Nel grande cuore rosso di David

 

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Che colore ha la morte? Rosso. Rosso sangue, rosso cuore, rosso ketchup, rosso mutande di Natale, rosso naso da clown. Il rosso è il colore della passione, però in David è morto di Babilonia Teatri è il colore della Passione: con la P maiuscola, senza passione. Il colore di una morte, di un suicidio, anzi di più suicidi e più morti. Il colore di una sonata di fantasmi di cui all’inizio si intravede a malapena la trama, e che solo alla fine ci si presenta nella più nuda e cruda realtà di una Spoon River, dalle cui tombe i protagonisti ci hanno raccontato in lunghe lapidi-monologhi il loro distacco dalla vita. Un distacco lancinante e siderale, che si declina nella fredda aritmetica cosmica del suicida David e che rimbalza su questa incomprensibile terra vista dalla luna, da una luna casta diva che risuona nell’aria di Bellini cantata mentre i protagonisti si agitano nel buio. Questa terra schiacciata sotto un cielo silenzioso verso cui gli uomini guardano e da cui non sono guardati, “underneath a sky that’s ever falling down, down, down” (Brian Eno), pieno di quelle Nuvole che sono l’orgoglio di una pop-rock star fallita e che ricordano le nuvole sulla copertina del romanzo Infinite Jest di David Foster Wallace, un altro David morto suicida pochi anni fa. Eppure quel rosso lasciava presagire tutt’altro: “Love’s the greatest thing”, ripetono i Blur nella canzone Tender all’inizio dello spettacolo. Il fatto è che David, forse, non avrebbe scelto Tender per raccontare la sua storia, anche se in fondo alla scena giganteggia un luminoso cuore rosso. Con la sua fredda mania per i numeri e l’ordine e la classificazione, e con quello che dovrà rivelare, David non avrebbe saputo che farci con la tenerezza, le emozioni, le passioni di quella canzone. Tender, ci dice una voce off, è la canzone preferita di Filippo, l’attore che sta dando corpo e voce a David. E allora, che ci sta a fare nella storia di David? Lo spettacolo è appena all’inizio e già un primo depistaggio ci introduce nei meandri di una narrazione insidiosa.

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Babilonia Teatri segna ancora una volta una tappa importante nel proprio percorso, dimostrando come il proprio “stile”, apparentemente molto omogeneo, sia in realtà un universo aperto per la ricerca e la sperimentazione di forme. Inutile fare esempi: quasi tutti i loro spettacoli hanno esplorato i confini di quella personalissima lingua teatrale (ben più complessa e profonda di un semplice “teatro pop”), spostandoli sempre un po’ più in là (ma senza andamenti “evolutivi”), o ritornando ad approfondire zone feconde. David è morto affronta per la prima volta in maniera drammaturgicamente articolata e matura la narrazione di una vera e propria storia, mettendo in scena veri e propri personaggi in relazione tra loro, secondo un procedimento che richiama alla lontana il precedente Pop star, partito dal testo di Mark O’Rowe Terminus, la cui impronta riecheggia qui in alcune pratiche, come nella relazione tra personaggi monologanti, che a poco a poco si svela all’interno di un contesto narrativo che lentamente si rivela come ‘postumo’. Ma qui il testo è ben lontano dal barocchismo visionario di O’Rowe e si cala con maggior tensione – e maggior fedeltà, semmai, alla limpida scrittura poetica e da confessione di Edgar Lee Masters – in un’esplorazione delle dinamiche di rapporto con la realtà. Anzi, di fuga dalla realtà. Perché la storia, per certi versi grottesca, che stiamo ascoltando non è altro che l’acido poema di una terra desolata dove le azioni sono conseguenza del nulla, come una risposta alla noia o all’anaffettività o alla diseducazione ai rapporti. E questa risposta è la morte ricercata e voluta, quasi come fosse la naturale conseguenza di una vita quotidiana già ‘mortale’ di per sé.

“Le ore prima di un suicidio sono fatte di enorme presunzione ed egocentrismo”, scriveva l’altro David suicida in Infinite Jest, ma qui sembrano ore fatte di rabbia e di vuoto, quasi un gesto di vendetta, come quello raccontato da un’altra compagnia veneta, i Fratelli Dalla Via, che in Mio figlio era come un padre per me aveva messo a punto una fenomenologia grottesca del suicidio filiale in chiave anti-genitoriale, come un bizzarro dispetto, in realtà come un urlo disperato di richiesta d’amore. E’ Filippo/David a dire all’inizio che David si è suicidato, inaugurando la dettagliata confessione collettiva di una famiglia intera (sorella, madre, padre: tutti già morti, dunque fantasmi di esistenze vacue), risucchiata da un gesto che presenta non motivazioni, ma solo il fenomeno. Fenomeno incomprensibile, come ogni suicidio adolescente, come quello della ragazzina di 13 anni che si è impiccata pochi mesi fa, alla fine di settembre, nel giorno del suo compleanno, scrivendo sul suo diario “Morirò con il sorriso sulle labbra”. E’ accaduto nel veronese, a una manciata di chilometri dalla casa dove ha sede Babilonia Teatri, ma poteva accadere ovunque, come accade ovunque, e come adesso accade anche lì, sul palcoscenico, dove David racconta la sua morte col sorriso sulle labbra. Un sorriso che non esprime sentimenti, che anzi li nasconde: la pura meccanica del gesto cela le motivazioni e le emozioni e ci restituisce una gelida geografia della famiglia e delle relazioni, in cui i protagonisti sono incapaci di provare qualcosa, o meglio sono incapaci di riconoscere ciò che provano e perciò di esprimerlo. Del resto, la madre cerca di nascondere la verità del suicidio del figlio, non per pietas ma per perbenismo, così come il padre decide di non volerla nascondere, non per pietas ma per tardivo rimorso.

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David è morto entra affilato negli organi vitali e mortiferi della famiglia. Negli anni del Family Day, della retorica sulla famiglia tradizionale, dell’esplosione e moltiplicazione della famiglia, negli anni in cui gli stessi Enrico Castellani e Valeria Raimondi, anime e corpi di Babilonia Teatri, ci hanno raccontato la nascita e la crescita della loro famiglia reale e le inevitabili interrogazioni sul significato della genitorialità, David è morto ritorna al bersaglio ‘autobiografistico’ della responsabilità di padri e madri nei confronti di nuove vite e future morti. Abbiamo visto il figlio nella Pancia (2010) della madre, poi neonato in The end (2010-11) e in Maledetta primavera (2012), bambino e pre-adolescente in Lolita (2013) e Jesus (2014), e ora lo vediamo grande: “Non ve lo potete neanche immaginare cosa vuol dire avere un figlio. Amarlo e non comprenderlo. C’è un bambino. Poi un ragazzo. Poi un uomo che vive con te. Nella tua stessa casa. Fino a tre anni ha succhiato le tette a tua moglie. Non sai chi è”, dice il padre nel suo monologo. Nessuno sa chi sia davvero l’altro: dalle parole di ciascuno emerge l’ignoranza reciproca, perfino i genitori che, dopo una vita passata insieme, si guardano come fosse la prima volta inciampando una nelle braccia dell’altro. E qual è il legame che unisce i due fratelli? Il ragazzo ossessionato dai numeri, che seppellisce gatti come faraoni, e sta rinchiuso nella sua felpina con cappuccio come un irrequieto adolescente alieno alla Gus van Sant, e programma il suo suicidio con freddezza e con il senso di vendetta per un padre percepito come assente? E la ragazza ossessionata da un raggelante manicheismo gastronomico, per il quale il mondo si divide in vegetariani e carnivori o in chi fa la colazione col dolce e col salato, e che sembra aver ceduto a una bulimia sessuale senza freni per colmare un’assenza profonda? Anche lei si suicida, il giorno dopo quello di David, a metà tra la perfidia nei confronti dei genitori e la dichiarazione d’amore e vicinanza verso il fratello, il cui ricordo più intenso è di lui portato dalla corrente, by the river (Brian Eno, ancora). “Siamo liberi – dice David – L’estremo sacrificio è roba per pochi. Gente eletta”. Piccole anime, cantava Faust’O snocciolando il catalogo dei suicidi eccellenti: “qualcuno dice che è l’umidità… / ma quando il cuore non ti basta mai…”, e qui l’umidità non sta solo nel fiume che trascina David, ma anche dentro quel suo cuore che continua a illuminare di rosso la scena, tanto grande e tanto vuoto.

Le lapidi-monologo si succedono: prima David, poi la sorella Iris. Poi la madre e il padre, che parlano in simbiosi: piccoli cori a due, in uno spiazzamento prospettico che è quello dei figli, i quali – appunto – percepiscono i genitori in una duplice unitarietà, come un mostro a due teste, un Giano in cui le due facce che guardano all’opposto sono condannate a una vita siamese. Il quadretto di questa devastata Family Night è ricomposto così: il racconto dei figli morti suicidi, il lutto ambiguo (diplofonico, mi verrebbe da dire) dei genitori che termina con un ulteriore gesto di suicidio. Lo spettacolo poteva terminare qui. Ma la vera storia è un’altra.

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A scendere in campo è ora Alex, il divo pop-rock che si compiace dei giudizi espressi dai critici sulla sua arte: “Ha saputo conciliare il pop che sempre l’ha contraddistinto e l’impegno che piace a noi”. Sembra di leggere la recensione a uno spettacolo di Babilonia Teatri, e non a caso. Il suo è un intervento apparentemente meta-narrativo: interrompe il quadretto dei ragazzi suicidi e dei genitori in lutto per dire di essere l’autore. Riconosciamo che la voce fuori campo che ci ha accompagnato finora spiegandoci alcuni passaggi e presentando personaggi e interpreti era la sua. Il pubblico ha più di un momento di spaesamento: un signore seduto vicino a me si avvicina all’orecchio della moglie e sussurra con sicurezza: “Ah, vedi, quello è l’autore!”. Nella tradizione del nuovo teatro è facile riconoscere le stranezze del vero autore che interrompe lo spettacolo per svelare i propri rovelli creativi e coinvolgere direttamente lo spettatore; più difficile è riconoscere un trucco antico, quello di un attore che finge di essere altro. E così Alex racconta di essere l’autore della storia a cui stavamo assistendo, e poi di essere un cantante, introducendoci ai più astrusi e ridicoli segreti della sua arte, quella che ha dato vita al suo successo planetario Nuvole, grazie a un importuno clown dottore di nome Birillo, e poi quella che ha segnato l’impasse creativo fino all’illuminazione grazie alla commessa di un negozio di materassi. Questa storia delirante ci porta altrove, ci travolge ipnoticamente, ci obbliga a seguire la figura stralunata di Alex, calamitante come il Frank T.J. Mackey interpretato da Tom Cruise in Magnolia: spiritato sotto l’occhio di bue che annulla il contesto e lo erge a divo imbonitore.

Lo spettacolo sul suicidio – cioè sul distacco dalla vita che sancisce il distacco nella vita, cioè le distanze e le assuefazioni nelle relazioni – compie una virata rocambolesca e incongrua diventando uno spettacolo sulla creazione. Inutile chiedersi cos’hanno a che fare Alex, Birillo e la commessa di materassi con il tema del suicidio: semmai, il distacco di cui si parla è quello della creazione artistica. Il rapporto cialtrone che Alex stabilisce tra il suo “capolavoro” Nuvole e la morte della madre (e ancora una volta ritorna la connessione forte tra l’idea di genitorialità e di morte), grazie all’insofferenza provata per uno stupido clown, è il riflesso di un equivoco corto circuito che fotografa grottescamente l’azione artistica: casualità, cinismo e un facile sentimentalismo d’accatto sfornano il successo. Non c’è aderenza dell’artista alla propria creazione: il distacco raccontato nella prima parte dello spettacolo assume qui una forma diversa ma ugualmente mortifera, cioè il distacco dell’artista dalla propria creazione, e in fin dei conti – anche qui – dalla vita. Non è un caso che, alla ricerca del bis, Alex attraversi come un forsennato altre latitudini e altre opere d’arte, enumerate in un catalogo surreale, cercando disperatamente ispirazione fuori di sé anziché dentro di sé. Finché, ancora una volta, una storia assurda: quella della commessa che vende materassi, che porta Alex nuovamente all’insofferenza e, attraverso di essa, alla nuova rivelazione per una nuova canzone di successo dal titolo David è morto. Canzone che viene ora eseguita da tutti, e durante la quale Alex… si suicida; certo, più come uno spavaldo Johnny Ace che come un tormentato Luigi Tenco o un ribelle Kurt Cobain. E qui i due percorsi dello spettacolo si fondono ancor più inattesi, proponendo un ulteriore scarto che riduce il deus ex machina Alex a mera comparsa, e riportandoci solidamente al tema principale. Che tuttavia ci appare ora ben diverso, filtrato da una lente straniante che impone il distacco del sospetto proprio nel momento più toccante.

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Rapidamente si ricuciono i fili di questa matassa ingenuamente ingarbugliata come i fili fragili e facili di Spoon River. Avevamo quattro attori che impersonavano una famiglia algidamente disperata dal sapore di American Beauty, poi l’autore della storia, poi una pop-rock band che canta David è morto. E ora ci troviamo l’autore suicida e i quattro attori ormai completamente appiattiti sui loro personaggi, perché non c’è più la voce fuori campo a definirne il distacco interpretativo. In quale storia siamo capitati? Adesso il padre e la madre, incorniciati come gli innamorati di Peynet dal grande cuore rosso di David sempre illuminato, si rivelano per quel che sono, non più all’unisono, ma marcando le loro identità: lui è proprio quel Birillo e lei è proprio quella materassaia di cui aveva parlato Alex. Dunque sono loro le persone che avevano ispirato Alex, oppure sono in realtà creature inventate dallo stesso Alex, che proseguono oltre la morte del loro autore? Il clown che fa ridere i malati e la commessa che fa riposare chi è stanco nascondono nei loro mestieri ‘angelici’ l’obiettivo dell’anestesia dalla realtà più dura. Un’altra forma di distacco. Il quadretto familiare è ora completo, e la storia viene svelata: tutti i personaggi sono accomunati dalla condizione di parlare post mortem. Li ritroviamo così tutti e cinque, con il loro corpo-lapide (a mo’ di bestemmia: “Ogni lapide è una bestemmia”, aveva detto poco prima il padre) accanto alla propria croce del cimitero che invade ora la scena, con il grande cuore rosso di David che non campeggia più in alto ma giace anch’esso tra le croci, sotto l’effettaccio volutamente kitsch di una nevicata triste su cui si spalma la nenia iniziale di Tender. Stavolta non è più la canzone preferita di Filippo, ma la pietra tombale di una condizione di straniamento dalla vita e dalle passioni che ha attraversato l’intero spettacolo: “Lord, I need to find / someone who can heal my mind”. Ma la luna tace, il cielo è lontano e Dio è stato azzerato da tutte le lapidi, cioè da tutti i morti, che hanno invaso la terra:

“riposi all’ombra di una lapide di marmo

tu e tutti i tuoi complici

pensa

prima di adagiarti all’ombra di una lapide di marmo pensa

pensa che quel marmo era montagna

che quella montagna era mondo

che quel mondo era dio”.

 

 

 

David è morto di Valeria Raimondi e Enrico Castellani; parole di Enrico Castellani; con Chiara Bersani, Emiliano Brioschi, Alessio Piazza, Filippo Quezel, Emanuela Villagrossi; musiche originali di Cabeki; direzione di scena Luca Scotton; foto Eleonora Cavallo; ufficio stampa Studio Systema; progetto grafico Francesco Speri; produzione Teatro Stabile del Veneto – Teatro Nazionale e Emilia Romagna Teatro Fondazione, da un progetto di Babilonia Teatri. Prima assoluta: Verona, Teatro Alcione, 28 novembre 2015.

Visto a: Padova, Teatro Verdi, 3 dicembre 2015.

 

 

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