Il selfie di Roma, città dell’apocalisse

"Ritratto di una capitale: Odioroma".
“Ritratto di una capitale: Odioroma”.

All’uscita dal Teatro Argentina si ha l’impressione che lo spettacolo non sia finito. Il Ritratto di una capitale concepito da Antonio Calbi e Fabrizio Arcuri, che ne è anche regista, sembra proseguire nelle strade teatrali di una città che ha avuto il coraggio di rappresentarsi su un palcoscenico in tutta la sua sfolgorante mediocrità. Un selfie malinconico e vivido al tempo stesso. Che si propaga tutt’attorno nel labirinto imperial-barocco delle vicinanze del Teatro Argentina, per ramificarsi poi nelle periferie fino al Sacro GRA e oltre, dove l’antropologia romana si frammenta nei micro-universi bamboccianti che Gianfranco Rosi ha raccontato due anni fa. Eppure c’è qualcosa che non torna. La Cappella Sistina teatrale degli anni 10 del XXI secolo, costruita in modo eccellente da Arcuri, dove vele e lunette drammaturgiche ricompongono un’unità metropolitana vibrante e illuminante, mostra una violenta separazione dal suo titolo. Ed è questo l’aspetto più inquietante: è questa la capitale? è questa una capitale?

E ancora… Cosa ha portato questa disgraziata città di nomadi solitudini, di beceri razzismi, di cialtronaggine a buon mercato, di quotidiana mortifera apocalisse a diventare capitale? Oppure: cosa ha portato la capitale d’Italia a ridursi così? E ancora… il “ritratto di una capitale” come Parigi o Atene o Mosca avrebbe avuto lo stesso timbro, lo stesso sentimento? Perché quello che emerge in modo sconvolgente da quest’opera è proprio l’assenza del sentimento della “capitale” dichiarato nel titolo. Il fatto è che Roma non si fa l’autoritratto nobile che una capitale sarebbe portata a farsi, ma il selfie de noantri che potrebbe farsi qualsiasi città o villaggio. Con la grandezza potente e malinconica, autoironica e autodistruttiva, intensa e profonda che solo Roma nel mondo può permettersi. Ma anche con la percezione di una separazione da quella grandezza, di una divaricazione tra l’essere Roma capitale e il sentirsi in una pozza dal corto respiro.

Dell’intero progetto presentato nell’autunno 2014 (“Ventiquattro scene di una giornata a Roma. 26 autori, 44 attori per uno spettacolo-maratona che racconta la città”) sono state selezionate 6 scene per ricomporre una panoramica più stretta e compatta, che è quella che ho potuto vedere. Non so cosa raccontassero le 18 scene tralasciate, ma queste 6 sembrano racchiudere l’universo-Roma nei confini stretti di una città senza visione e senza futuro. Si inizia con l’intimissimo Odioroma di Mariolina Venezia, che sovrappone la topografia reale della città alla topografia psicologica e sentimentale di una donna (Anna Bonaiuto) che vive un profondo disagio di non appartenenza, e che – dialogando con il suo psicanalista (Roberto De Francesco) – sprofonda il proprio smarrimento nel febbrile e malsano rincorrersi di vicoli, fornici e cripte, in un delirio onirico-sessuale rifiutato dalla razionalità di donna settentrionale trapiantata al centro di un labirinto di rovine avvolgente e ormai irrinunciabile.

"Ritratto di una capitale: L'Arcispedale quando si fa l'alba".
“Ritratto di una capitale: L’Arcispedale quando si fa l’alba”.

In L’Arcispedale quando si fa l’alba Valerio Magrelli pone in rotta di collisione un’anziana signora (Milena Vukotic) e un giovane tossico (Lorenzo Lavia) nel non-luogo di una sala d’attesa (quella dell’Ospedale di Santo Spirito), dove si scontrano nella sostanziale incomunicabilità non tanto due diverse generazioni o modi di vivere, quanto due dimensioni temporali che sono le due identità della città: la storia e la cronaca. Sono due identità sovrapposte nello stesso spazio: gloria e dannazione della città eterna in cui un monumento secolare può rappresentare oggi solo un luogo di distribuzione di metadone. Roma si presenta così come spazio ambiguo, fatto di sovrapposizioni incongrue, la cui millenaria vita anfibia vede la coesistenza di “certi ruderi antichi di cui nessuno capisce più stile e storia, e certe orrende costruzioni moderne che invece tutti capiscono”, come Pasolini faceva dire a Orson Welles nella Ricotta 50 anni fa.

"Ritratto di una capitale: Flaminia bloccata".
“Ritratto di una capitale: Flaminia bloccata”.

Il terzo episodio spezza con il sanguigno humor romano l’atmosfera desolata dei primi due pezzi, e insieme ci porta direttamente in una modernità svincolata dalla memoria, mostrando in modo ancor più tagliente quella divaricazione di Roma da sé. Nel brillante titolo Flaminia bloccata Fausto Paravidino non fa riferimento al classico problema del traffico su una delle arterie consolari cittadine (la Flaminia, appunto), ma al destino di una ragazza di nome Flaminia (Lucia Mascino) incastrata in una macchina incidentata. Praticamente una farsa in una tragedia. Che è poi la farsa tragica di Roma stessa, incidentata, incastrata, attorniata da due tizi (Pieraldo Girotto e Filippo Nigro) incapaci di soccorrerla al di là della volontà, ontologicamente inetti al di là della rappresentazione che offrono di sé. La caciara rumoristica delle spranghe che allegramente sbattono sul cofano e la portiera, fatta da Flaminia/Roma bloccata e dal suo accompagnatore cialtrone (o meglio, da colui che dovrebbe guidarla), così, per passare il tempo e far finta di far qualcosa, ha il sapore antropologico di una tribalità postmoderna nella quale ci si appaga in una condizione di stallo pericolante aspettando gli eventi: Flaminia è bloccata? abbiamo fatto il possibile, tanto vale far caciara…

"Ritratto di una capitale: Roma Est".
“Ritratto di una capitale: Roma Est”.

La cronaca allegorica di Flaminia slitta nella cronaca reale di Anagnina, la stazione dove nel 2010 un ragazzo uccise con un pugno una donna romena per una banale lite. Con Roma Est di Roberto Scarpetti siamo alla rievocazione puntuale e stringente di quel ‘piccolo’ misfatto, che si allarga impetuosamente a sintomo di una civiltà malata: quella che può strappare una persona dal proprio ambiente per scaraventarla in un altrove dove riscattarsi da una vita di stenti, e quella incapace di trasmettere i valori minimi della convivenza. La struttura drammaturgica a squarci alterna lo struggente lirismo classificatorio delle cose importanti, racchiuse nel cuore dell’immigrata (Lucia Mascino), all’impressionante analfabetismo culturale sentimentale morale e linguistico del ragazzotto assassino (Josafat Vagni), nonché alle veloci istantanee realistiche che sono quelle che furono rimandate a suo tempo dalle telecamere di sicurezza. Ancora una volta una incomunicabilità sostanziale, che non riguarda in questo caso il rapporto con la storia del passato, ma con la storia presente, rivelando l’inadeguatezza di una città dove la convivenza è stridente sovrapposizione e non amalgama.

"Ritratto di una capitale: Angeli Cacacazzi".
“Ritratto di una capitale: Angeli Cacacazzi”.

Il primo e il secondo episodio sono racchiusi da Arcuri in scatole allusivamente realistiche, come fossero i riquadri di un affresco murale come ce ne sono a decine nella città del Rinascimento. Il terzo episodio comprime concettualmente il riquadro nella scatola rappresentata dall’automobile. Poi, di nuovo, il quarto episodio sviluppa la narrazione in scatole che rimbalzano negli schermi-riquadri sovrastanti che mostrano immagini di metropolitana. Al di sopra e tutt’attorno, secondo una concezione barocca, immagini proiettate che incombono e avvolgono. E’ la nuova Cappella Sistina – teatrale – in cui potersi rispecchiare. Doverosamente, non possono mancare gli angeli: Angeli Cacacazzi come quelli rievocati da Elena Stancanelli, e che ‘sfondano’ quel riquadro: sopra, accanto, attorno, e infine sotto, sprofondando nella botola verso gli abissi della città, diventando essi stessi sedimenti archeologici di una città che non espelle ma risucchia, mastica, macera e trasforma in reperto. I ‘reperti’ sono l’attore e poeta Victor Cavallo (Sandro Lombardi) e il ballerino Gene Anthony Ray (Roberto Latini), figure vere – qui ricreate –, lontanamente beckettiane e intrinsecamente dantesche, che declinano l’essenza romana secondo il paradigma dell’arte maledetta o – per dirla altrimenti – quello di un naufragio sociale che annienta l’umanità o – per dirla ancora in altro modo – quello della ricchezza nascosta negli anfratti invisibili di una città fatta di “ruderi antichi” e “orrende costruzioni moderne”: perché è proprio lì in mezzo che pulsano i valori antimoderni che spostano l’indice della “capitale” verso gli spazi visibili/invisibili dei reietti e degli esclusi. Che sono sempre e comunque poeti e artisti.

"Ritratto di una capitale: Alla città morta".
“Ritratto di una capitale: Alla città morta”.

E’ così che il Ritratto-selfie “sistino” si avvia verso l’Apocalisse: scompaiono scatole e riquadri, lo spazio si svuota nell’indefinito, mentre dallo schermo in alto incombe un Giudizio Universale che è composto esclusivamente da edifici in demolizione. Alla città morta. Prima epistola ai Romani di Daniele Timpano e Elvira Frosini chiude perfettamente il discorso: alle quattro micronarrazioni e all’antinarrazione ‘angelica’ succede ora la rassegnata invettiva che i due autori stessi lanciano dal fondo del palco all’Urbe saccheggiata e sedimentata, frutto di concrezioni e stratificazioni di macerie sulle quali forse nessuno più sta davvero camminando. Sono anche loro reperti pseudo-archeologici, rigidi in un’immobilità statuario-cadaverica, da cui sono in grado di osservare il nulla di una metropoli postuma: due zombi contagiati dall’inanità romana, anch’essi un po’ faciloni e ignavi di fronte all’Italia che riparte e a Roma che, se riparte, dove potrà mai andare visto che è ormai “città morta”, dannunzianamente adatta alla retorica, ma non alla storia a cui si è sottratta da tempo?

Si consuma così, sulle ultime immagini neroniane di innumerevoli mappe moderne di Roma che prendono fuoco, un ritratto amaro dominato da un cupo senso di morte che attraversa in crescendo tutti gli episodi: dalla topografia di una città che non c’è più per sancire la fine di una qualsiasi vitalità (fosse pure disperata) all’androne di un ospedale, dall’incidente automobilistico all’assassinio razzista, dalle figure pseudo-angeliche che dicono “come starei bene a vive se fossi morto” fino all’epistola alla “città morta”. E allora, ancora: è questa la capitale? E allora, soprattutto: cosa fare e come per cambiarne il ritratto, per mutarne la desolazione?

(Come sempre, come in ogni ritratto o affresco, nascosto nelle pieghe delle forme e dei colori, si intravede qualcosa che racconta altro. Piccoli segni sparsi. Da cui, forse, ripartire. Da cui, forse, provare a ricostruire un’altra narrazione, un altro ritratto, questa volta nobile, da capitale. Piccoli segni che si insinuano come un paradosso: l’anziana signora che non si arrende di fronte all’incomunicabilità e cerca di gettare ponti, certo a modo suo, ma pur sempre ponti; l’immigrata romena che enumera i punti di forza della sua nostalgia e della sua carica positiva, reclamando una presenza attiva; due dropout sospesi nel tempo, che trasformano la rassegnazione per la loro condizione in forza propulsiva. Eccolo, allora, il ritratto di Roma come vera Capitale nobile e positiva: un’anziana, un’immigrata, due artisti barboni. E non è affatto beffardo.)

 

 

Ritratto di una capitale. Sei scene di una giornata a Roma, un progetto di Antonio Calbi e Fabrizio Arcuri; regia Fabrizio Arcuri; colonna sonora composta da Mokadelic; set virtuale Luca Brinchi, Roberta Zanardo/Santasangre e Daniele Spanò; una produzione Teatro di Roma. Odioroma, di Mariolina Venezia, con Anna Bonaiuto e Roberto De Francesco; L’Arcispedale quando si fa l’alba, di Valerio Magrelli, con Milena Vukotic e Lorenzo Lavia; Flaminia bloccata, di Fausto Paravidino, con Pieraldo Girotto, Lucia Mascino, Filippo Nigro; Roma Est, di Roberto Scarpetti, con Lucia Mascino, Fabrizio Parenti, Josafat Vagni; Angeli Cacacazzi ovvero Ah, come starei bene a vive se fossi morto, di Elena Stancanelli, con Sandro Lombardi e Roberto Latini; Alla città morta. Prima epistola ai Romani, di e con Daniele Timpano e Elvira Frosini. Prima assoluta: Roma, Teatro Argentina, 22 dicembre 2015 (da Ritratto di una capitale. Ventiquattro scene di una giornata a Roma; Roma, Teatro Argentina, 18 novembre 2014).

 

Visto a: Roma, Teatro Argentina, 30 dicembre 2015.

 

 

2 commenti

  1. A me è sembrata un’iniziativa sperimentale, interesante, con qualche calo di tono (il testo di Mariolina Venezia sta in piedi solo grazie ad Anna Bonaiuto, e l’Arcispedale di Magrelli è, a mio avviso, di una pochezza sconfortante ed affidato ad un Lorenzo Lavia fuori fuoco). Più centrato, ma “facile”, il Roma Est di Scarpetti, molto ben recitato da Josafat Vagni e Lucia Mascino. Divertissement di Paravidino a parte, le vette, drammaturgiche e di stile, si toccano con gli Angeli cacacazzi e, soprattutto, con l’Epistola di Timpano/Frosini. Roma è lì, la possiamo toccare….

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