Il presepe di piazza Tahrir si è evoluto nell’Ultima cena del Cairo. Così finiscono le favole: qualcuna poi evolve fino alla resurrezione, ma se l’Ultima cena non ha nulla di tragico e tutto di farsescamente insignificante, allora dopo non può che arrivare il profondo nulla. Nel quale siamo già immersi. The Last Supper di Ahmed El Attar è la pacata apocalisse dei nostri tempi moderni, il vetrino laccato di una peste diventata endemica, il segno di una lacerazione profonda nell’umanità su cui è stato sinistramente ricamato un cerotto fatto di vacui arabeschi.
Sulla scena, attorno alla fatidica tavola di questa ultima cena, si affollano personaggi usciti da un ricercato campionario. La folla che riesce a essere al tempo stesso una massa e un insieme di individualità. Come nei “presepi” di Hany Rashed e Moataz Nasr, visti alla mostra Too early, too late (di cui ho parlato a suo tempo in questo blog). La piazza Tahrir di Rashed si presentava con l’ampia e certosina meticolosità di un vero e proprio presepe napoletano, dove figurine di manifestanti e carri armati si distribuivano nello spazio secondo una logica di distribuzione di corpi e oggetti vividamente capace di restituire la drammaticità e la cronaca di quell’evento storico che esattamente 5 anni fa ha cambiato la storia del paese. La Primavera araba declinata all’egiziana, vista dagli occhi di un artista come Rashed, diventava un brulicante dispiegarsi di formine/formiche, che l’allestimento bolognese poneva sotto l’austero e straniante sguardo di secolari frammenti di affreschi. La profonda tensione dell’evento riviveva come in certi plastici militari nei musei di storia, dove l’orrore man mano si dissolve nella curiosità, finendo per anestetizzare il giudizio etico o politico a favore di un giudizio estetico o modellistico. Un presepe, insomma. Così l’opera di Nasr, che smembra la prossemica del presepe (e il senso della ricostruzione urbana) in una semplice teoria di statuette: personaggi testimoni di un evento, che si osservano e ci osservano in una sorta di sfilata muta e immota, come soprammobili di porcellana su uno scaffale. E che osservano, in effetti, un evento drammatico: il pestaggio di un manifestante da parte della polizia, un po’ più in là, in un gruppo micro-scultoreo di ulteriori statuette, piccolo nucleo teatrale, come una porcellana di Capodimonte o, ancora una volta, come un presepe. Quando i personaggi di The Last Supper sono entrati in scena, mi è sembrato come se quelle statuette avessero preso vita, come se dal Cairo tornassero ancora i testimoni – o forse i protagonisti – di quella primavera araba raccontata da Rashed e Nasr. La stessa brulicante vivacità, la stessa sensazione di essere massa e insieme di individualità: eccoli entrare e abitare lo spazio in piccoli quadretti, poi disporsi in fila, al di là del tavolo, esposti al nostro sguardo come fossero usciti da un catalogo di fenomenologia egiziana. Ma mi sbagliavo. Se nel 2011 il presepe aveva senso come annuncio di una nascita (di una primavera), oggi siamo arrivati a un’altra stagione, a un traguardo che non avremmo voluto: l’ultima cena. E quei personaggi che si riuniscono attorno al tavolo non hanno gli occhi della speranza e dignità che avevano le statuette di Nasr, ma le parole e i gesti del conformismo, della prevaricazione, dell’utilitarismo.
Ahmed El Attar ci fa assistere alla cena di una ricca famiglia borghese della capitale egiziana. C’è il padre, che all’arrivo col figlio prediletto fa una rapida preghiera e poi parla per tutto il tempo esclusivamente di denaro; c’è il figlio prediletto, vacuo e ciarliero, invadente e inconcludente, la cui unica azione significativa sarà un selfie di gruppo; c’è sua moglie, stupidina e vanesia, impegnata a truccarsi; c’è l’altro figlio, che chiamano artista ma che più semplicemente è un viziato disadattato che pensa solo a sottomettere gli altri; c’è sua moglie, velata, pettegola e superficiale, che chatta sull’iPad; ci sono i suoi figli, un bambino dispettoso e una bambina inesistente (a cui si aggiunge un neonato parcheggiato in un angolo). Una famiglia perfetta nel suo essere fotografia di una ricca borghesia egoista e cialtrona, a cui si aggiunge l’ospite d’onore, un vecchio gretto generale per il quale il mondo esterno è solo una massa di parassiti. E poi ci sono i servitori, avvolti in un silenzio assordante, umiliati e derisi: i due maggiordomi e la baby sitter. Servi e padroni separati – come nell’analisi di Barthes sull’opera di Sade – dall’uso della parola, che distingue vittime e carnefici, ripresa poi da Pasolini. La tavolata di El Attar si avvicina così pericolosamente alla tavolata di Salò o le centoventi giornate di Sodoma: la ricca borghesia del Cairo esercita il potere del carnefice attraverso l’esercizio di una parola pornografica su vittime defraudate della loro capacità di esprimersi e perfino intercambiabili in quanto pura funzione corporea, come dimostra il licenziamento gratuito e autoritario del maggiordomo e quello imminente della baby sitter. Parole pornografiche perché distaccate dalla realtà a cui sembrano riferirsi: puro esercizio masturbatorio e autoreferenziale, pura esibizione di teatro della chiacchiera (ancora Pasolini, che stavolta riprende Moravia).
In quella chiacchiera, in quella pornografia, può riconoscersi la borghesia egiziana del dopo-primavera, anzi dell’autunno arabo che soffia su piazza Tahrir e sulle piazze di Aleppo o Tunisi. Non è necessario essere ricchi per vedersi rispecchiati. E forse neanche arabi. L’ultima cena di El Attar, simpaticamente seducente come una classica soap opera egiziana e amaramente spietata come un affresco filmico di Robert Altman, è il tramonto della civiltà del dialogo e della conversazione. Oggetto delle chiacchiere attorno al tavolo? Si va da Instagram e social forum ai soliti stereotipi maschilisti sulle donne (a cui piacerebbe essere prese con la violenza) e sui motori, per rotolare verso la xenofobia e il razzismo: l’ampia gamma degli argomenti e dei pregiudizi da tavolata media della maggioranza silenziosa si squaderna lasciandoci attoniti per l’incalzante sequela di orrori da leghisti del Nilo. E alla fine non siamo più in una sala da pranzo orientale, dove gli arredi sontuosi si sposano con i profumi dell’iftar in una dimensione di centralità dell’umanità e della condivisione: la sala non è altro che un freddo laboratorio, con le pareti di lamine d’acciaio e tavolo e sedie trasparenti, praticamente una finzione, concettualmente un ologramma, cioè una sottrazione di realtà nell’illusione della permanenza della realtà stessa. E a questo punto sorge un dubbio.
Sì, i personaggi sono in carne e ossa, tutto sembra rimandare a una cena, dal titolo all’impostazione leonardesca della tavolata con i commensali disposti frontalmente, e tutto sembra rimandare a una tranche de vie, con i dialoghi che, come avviene nella realtà, si sovrappongono (resi qui, ancora pensando ad Altman, secondo un magistrale senso ritmico-musicale della recitazione). Tutto sembra così vero. Eppure. Eppure la poltrona centrale della tavolata rimane vuota, là dove nel Cenacolo leonardesco starebbe Gesù prima di essere tradito e poi crocifisso e là dove nella storia dovrebbe sedersi la madre, tanto a lungo evocata e attesa, e destinata a non farsi vedere. La madre è il Godot di questa ultima cena. Ancora da venire, come fosse la vera rivoluzione futura che rifonderà un Egitto finalmente democratico e libero, oppure assente e nascosta come la vecchia rivoluzione tradita, il fantasma di piazza Tahrir, che si sottrae alla volgarità di una borghesia senza scrupoli e senza etica. E’ una cena di assenze. La madre, che entrando si porrebbe al centro, dunque certificando il suo peso e il suo senso di equilibrio quasi matriarcale, non c’è: il ‘potere’ (della parola, qui, sulla scena, e del denaro, fuori, nella realtà) è dei maschi, il padre che ha una valutazione economica per ogni cosa, il figlio affarista, il figlio violento, il generale che sputa veleno sui parassiti e poi rimane impassibile di fronte ai maneggi per far entrare clandestinamente donne indonesiane da far lavorare a pochi centesimi…
Non solo la madre è assente. E’ una cena in cui assente è anche il cibo. Una cena astratta, virtuale: concettualmente un ologramma, come ho appena detto. Come nel Fantasma della libertà di Buñuel, la tavolata non è luogo di alimentazione, ma semmai di defecazione, sia pure – in questo caso – simbolica. In The Last Supper non si mangia. Le tre portate, che fanno il loro ingresso nell’improvviso raggelarsi dei personaggi come in un fermo immagine in cui tutto piomba in un’intensa e inquietante luce rosso sangue, accompagnata dalle note impazzite di una sorta di xilofono pop, non portano cibo, ma pezzi di animali imbalsamati: una testa di vitello e due uccelli, forse polli o tacchini. Che vengono adagiati sulla tavola come commensali surreali: elementi chiave di scardinamento del reale, evidenza dell’assenza di cibo e al tempo stesso ulteriori segni di finzione. La finzione (di relazioni, di sentimenti, insomma di vita) nella quale sono immersi i commensali di questo banchetto. Non stiamo assistendo a un banale spettacolo di sociologia, di fenomenologia, ma a una sottilissima e complessa composizione che si avvale della realtà per addentrarsi nella visione e nel simbolismo, e ritornare alla realtà, proprio come l’Ultima cena leonardesca. Qui la realtà svanisce a poco a poco, eppure diventa sempre più forte, finché il tira-e-molla si spezza improvvisamente. Il figlio so-tutto-io regala una tartaruga (che si presta facilmente a letture simboliche) al nipotino, che sembrerebbe viva. E’ l’unico soggetto autentico, e perciò crea un violentissimo corto-circuito con quanto visto finora. Lo spettacolo finisce, improvvisamente, senza alcun segnale che lo facesse presagire, senza alcun climax o preparazione. Come se la lentezza della tartaruga abbia accelerato la decomposizione di un’umanità morta dentro, come se l’aria fresca e viva della realtà avesse polverizzato le mummie egizie di sepolcri incautamente aperti.
Semplicemente così: zac.
The Last Supper, scritto e diretto da Ahmed El Attar; musica Hassan Khan; con Boutros Boutros-Ghali, Ahmed Farag, Mona Farag, Mahmoud El Haddad, Mohamed Hatem, Ramsi Lehner, Nanda Mohammad, Abdel Rahman Nasser, Sayed Ragab, Mona Soliman, Marwa Tharwat; scene e costumi Husseyn Baydoun; luci Charlie Aström; suono Hussein Sami; direttore tecnico di tournée Camille Mauplot; produzione Orient Productions, The Temple Independent Theatre Company; coproduzione Tamasi Collective; con il supporto di Studio Emad Eddin Foundation, Swedish International Development Agency; con il sostegno di Théâtre de Gennevilliers, Theatron Network; prima assoluta: Falaki Theater, Il Cairo, 10 novembre 2014.
Visto a: Bologna, Arena del Sole, 26 gennaio 2016.