spettatore che andava a cercare la profondità di visione tra una foglia e l’altra anziché seguire l’azione, la musica, il canto)? Ecco, appunto: esattamente questo. Quegli occhialini erano il lavoro dello spettatore, erano la sottolineatura dello sguardo, un po’ come trovarsi Pasolini dentro il Decameron, imbacuccato in maniera improbabile, mentre si porta anacronisticamente le dita di fronte all’occhio come fa un regista cinematografico. La chimera del 3D, strombazzata dai media ed enfatizzata dalla preparazione, aveva al suo centro non realmente la visione tridimensionale (ripeto: davvero inconsistente), ma l’atto dello sguardo dello spettatore. Questione tutt’altro che marginale in questo allestimento, visto che nella lettura di Fanny & Alexander il tempio di Sarastro è il Teatro stesso, e visto che tutti gli spettatori sono chiamati (con l’accensione delle luci in sala, con sguardi e gesti, financo con il coro che agisce in platea) a una condivisione di responsabilità. L’assemblea dei sacerdoti che accolgono Tamino per condurlo alla luce non è altro che la platea degli spettatori: insomma, il teatro è un tempio, e i suoi officianti sono attori e spettatori in una comunità di spiriti nobili. E’ questo il punto nevralgico dell’allestimento di Fanny & Alexander, che non a caso segue molto da vicino, con continue citazioni di gesti, movimenti e oggetti (per esempio, i cartelli) un riferimento preciso come il film Il flauto magico di Ingmar Bergman, il quale aveva filmato l’opera come la realizzazione di una rappresentazione teatrale. Come Bergman, anche Fanny & Alexander fanno dell’opera di Mozart il pretesto per una riflessione sul teatro, anche citando doppiamente Bergman attraverso il suo film Fanny & Alexander (e qui andiamo in vertigine esponenziale tra film e nome degli autori), con i due ragazzini che giocano con il teatrino. E infatti, quel che vediamo sullo schermo sullo sfondo è soprattutto lo sguardo (ancora!) di Fanny e di Alexander verso un teatrino nel quale sono racchiusi i protagonisti del Flauto, e nel quale siamo racchiusi noi stessi.

Fanny & Alexander Il flauto magico 2
“Il flauto magico”, regia di Luigi De Angelis (foto di Rocco Casaluci)

E’ qui che si innesta il discorso parallelo a quello del film di Garrone. Non tanto per i mostri, che pure ci sono, e anzi sono più subdoli. Dopo quello che irrompe immediatamente all’inizio (qui raffigurato come un pupazzetto per bimbi) e viene subito ucciso, il libretto di Emanuel Schikaneder offre uno degli slittamenti più spettacolari del teatro lirico, passando da una prima parte in cui la Regina della Notte e le tre Dame sono il bene e Sarastro il male, a una seconda parte in cui le prime rivelano il loro animo mostruoso e il secondo si manifesta come portatore di bene. Il punto più interessante di confronto è, semmai, sul rapporto tra volontà ed equilibrio, qui portato decisamente sull’interiorità umana. Ancora una volta ci troviamo di fronte a una questione che riguarda l’importanza e la responsabilità della volontà, come è quella di Tamino nel raggiungere Pamina, che lo porta ad affrontare le prove imposte da Sarastro. E ancora una volta il punto vero non è l’approdo a un eccesso, ma il raggiungimento dell’equilibrio assoluto, che è quello propugnato dalla congrega del tempio di Sarastro: tempio filosofico, etico, massonico, che dir si voglia, ma con un’idea molto precisa di equilibrio interiore ed esteriore. Che, nell’allestimento di Fanny & Alexander, dialoga direttamente con il pubblico – come ho detto – e che si riflette nell’uso di una scenografia di geometrie sghembe (tra certo cinema espressionista e certa pittura suprematista), che si aprono e chiudono, seguendo variazioni morfologiche sul tema massonico del triangolo.

Da anni il pedagogista William Grandi ci spiega come il fantasy sia in qualche modo connesso con i periodi di crisi. A ondate, a partire dagli anni ’30 con il primo Tolkien, la letteratura fantasy si affaccia sugli scaffali in concomitanza con periodi di crisi mondiale. Credo che il concomitante esordio di Garrone e Fanny & Alexander nel fantasy (sia pure con tutte le infinite differenze del caso e delle storie artistiche) confermi questo assunto, ma in modo diverso. Perché il punto non è che lo spettatore si senta minacciato dall’esterno, come ricorda Grandi spiegando le connessioni tra fantasy e crisi. Il punto, qui, è che la minaccia arriva dall’interno, dal mostro che cova in ciascuno di noi, dall’incapacità di misurare la nostra volontà e il nostro comportamento di fronte a una società in cui i destini paiono segnati e avversi. Il punto è, nella crisi di valori e di confini della civiltà del XXI secolo, non sapere più quale e dove sia l’equilibrio. E avere la voglia di confrontarsi con questo dilemma, seguendo il funambolo del finale del film di Garrone, che ci ha aiutato a comprendere come non è l’eccesso a pagare, e seguendo la voce di Sarastro che ci ricorda che siamo tutti saggi in quel tempio comunitario che si chiama teatro, purché sappiamo ascoltare, vedere e dialogare.

Il racconto dei racconti – Tale of Tales, regia di Matteo Garrone; soggetto Giambattista Basile; sceneggiatura Matteo Garrone, Edoardo Albinati, Ugo Chiti, Massimo Gaudioso; fotografia Peter Suschitzky; montaggio Marco Spoletini; effetti speciali Andrea Eusebi, Elio Terribili, Andrea Giomaro; musiche Alexandre Desplat; scenografia Dimitri Capuani, Alessia Anfuso; costumi Massimo Cantini Parrini; trucco Diego Prestopino; con Salma Hayek, Vincent Cassel, Toby Jones, Shirley Henderson, Hayley Carmichael, Bebe Cave, Stacy Martin, Christian Lees, Jonah Lees, Guillame Delaunay, John C. Reilly; produzione     Rai Cinema, Archimede, Le Pacte, Recorded Picture Company; Italia, Regno Unito, Francia 2015.

Il flauto magico di Wolfgang Amadeus Mozart; direttore Michele Mariotti; regia Luigi De Angelis; scene e luci Luigi De Angelis e Nicola Fagnani; drammaturgia e costumi Chiara Lagani; aiuto regia Gianni Marras e Giorgina Pilozzi; assistente alla regia Greta Benini; assistente ai costumi Paola Crespi; video makers ZAPRUDERfilmmakersgroup; maestro del coro Andrea Faidutti; preparatore coro voci bianche Alhambra Superchi; orchestra, coro e tecnici del Teatro Comunale di Bologna; con Mika Kares, Paolo Fanale, Andrea Patucelli. Simone Casolari, Maria Vittoria Stiassi, Cristiano Olivieri, Carlo Alberto Brunelli, Christina Poulitsi, Maria Grazia Schiavo, Diletta Rizzo Marin, Diana Mian, Bettina Ranch, Marco Conti, Pietro Bolognini, Susanna Boninsegni, Anna Corvino, Nicola Ulivieri, Gianluca Floris, Luca Gallo, Tiziano Bellingeri, Matilde Brandimarti, Carlo Alberto Brunelli, Simone Casolari, Virginia Jaboli, Nina Manservisi, Luigi Meliconi, Anna Moruzzi, Ginevra Nicolosi, Francesca Pucci, Attilio Adriano Stiassi, Maria Vittoria Stiassi, Federico Vacirca, Francesca Vergata, Andrea Zunarelli; nuovo allestimento del Teatro Comunale di Bologna in collaborazione con Fanny & Alexander. Prima assoluta: Bologna, Teatro Comunale, 16 maggio 2015.

Visto a: Bologna, Teatro Comunale, 19 maggio 2015.

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