Le checche di Bologna che cambiarono la storia

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Valérie Taccarelli

C’è stata un’epoca in cui la politica è stata capace di cogliere i mutamenti e di assecondarli, un po’ per lungimiranza, un po’ per caso e un po’ perché la forza positiva di quei mutamenti si imponeva, semplicemente, di per sé: bastava ascoltare e capire. E’ forse la lezione più evidente che emerge dal documentario di Andrea Adriatico Torri, checche e tortellini, che comunque non vuole certo dare lezioni, ma imporre un esercizio di memoria su uno straordinario episodio di coraggio politico dell’amministrazione pubblica e di invenzione di una differente politica del movimento omosessuale, che aprì la strada alle moderne battaglie del movimento lgbt. Il film, presentato finora al Torino Gay&Lesbian Film Festival e al Biografilm Festival di Bologna, racconta, attraverso (tanti) testimoni e (pochi) documenti, tutti raccolti nella forma dichiarata di “appunti”, la nascita del Cassero, il primo spazio concesso da un’amministrazione pubblica (il Comune di Bologna) al movimento omosessuale, nel 1982.

 

Lo sguardo in soggettiva dei testimoni ci restituisce una grande lucidità di approccio e di obiettivi e, al tempo stesso, una levità sospesa tra ingenuità e improvvisazione. Da entrambe le parti: dalla parte di quel Collettivo Frocialista, composto da pochissimi militanti in un’epoca in cui le persone lgbt dichiarate erano davvero poche (e ancor meno quelle che, dopo aver scelto di dichiararsi, decidevano di fare il passaggio successivo, e cioè diventare attivisti politici), e dalla parte degli amministratori del Comune di Bologna, tanto disponibili quanto impreparati a comprendere tutte le conseguenze di quel gesto. C’è da dire che questa combinazione di lucidità e ingenuità aveva le sue ragioni, basate sull’urgenza delle nuove istanze espresse dalla società civile e arrivate in coda a un periodo di rivendicazioni di diritti civili (dai neri d’America alle donne, tanto per ricordare gli impulsi più potenti in questa direzione) e di “liberazione” che dagli anni ’50/60 aveva attraversato la società occidentale. E’ solo nel 1969 che prende, infatti, le mosse quello che si può realmente definire un movimento omosessuale moderno, cioè non basato più sull’auto-giustificazione e sulla richiesta di tolleranza e accettazione, espressa dalle precedenti fasi storiche del movimento, ma sull’affermazione e la rivendicazione di diritti tra categorie paritarie dell’umanità. Dunque, il movimento omosessuale italiano, nato pochi anni dopo quello americano, si trovò di fronte certamente all’esperienza di altri movimenti per i diritti, ma anche di fronte a un evidente pionierismo nel campo specifico del proprio tema, e soprattutto di fronte a un muro accerchiante di ostilità o pregiudizio, che coinvolgeva la società, la cultura, la scienza, la comunicazione, la politica… non c’era fronte in quei primi anni ’70 in cui non ci fosse da combattere per ridefinire i termini del discorso e avanzare rivendicazioni nell’obiettivo dell’uguaglianza. Non voglio certo affrontare un excursus sulla storia e sulla memoria del movimento omosessuale di quegli anni, peraltro già affrontata altrove, per esempio da Gianni Rossi Barilli, ma la condizione delle persone lgbt oggi e la definizione degli obiettivi dell’attuale movimento rischia di non far comprendere come fino a pochi anni fa le coordinate non solo della società ma anche dello stesso movimento fossero radicalmente diverse. Dunque, all’entusiasmo pionieristico del movimento degli anni ’70 e all’ostracismo totale della società verso l’omosessualità (figuriamoci verso la transessualità) che richiedeva un impegno dell’attivismo su tutti i fronti, corrispondeva una buona dose di slancio e di improvvisazione sugli strumenti da usare e sulla tattica da seguire, dal più consolidato e determinato “Fuori!” (prima espressione del movimento italiano) al fiorire dei vari collettivi autonomi, tanto estrosi quanto (spesso) confusi.

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Eva Robin’s

In questo senso, è ancora l’esempio del movimento femminista o di quello studentesco a dettare la linea, anche se il movimento omosessuale seppe far scaturire almeno due linee specifiche di un certo interesse. La prima fu l’uso autoironico e politico dei segni dello stigma (insulti come “frocio” diventati parole ‘virtuose’, per esempio) e degli slittamenti e confusioni dell’identità sessuale, che portarono molti a perseguire una lotta politica attraverso il travestimento e il gioco transgender, in una prefigurazione del modello queer che sarebbe emerso come categoria (con tutte le ambiguità del caso) solo recentemente. La seconda fu l’elaborazione di un pensiero teorico originale, che ebbe una breve e folgorante stagione attorno al testo fondamentale di Mario Mieli Elementi di cririca omosessuale (1977), e che trasferiva la riflessione dal mero movimentismo storico alla necessità di una profonda e radicale trasformazione dell’uomo verso una condizione di liberazione dell’identità che avrebbe dovuto superare ogni categoria sessuale: e dunque, un movimento non più pensato come rivendicativo di una categoria (come erano gli altri movimenti fondati sui diritti), ma come grimaldello rivoluzionario di trasformazione universale (come erano invece i movimenti più squisitamente indirizzati all’utopia politica). Queste due linee del movimento omosessuale di quegli anni si sono così non solo intrecciate, sovrapposte, alimentate con le strutture rivendicative per la dignità della persona omosessuale, ma si sono anche ulteriormente combinate con la grande stagione italiana post-Sessantotto, libertaria, colorata e trasgressiva. Alla confluenza di tutto ciò stavano un’idea e un obiettivo che ignoravano l’integrazione e abbracciavano semmai l’insurrezione.

Ecco perché la storia raccontata in questo film in forma di piccoli “appunti” è così importante: perché si tratta di un episodio centrale e decisivo, un vero punto di svolta epocale nel movimento italiano, omosessuale prima e lgbt poi. Perché la nascita del Cassero avvenne sull’onda di quel pensiero fantasioso, alternativo, volontaristico e talvolta pasticcione degli anni ’70, ma conteneva già il senso e l’oggetto di quel che solo negli ultimi anni si è sempre più chiarito: il ritorno dall’insurrezione all’integrazione, sia come idea che come obiettivo. (Voglio chiarire che non sto dando giudizi: sarebbe lungo e interessante riflettere se sia più rivoluzionario un moto alternativo al sistema o un moto che entra nel sistema portando le differenze. Ma questo meriterebbe ben altro spazio e ben altro livello del discorso). Probabilmente non è un caso se Adriatico decide di ignorare completamente, nella sua ricostruzione, i precedenti del movimento omosessuale, e di evitare anche un taglio “movimentista” del suo discorso, andando piuttosto a ricordare le premesse del movimento post-Sessantotto, che poi a Bologna diventano inevitabilmente il ricordo di un Settantasette bagnato di sangue. Perché il punto centrale del film è proprio snidare il rapporto tra integrazione e insurrezione, che nella “presa del Cassero” dell’82 ebbe il suo momento fatidico ed emblematico. E che investe direttamente la politica e il concetto di amministrazione pubblica. Perché, poi, il titolo Torri, checche e tortellini, nella sua divertente ironia rispetto allo slogan delle famose cartoline goliardiche di Bologna (“torri, tette e tortellini”), sembra definire perfettamente la chiave logica del discorso: questo è un film che riguarda, nella sua esemplarità che va ben oltre una logica localistica, proprio la città di Bologna (torri e tortellini) e la sua sfida di inclusione delle “checche” nel proprio tessuto connettivo e nella propria riconoscibilità.

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Sandra Soster

Le testimonianze di due politici in prima linea di allora, che facevano parte del Partito Comunista al governo nella città e che avevano responsabilità di amministratori, sono illuminanti per comprendere come sia potuto accadere l’impensabile, e cioè come un’amministrazione pubblica abbia potuto concedere propri spazi – peraltro un prestigioso monumento storico – a un circolo omosessuale, e quindi come abbia accettato di affiancarsi al movimento, di esserne non solo controparte, ma in qualche modo corresponsabile. Il Partito Comunista di allora era stretto in una morsa di contraddizioni, soprattutto nel micorocosmo cittadino emiliano, di partito di lotta e di potere – per così dire –, oltretutto attento ideologicamente alla risoluzione delle ineguaglianze economiche, ma tradizionalmente restio ad affrontare la questione (considerata “borghese”) dei diritti individuali, che però premevano e dovevano in qualche modo essere inglobati per non essere lasciati in mano, come oggetto politico, a una parte dell’estrema sinistra, al Partito Radicale o ad altri ambiti politici centristi. Ecco come, nella stagione di apertura di alcuni dirigenti comunisti e di quella città verso le nuove istanze dei vari movimenti post-Sessantotto e dei diritti civili, capitò anche il movimento omosessuale. Dalle due diverse posizioni degli attivisti e dei politici, portate avanti – come dicevo all’inizio – con determinazione ma anche con ingenuità, si concretizzò così il primo passo del movimento moderno. Quello che si relaziona direttamente con il potere, non più per sovvertirlo, ma per esigere. Mettendo in campo, sull’altro piatto della bilancia, una capacità di presenza culturale e di presidio sociale, competente nel colmare vuoti e nel far avanzare socialmente e culturalmente la città. E’ esattamente il primo passo del movimento attuale, quello che – superate le battaglie per trasformare tutti in transessuali (come diceva Mieli, intendendo per “transessuale” l’individuo che deve aprire la propria sessualità verso ogni orientamento e pratica) o per prefigurare modelli completamente alternativi alla famiglia e al sistema – arriva oggi addirittura a concepire la più potente campagna di rilancio e consolidamento del concetto di famiglia, checché ne dicano le gerarchie ecclesiastiche e le destre, attraverso la richiesta di uguaglianza di diritti per le coppie lgbt.

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Luciano Pignotti

La nascita del Cassero ha dunque questo immenso valore storico e simbolico. Un esiguo gruppo di froci, anzi frocie al femminile, trova nella richiesta ufficiale di concessione di uno spazio pubblico al Comune un obiettivo che, se in prima battuta sembra configurarsi come la semplice risposta a un’esigenza pratica, ben presto dimostra di essere il nuovo modello delle lotte del movimento lgbt: ma già Samuel Pinto, leader del Collettivo Frocialista e grande fautore del Cassero, aveva perfettamente intuito fin dall’inizio il valore profondamente innovativo della creazione di un centro di politica, cultura e socializzazione gay avendo come interlocutore e complice l’Amministrazione Pubblica. Un nuovo modello di lotta lgbt, anche a dispetto degli ostacoli. Il primo ostacolo, fondamentale, fu quello della Chiesa e delle destre, e forse fu ciò che involontariamente consolidò maggiormente la volontà di attivisti e amministratori nell’assegnazione del Cassero. Infatti, si scoprì dopo l’assegnazione (ma prima della consegna) che Porta Saragozza, lo spazio deciso per ospitare il circolo gay, era “sacra” alla Madonna di San Luca, e che quindi la presenza di un circolo gay avrebbe costituito un oltraggio ai credenti. Ne scaturì un lungo dibattito, in sostanza, sulla dignità e l’uguaglianza delle persone. Al di là dello scontro con la Chiesa, che il Comune dovette fronteggiare non volendo rimangiarsi la parola data (ma soffrendo molto: emerge con evidenza che se gli amministratori si fossero accorti prima della “sacralità” dello spazio non lo avrebbero concesso, secondo una ben nota logica politica autocensoria, e questa è una riprova dell’ingenuità anche da parte loro), quello scontro che trascinò a lungo le posizioni riuscì a inchiodare il discorso al cuore del problema: gli omosessuali sono esseri umani come gli altri e hanno gli stessi diritti degli altri, sì o no? Domanda semplice, della cui risposta si fece carico con responsabilità, rompendo gli indugi della melina politichese e politicante, e a dispetto di molte resistenze e paure, il segretario del Partito Comunista cittadino, Renzo Imbeni. Che dimostrò una cosa semplice, ben evidenziata nelle interviste: che la politica deve sapersi fare, talvolta, interprete non della “opinione pubblica” o della maggioranza, ma deve anche saper prendere con coraggio decisioni che esulano dai sondaggi perché individuano nuove conquiste per nuovi orizzonti. Se il Partito Comunista, come viene ricordato, considerava Bologna come città laboratorio, acquisendo nuovi àmbiti d’intervento, non si poteva procedere con i soliti tatticismi, ma occorreva accettare modalità e conseguenze di una sperimentazione i cui contorni e i cui esiti erano sconosciuti a tutti. Da questo punto di vista, è chiaro che questo film, attraverso l’esempio del Cassero di Porta Saragozza, si pone come materiale di riflessione per chi è interessato oggi a quella “buona politica” che sembra, ahimè, fin troppo lontana da discorsi e azioni.

Il secondo ostacolo, invece, fu l’avvento dell’Aids, ma fa bene Adriatico ad accennarlo soltanto, e non solo per aver già dedicato un ampio sguardo sulle implicazioni sociali dell’Aids nella società italiana nel suo precedente film +o- il sesso confuso. racconti di mondi nell’era aids (diretto con Giulio Maria Corbelli), ma perché l’epifania di questa tragedia sanitaria, che immediatamente si presentò nei termini di una catastrofe culturale, rischiando di annichilire ogni conquista libertaria del decennio precedente, fu devastante non solo per il Cassero ma per l’intero movimento lgbt, e la piccola-grande battaglia che anche il Cassero fece per evitare di essere spazzato via fa parte della storia più ampia del movimento lgbt internazionale.

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Alessandro Fullin

Il film, ovviamente, non è tutto qui e non è solo questo. La storia di un evento è sempre anche storia umana, che è quella che spesso si fa strada nei ricordi dei testimoni intervistati. D’altra parte, il senso politico ed esemplare del Cassero non è soltanto nella sua assegnazione e consegna. Così come parte dal Settantasette bolognese e dalla rievocazione di Mieli per arrivare al nodo centrale della “presa del Cassero” del 1982, Adriatico prosegue senza fermarsi a quel momento fatidico, ma allungando lo sguardo sui primi anni di vita di questa nuova struttura, andando a coglierne alcuni aspetti-chiave (la cultura, l’impegno contro l’Aids, i fasti del gruppo teatrale K.G.B. & B., e perfino l’impegno contro il racket che strozzava le travestite che decidevano di prostituirsi). Emergono, così, non solo molti ricordi e molti fatti e riflessioni importanti, ma soprattutto la temperatura e la fisionomia di un movimento che, ancora sull’onda lunga dell’impegno degli anni ’70, reinventava un modo diverso di essere presente: più o meno consapevole della grande svolta di cui ho parlato, sicuramente consapevole dell’esistenza di nuove sfide e della necessità di nuovi strumenti di lotta e di nuovi obiettivi, ma ancora profondamente intriso di una qualità associativa (e quindi di relazioni e di atteggiamento), che negli anni si è persa, e che un testimone ricorda sinteticamente così: “Eravamo una grande famiglia”.

 

 

Torri, checche e tortellini. Appunti per una storia senza storia dell’omosessualità del ’900. 1. Il Cassero di Porta Saragozza, regia di Andrea Adriatico; sguardi e racconti di Marco Barbieri, Vincenzo Branà, Stefano Casi, Vincenzo Corigliano, Domenico Del Prete, Alessandro Fullin, Franco Grillini, Rinaldo Luchini, Luciano Pignotti, Beppe Ramina, Diego Scudiero, Sandra Soster, Valérie Taccarelli, Elvira Tonelli, Walter Vitali; documenti di Mario Mieli ravvivati da Eva Robin’s e di Roberto Roversi riletti da Marcello Fois; voce narrante Saverio Peschechera; produzione Cinemare; Italia, 2015.

 

 

 

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