Strap-art? Dalla strada al museo

 

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Keith Haring alla mostra “Street art”

Street Art – Banksy & Co. L’arte allo stato urbano, a cura di Luca Ciancabilla, Christian Omodeo e Sean Corcoran, è una mostra di ossimori e di ambiguità. E per questo è una mostra tagliente e necessaria ben al di là delle numerose e significative opere esposte, che abbracciano un immaginario e una pratica artistica che da nomi mitici come Keith Haring, Lady Pink o Banksy – e ancora Daze, Sane Smith, Blek le Rat, Invader, Dran, Lee Quiñones… – si estende in una geografia metropolitana tra New York, Parigi, Amsterdam e naturalmente Bologna, da dove hanno preso il volo Blu, Ericailcane, Dado e Rusty, Cuoghi & Corsello e altri ancora. Di per sé, si tratta di una mostra dai molti rivoli e dalle molte suggestioni visive e di approfondimento sociale e culturale, che sottolinea la vocazione di storicizzazione del contemporaneo di una città che quasi 40 anni fa aveva ospitato nella sua prestigiosa Galleria d’Arte Moderna una grande Settimana internazionale della performance a cura di Renato Barilli, e che poco dopo seppe individuare proprio la caratura artistica della street art nei suoi prodromi attraverso gli occhi di una giovane ricercatrice militante come Francesca Alinovi. Insomma, la mostra di questi giorni è al tempo stesso una calata in profondità negli snodi estetici e di senso di un processo artistico ormai pluridecennale e storicizzato (come dimostra, tra l’altro, la presenza di pezzi significativi della storica collezione di Martin Wong conservata al Museum of the City of New York), e un attraversamento divulgativo che consente di avvicinare con uno sguardo diverso ciò che i nostri occhi sono abituati ad abbracciare quotidianamente nelle strade. E fin qui, è tutto regolare. E da qui iniziano gli ossimori e le ambiguità.

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Futura 2000 e Zephyr alla mostra “Street art” accanto alle terracotte del Museo della Città

Visitare la mostra sulla street art a Palazzo Pepoli è di per sé un’esperienza straniante, perché la mostra si distribuisce in una sede espositiva che contiene stabilmente le sale sulla storia della città di Bologna, nonché alcuni suoi feticci simbolico-commerciali ben in mostra. Il contrasto è stridente eppure sembra rispondere a una sua logica: le moto Ducati presenti permanentemente all’interno delle sale sembrano oggetti di pop art che si rispecchiano sugli oggetti post-pop di Ron English che deformano Marilyn Monroe o Ronald McDonald. E l’incursione di graffiti, tag, piccoli sfregi e grandi murales tra i busti di terracotta o le tele dei Carracci o le ricostruzioni di Bologna medievale sembra calarci correttamente nella percezione contemporanea di una sovrapposizione sincronica che è quella della nostra ricezione quotidiana. Ma è solo l’ambiguità più evidente.

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La mostra “Street art”

Ben più interessante è la questione legata agli oggetti in sé, che peraltro sembra rappresentare una delle chiavi realmente più importanti (e forse innovative) della mostra, anche ricordando che Ciancabilla, uno dei suoi curatori, è autore di un recentissimo volume dal titolo The sight gallery. Salvaguardia e conservazione della pittura murale urbana contemporanea a Bologna. Insomma, ciò di cui si parla è materiale ad altissimo rischio di deperimento e scomparsa. Forse per la prima volta nella storia creazioni artistiche vengono realizzate su supporti che fanno di una precarietà non transitoria (come sarebbero invece gli apparati scenografici, per esempio) la loro ragion d’essere. Non si crea per lasciare un segno, ma per segnare una provvisorietà.

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Cocci delle opere di Vulcan e Phase 2 alla mostra “Street art”

La questione porta così a varie conseguenze che si riflettono in alcuni inattesi punti e spunti della mostra. La prima è la strana sensazione che coglie il visitatore di fronte ad almeno due o tre teche di vetro nelle quali sono esposti alcuni cocci. La mostra non esibisce solo fotografie per documentare, in uno stuzzicante continuum, opere meravigliose e scarabocchi senza senso ormai cancellati o distrutti per sempre, ma ci sono anche veri e propri cocci, che sembrano dialogare alla lontana con quelli che – poco più in là – illustrano le radici etrusche di Bologna. Affrontare la street art in una prospettiva di ricerca, insomma, ha anche a che fare con… l’archeologia. Si tratta, infatti, di opere che fin dalla consapevolezza della loro caducità richiedono un’attitudine archeologica. I pochi, miserabili e inintellegibili frammenti di muro che giacciono amorevolmente raccolti in una teca, dove la targhetta ricorda, per esempio, trattarsi di ciò che rimane di una delle opere più eclatanti della street art bolognese, e cioè la Peabrain di Cuoghi & Corsello al Link, è un tuffo al cuore di tristezza, ma anche un profondo motore di riflessione sulla vocazione più profonda di quest’arte.

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Uno dei murales staccati di Blu alla mostra “Street art”

Non è un caso che alle teche che offrono piccole indistinguibili macerie facciano eco più d’un riferimento alle possibilità di conservazione a fronte dell’annunciata demolizione delle strutture. E ancora una volta la street art evoca filtri interpretativi concettualmente lontanissimi, ma evidentemente collegabili e collegati a essa: in una delle sale dedicate a Blu un pannello rievoca dottamente la storia dello strappo degli affreschi a partire dall’inventore Antonio Contri nel ’700: un nuovo corto-circuito temporale, dopo quello archeologico, che rimbalza più avanti nella saletta video, dove in loop viene mostrato il recupero a strappo di una grande opera di Blu alle officine Casaralta prima della distruzione degli edifici, come fosse un affresco rinascimentale: la stessa opera che poi il visitatore troverà, ricomposta su tela, al termine del percorso.

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Dran alla mostra “Street art”

I diversi strappi (non solo di opere di Blu, che rappresentano il blocco più eclatante) hanno l’effetto di trasportare nelle sale espositive le immagini salvate dalla distruzione. Ma non gli oggetti. Forse in questo sta la differenza maggiore rispetto ad altre, più frequenti e meno eclatanti, decontestualizzazioni fisiche che sono il pane quotidiano di mostre e musei, come le pale d’altare ‘strappate’ dai rispettivi altari o interi complessi monumentali ricostruiti indoor. In questo caso, infatti, l’oggetto non si limita a essere l’immagine posta su un supporto qualsiasi, ma coincide con quello stesso supporto. Peabrain non è solo la sua immagine sul muro del Link, ma è quel muro stesso, anche con le ulteriori sovrapposizioni di tag e graffiti di altri artisti o di semplici imbrattatori. L’opera di street art vive anche dopo la sua composizione, è dinamica, cresce, si deforma, si corrompe, muta con gli agenti atmosferici e le incursioni antropiche, respira, e soprattutto ‘è’ il muro su cui compare l’immagine. L’artista sceglie il muro perché quel muro già di per sé comunica e suggerisce l’immagine.

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Banksy alla mostra “Street art”

In questo senso, le opere staccate di Blu e degli altri artisti, riportate su tela o altri supporti, hanno, al di là delle valutazione estetiche, il retrogusto del posticcio. Lo stacco, pur comprensibile nella prospettiva (condivisibile e meritoria) della conservazione, assume il valore di un’azione kitsch, dove per kitsch intendo non tanto il cattivo gusto, quanto l’abbassamento di un’opera alta a un livello banalizzante di riproduzione prêt-à-porter. La matericità dei pezzi di cemento, ormai inutili, esposti nelle teche suggerisce il valore dell’opera (“perduta”) molto più delle opere (“salvate”) staccate con il metodo di conservazione e restauro mostrato nel video. In questa insanabile irriducibilità sta uno dei grandi problemi che la street art porta con sé e che, tuttavia, non può essere né affrontato né risolto con il massimalismo di chi richiede che le opere restino perennemente (che poi significa in rapida scomparsa) sui muri in cui sono state create: Abu Simbel ci ricorda che se un’opera che valutiamo significativa per la nostra cultura rischia di scomparire, allora bisogna far di tutto per preservarla, anche mettendo in atto uno strappo rispetto alla sua collocazione originaria. Per quel che riguarda la street art, in verità, c’è anche una questione che ha a che fare con il sociale e con il politico, ovviamente, che farebbe optare per questa soluzione (cioè: creazione, permanenza sul muro, distruzione), ma qui mi interessa affrontare il discorso da un altro punto di vista. In altre parole, una volta riconosciuto valore di opera d’arte a un dipinto di street art, come ci si può rapportare con essa, partendo dal presupposto che si tratti di un atto di creazione riferibile alle arti visive e non alle arti performative (che per loro natura vivono nell’effimero)?

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ericailcane alla mostra “Street art”

La mostra bolognese interviene in una questione così determinante per storici e critici dell’arte optando decisamente per la valorizzazione dell’immagine e della personalità artistica individuale. I distacchi ne sono un esempio, ma anche le altre opere esposte rimandano a questo approccio. Non solo opere staccate dai muri o recuperate da altre collocazioni urbane (palizzate, saracinesche, cancelli), e non solo fotografie, ma opere e materiali di tutti i tipi (fumetti, disegni, quadri, mattonelle…) che mostrano degli artisti ‘di strada’ una dimensione molto più complessa e articolata, consentendo per alcuni di loro di conoscere un’estensione produttiva inattesa. Il sottotitolo della mostra è eloquente in questo senso, perché l’accento non è posto sulla città riletta (rimodellata) dall’arte, ma sul tipo di arte che prende forma nella città: L’arte allo stato urbano, e non – per dire – La città che genera arte.

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Cuoghi & Corsello alla mostra “Street art”

Dunque, il punto nodale della mostra sembra essere non la street art in quanto forma d’arte collegata a una reinterpretazione urbanistico-politica della realtà e a una sua messa in discussione (si sprecano titoli di opere che rimandano alla sovversione: in una sala campeggia, definitivo ma elegante, Spaccare tutto di Cuoghi & Corsello), ma la street art in quanto genere artistico, di cui si cercano parentele, ascendenze e filiazioni nella storia recente dell’arte contemporanea, puntando spesso all’opera facilmente esportabile e commerciabile (per esempio, ci sono anche serigrafie). Attenzione: non si tratta di una forzatura, perché – piaccia o no – la street art è anche questo, come sanno bene quasi tutti i suoi maggiori esponenti internazionali, da Haring a Banksy, ma si tratta perlomeno di uno snodo critico di particolare delicatezza e importanza, non liquidabile, insomma, con prese di posizione pregiudiziali da una parte o dall’altra.

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Disclaimer alla mostra “Street art”

Il crinale della complessità critica che emerge da questa mostra, proprio grazie alla sua scelta di campo, esplode sbalorditivamente in un inatteso pannello con un lungo “disclaimer”, in cui si condannano “qualsiasi atto di vandalismo e qualunque comportamento illegale comunque riferibile alle dette pratiche artistiche”. Si strabuzzano gli occhi, si ride, ci si arrabbia: il pannello sembra rispondere a un’ipocrisia insostenibile, nel momento in cui la gran parte dei prodotti più importanti della street art nasce proprio nell’illegalità, o perlomeno nella non regolarità. I curatori (o chi, per loro, ha voluto e scritto il disclaimer, che suona come una rivelatrice excusatio non petita) valorizzano ed enfatizzano la street art, per sua natura contrapposta alla legalità e quasi sempre condannabile sulla base dei vari regolamenti urbani, ma ne condannano proprio la sua stessa pratica. Allora l’intera mostra, alla luce del disclaimer, sembra voler distinguere la street art buona e quella cattiva: la cattiva è quella che imbratta i muri delle nostre città, la buona è quella che è stata preparata qui per noi, incorniciata e devitalizzata, dove non esistono writers e graffitari, ma solo Artisti dal passato bohémien (come tutti i ‘maledetti’ che ci piacciono tanto), pronti a essere immessi nel mondo dell’arte, delle gallerie, del sistema. Insomma, questa mostra punta legittimamente tutto su uno dei due concetti dell’espressione street art, lasciando in secondo piano l’altro: qui si parla di arte, non di strada. E a questo punto ossimori e ambiguità arrivano al culmine suggerendo fratture concettuali.

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L’azione di Blu per coprire di grigio i suoi murales a Bologna

In queste crepe si è incuneata la protesta di uno degli artisti in mostra, Blu, che pochi giorni prima dell’inaugurazione, il 12 marzo, ha steso una mano di grigio su tutte le sue opere ancora presenti sui muri di Bologna. Di questo si è detto e scritto molto, costituendo alla fine un formidabile volano pubblicitario alla mostra. Si è detto che la protesta era contro la museificazione della street art che deve vivere solo per strada (e senza pagare il biglietto per essere vista, aggiungono alcuni), ma abbiamo visto come la questione sia insignificante se posta in questo modo: al netto del silenzio degli altri street artists sull’argomento, lo stesso Blu aveva preso parte a precedenti mostre al PAC di Milano nel 2007 e alla Tate Modern di Londra nel 2008, quindi il punto non era questo. Si è anche detto che la protesta era contro la decontestualizzazione per una questione di senso politico e urbanistico: questione interessante e legittima, che però andrebbe posta come questione critica, non nei termini di opposizione pregiudiziale e iconoclasta (e ancora una volta, il silenzio degli altri artisti mostra come non fosse questo il problema). Si è anche detto che Blu abbia cancellato le sue opere per paura di nuovi stacchi per una loro collocazione sul mercato: aspetto sicuramente interessante, anche se sarebbe stato più semplice e meno devastante (e meno spettacolare) prendere poche semplici cautele di salvaguardia. La ragione più potente e viscerale (raramente scritta, ma molto condivisa a voce) era semmai la volontà di netta opposizione a Fabio Roversi Monaco, contestatissimo ex Rettore dell’Università di Bologna, ex presidente della Fondazione Carisbo e attuale presidente di Genus Bononiae (organizzatrice della mostra): massone, ma anche coltissimo cultore dell’arte moderna e contemporanea, e comunque inviso alla cultura alternativa e d’opposizione.

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L’azione di Blu per coprire di grigio i suoi murales a Bologna

Al di là di queste e altre motivazioni vere o presunte, la cosa in verità più interessante è che anche questo gesto di Blu è stato gravido di ossimori e ambiguità, che sembrano fare da pendant a ossimori e ambiguità della mostra, a cominciare dalla modalità: l’azione è stata infatti eseguita come un raid di rappresaglia contro un’intera città per colpa di pochi. Un comportamento sbalorditivo, che rievoca il costume delle punizioni collettive bibliche (e, ahimè, storiche): l’esito, infatti, è punitivo non nei confronti dei pochi (che se la ridono: gli organizzatori della mostra), ma dei tanti ‘innocenti’ cittadini. E proprio da questo comportamento emerge il punto nodale di maggiore ambiguità dell’operazione, che fa riferimento all’idea di proprietà. Si è detto, infatti, che la protesta sia nata dal fatto che a Blu non sia stato chiesto il permesso per il distacco delle sue opere (cosa che i curatori hanno contestato, dicendo che il permesso l’hanno chiesto ma che lui non ha mai risposto, e che comunque i dipinti sono stati staccati da supporti murari in via di demolizione). Ciò significa come prima cosa che Blu si appellerebbe all’istituto giuridico (e ‘borghese’, si sarebbe detto un tempo) del diritto d’autore, istituzione spesso avversata nel suo ambiente di riferimento (dove peraltro ben pochi si sognerebbero di chiedere il permesso, per esempio, ai proprietari dei muri per dipingere). Quindi, mentre molti si illudevano che i murales della street art fossero di per sé “patrimonio di tutti”, ecco che Blu ci ricorda l’imprescindibilità della proprietà (che Proudhon e gli antagonisti di decenni addietro avevano bollato come “un furto”). Le opere disegnate da Blu sono dunque di esclusiva proprietà dell’autore stesso, che può farne quel che vuole: questa sarebbe concettualmente la grande novità di tutta questa faccenda. La street art non sarebbe dunque un’arte legata alla strada e “della” strada, ma semplicemente una variante nelle modalità creative di un artista che può disporre della sua opera come crede. Che è appunto l’impostazione stessa della mostra da tanti criticata.

Rimane un ultimo aspetto: da artista, anzi da grande artista, Blu ha semplicemente creato una nuova opera d’arte. Il muro grigio, infatti, non sarebbe una copertura, ma una sua nuova opera, sia dal punto di vista performativo (Blu ha operato incappucciato, insieme ad attivisti di centri sociali, che in pieno giorno e in modo eclatante verniciavano le sue opere di grigio), sia da un punto di vista oggettivo (i nuovi muri grigi sono ora oggetto di nuove visite e supporto per nuovi tag e disegni altrui). E in questo sta il più potente spiazzamento rispetto alla mostra: lo avessero immaginato, i curatori avrebbero potuto staccare un pezzo di quella riverniciatura per metterla in mostra. Didascalia: Blu, Grigio.

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Emanuele Luzzati cancella i suoi murales per protesta nel 1985 (foto da “40 anni di… Teatro della Tosse 1975-2015” a cura di Matteo Paoletti, Genova 2015)

Post Scriptum storico – Il primo giugno 1985, trent’anni fa, Emanuele Luzzati distrusse i murales all’interno del Teatro Alcione che aveva disegnato nel corso della prima stagione gestita dal Teatro della Tosse (1978-79). Nel 1985 quest’ultimo era stato sfrattato dall’Alcione (che diventerà un cinema porno) e allora Luzzati decise di distruggere le sue opere in un grande happening collettivo che coinvolse artisti e spettatori armati di pennelli e bombolette spray. Non una distesa di grigio ma un guazzabuglio caotico di colori e forme. “Questa cancellazione – disse Luzzati – è l’unico aspetto ludico di una vicenda molto triste. Quasi le pareti sono ora più belle. Come scenografo so per esperienza che questi lavori possono durare al massimo una stagione teatrale”. A uno sfratto che tolse a Genova uno dei suoi teatri più importanti e innovativi, a un’ingiustizia sia per l’arte che per la città, ci fu una risposta nel segno della festa e dei colori, dove la cancellazione creativa diventava atto ludico e vitale per affermare i valori di una cultura libera contro le dinamiche del potere dell’economia.

 

 

Street Art – Banksy & Co. L’arte allo stato urbano, a cura di Luca Ciancabilla, Christian Omodeo e Sean Corcoran; produzione Genus Bononiae. Musei nella città, Arthemisia Group; con il sostegno di Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna; Bologna, Palazzo Pepoli, 18 marzo-26 giugno 2016.

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