Cinque pezzi tutt’altro che facili

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“Ah, meraviglia, muoio”, esclamava il fanciullo in un’antica poesia di Pasolini. Per un attimo sembra di risentire adesso quel verso volteggiare sulla scena, dove sette bambini, fra gli 8 e i 13 anni, stanno sostenendo dei provini: chi è bravo a recitare, chi a cantare, chi a ballare, chi a tossire… Ma l’allegria argentina dei ragazzini confligge da subito con il peso di responsabilità più grandi: almeno due di loro dichiarano che alla nascita hanno rischiato di morire, e nel dirlo avverti che la voce assertiva è striata al tempo stesso di malinconia e voluttà. Nelle parole di questi bambini la morte ha i connotati dell’avventura lambita, eroicamente fissata negli occhi dalla culla, e perciò compagna di strada della vita. “Dolcemente dormirai tra le mie braccia”, sussurrava la Morte di Schubert alla fanciulla… Eppure, la meraviglia e la dolcezza si infrangerebbero sulle immagini di Aylan, fuggito dalla guerra siriana e annegato sulla spiaggia di Bodrum, così come sui volti, i corpi, le storie dei troppi bambini uccisi, o anche soltanto morti per incidente o malattia. E allora come riuscire ad accettare di farsi raccontare da bambini le atroci morti di altri bambini?

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Five easy pieces di Milo Rau sono cinque pezzi tutt’altro che facili. E non solo per il tema scabroso presentato in maniera tutt’altro che ‘pacificante’. Certo, basterebbe quello: la storia dello stupratore e assassino belga di bambine Marc Dutroux, raccontata proprio da un gruppo di bambini, ovviamente belgi come le vittime. Basterebbe vedere come provano a calarsi nella sua vita, magari cercando di impersonarne il padre o di inscenare l’ennesima sepoltura dell’ennesima ragazzina uccisa. Oppure come cercano di immaginare i genitori in lacrime di quelle bambine, o quelle bambine stesse che scrivono una lettera a quei loro genitori mentre sono accovacciate seminude sul letto dell’orrore. Eh sì, per niente facili… Né per questi sette attori in erba, immagino, né per il pubblico, che cerca di ricordare continuamente a sé stesso che in fondo quelli sulla scena sono bambini “maturi” (postulato non dichiarato ma necessario, e però paradossale e contraddittorio in termini), perché fanno teatro e avranno pur avuto il supporto di genitori o psicologi nell’affrontare certi argomenti e certe scene… e allora, via con l’applauso, la risata al punto giusto, la partecipazione di cuore a questo evento, per trasformare la recita in un rito collettivo di catarsi.
Ma i cinque pezzi sono tutt’altro che facili anche perché nascondono altro. Sembra di assistere a una cosa, ma forse stiamo vedendone un’altra. Sembra il racconto di una storia, quella di Dutroux appunto, o il suo esorcismo allestito da e per i bambini. Sembra la rivincita dei bambini sul mostro, e in fin dei conti anche sugli adulti. Ci sentiamo quasi imbarazzati per come quei bambini raccontano qualcosa di troppo grande per loro, che non è certo la morte (“Ah, meraviglia…”), ma piuttosto l’incomprensibile psicologia degli adulti, di cui scimmiottano gli atteggiamenti esteriori – con eccellenti interpretazioni! – ma come angeli calati in corpi non loro, impeccabili esteriormente ma forse goffi dentro. La sfida tra le loro voci, i loro corpi, le loro personalità e il corpo, la voce, la personalità dell’unico adulto in scena coinvolge anche noi e ci interroga: da che parte stiamo? E’ l’adulto a scandire, a regolare, a dirigere, a decidere. Un ‘regista’. Un persuasore. Un sottile dittatore. Quasi un sopraffattore. I bambini nelle sue mani per raccontare la storia di bambine nelle mani di un adulto, di un mostro.

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Il fatto è che tutti fingono. O meglio: si rappresentano. Che è poi il senso del teatro, ma anche del cinema, anche della televisione… anche dell’intera società dello spettacolo. Rappresentarsi. Esibirsi. Costruire la propria esibizione e rappresentazione. Sembra che si parli di Dutroux o dei bambini, ma in realtà si parla di costruzione della rappresentazione. E questo non significa che Dutroux e i bambini siano un pretesto, ma semmai un dispositivo ‘sensibile’ che permette un’esplorazione più netta e crudele nel nucleo di senso centrale dello spettacolo.
All’inizio i bambini fanno un provino: scelgono come rappresentarsi di fronte a qualcuno che li deve valutare per sceglierli per rappresentare qualcos’altro. A condurre le audizioni è l’attore che interpreta il regista. E’ l’unico adulto, in un angolo del palco, e il suo volto viene rimandato in diretta su un grande schermo che incombe sui bambini schierati. Veniamo così a conoscere i nomi, le età, le caratteristiche dei bambini, ma l’uomo sembra più interessato a conoscere le curiosità che li riguardano piuttosto che le loro vere doti. Dimenticate A chorus line: il modello qui è il talent show televisivo, che mescola X Factor e Amici: il protagonismo professionale del giudice e il gossip del dietro le quinte. Con l’aggiunta di Ti lascio una canzone, ossia il gusto tutto adulto nel vedere i bambini che si comportano come adulti, cantando o recitando: “piccoli ometti”, insomma. Proprio come i 7 bambini tirati a puntino, educati, seriosi, che partecipano a questo provino sperando di venire scritturati per lo spettacolo, quasi malinconici, se non fosse per qualche battuta da cui sprizza un irrinunciabile spirito infantile, che Milo Rau colloca nei punti giusti per mantenere (per costruire, rappresentare) l’effetto della spontaneità.

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Il provino funziona da prologo: ci aiuta a stemperare ciò che vedremo, e al tempo stesso riconduce tutto al tema della finzione della rappresentazione. I 7 bambini si presentano come se fosse tutto spontaneo, ma il testo (pur scaturito, immagino, da improvvisazioni) è inflessibile, e non a caso contiene disseminate parole chiave che riemergeranno al momento giusto durante il resto dello spettacolo. Un meccanismo perfetto, quasi un orologio svizzero (l’allusione alla nazionalità di Milo Rau è casuale, o forse no).
Lo schermo alle spalle dei bambini moltiplica il concetto, lo estende dal teatro all’audiovisivo: cinema, televisione, web video che sia. Prima ci mostra in primo piano il regista che sta conducendo i provini, poi contiene i titoli di testa dello spettacolo (durante l’esibizione canora di una bambina), e durante lo spettacolo assolve ancora due funzioni importanti: rimandare su schermo i cinque “pezzi facili” interpretati dai bambini che impersonano adulti, e duplicare le azioni agite in scena dai bambini attraverso l’interpretazione di attori adulti. In entrambi i casi, lo schermo agisce in un doppio senso. Il primo è quello di materializzare una frattura tra il corpo dei bambini sulla scena e quello – vero o finto – degli adulti sullo schermo. Peter Seynaeve, l’attore che interpreta il regista e che è parte autorale determinante di questo lavoro, è impegnato da tempo in questa ricerca: si pensi a uno spettacolo di danza da lui creato qualche anno fa come Victor, che metteva ‘pericolosamente’ in rapporto e collisione la fisicità muscolare di un adulto e un bambino. In Five easy pieces questa collisione dei corpi è più concettuale, e semmai distanziata proprio dalla frattura tra la rappresentazione video e la realtà fisica della scena (che tuttavia è sempre e comunque rappresentazione), sia nei monologhi dei bambini, che vediamo piccoli in scena, ma trasfigurati da grandi sullo schermo, sia nelle azioni corali in cui i movimenti e le parole detteda veri adulti sullo schermo sono raddoppiati (clonati) dai bambini in scena.
Il secondo senso è quello della vertigine dell’esibizione e della rappresentazione (ulteriormente moltiplicata dai commenti dei bambini sulle loro stesse interpretazioni e dal loro dialogo con il regista che li riprende). Tutto è maledettamente finto, eppure maledettamente pulsante di verità. Riepiloghiamo: ci sono 7 bambini-attori che recitano facendo finta di fare un provino per diventare 7 bambini-attori che recitano dei personaggi i quali devono esibire di fronte alla telecamera una rappresentazione di sé finalizzata a una captatio benevolentiae del pubblico immaginario; e tutto questo, di fronte al pubblico fittizio costituito dall’adulto in scena, il quale sta con tutti gli altri di fronte al pubblico reale degli spettatori in sala sui quali si innesca una più ampia captatio benevolentiae.

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L’abisso vertiginoso dell’esibizione e della rappresentazione corrisponde all’abisso mostruoso della storia di Dutroux e delle bambine stuprate e uccise, che i 7 bambini raccontano con diligenza da consumati attori, e che Milo Rau costruisce con stupefacente intelligenza proprio nel senso della rappresentazione della costruzione dell’esibizione, cioè di cosa realmente rimane di tutto ciò a chi non ha vissuto quei fatti. E quindi arrivando a stanare la nostra attitudine al voyeurismo. In altre parole, se ciò a cui assistiamo non è la semplice “narrazione” di una vicenda né la sua rappresentazione, ma la messa in esibizione e rappresentazione del tentativo di “giocare” con l’esibizione e la rappresentazione da parte di bambini, allora noi qui non siamo semplici spettatori, ma veri voyeur. Non siamo stati convocati per imparare qualcosa di più su Dutroux o per vedere uno spettacolo, ma per far parte di un meccanismo vertiginoso in cui chi sta in scena ‘gioca’ a esibirsi come sé e come altro da sé, e quindi chi sta in platea è costretto a giocare la parte scomoda di chi sta lì solo in quanto ingranaggio passivo dell’esibizione. Mi è venuta in mente la Lolita di Babilonia Teatri nella prima versione: una bambina in scena che gioca a inventare sé stessa e altre da sé, e una platea di adulti che aspetta morbosamente di coglierne gli aspetti perturbanti. Che è poi quel che avviene qui, soprattutto nella scena che – non a caso – ha strappato gli applausi nella replica a cui ho assistito: la bambina seminuda sul materasso, che impersona la bambina stuprata da Dutroux mentre si rivolge idealmente ai genitori, di fronte all’obiettivo della telecamera che ne scruta spietatamente il volto da angelo innocente che deve rappresentare chi ha attraversato l’inferno peggiore che si possa immaginare. E noi, lì, a osservare, a scrutare, col fiato in gola. Voyeur buonisti, stanati dal diabolico Milo Rau mentre celebriamo collettivamente la solidale partecipazione emotiva che ci porta, al sicuro di fronte ai nostri pc o tablet, a condividere mille volte le immagini di bambini straziati, o di qualunque tragedia dei nostri tempi, purché ben visibile, purché fotogenica, purché utile a trasmettere il brivido che noi stessi abbiamo provato quando l’abbiamo vista. Pronti a esclamare: Ah, meraviglia, lui/lei muore

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Lo spettacolo scorre così, con scenette in cui cogliamo la drammaticità della storia raccontata, senza probabilmente riuscire a mettere a fuoco la vera drammaticità della storia rappresentata: l’esibizione del dolore, in cui rimane solo la virtualità di quel dolore, e la nostra percezione di quella virtualità come se fosse reale. Dopo il prologo del provino, le scenette si susseguono come quadri di un’inchiesta televisiva alla Chi l’ha visto?, con ricostruzioni in cui i massacri o i protagonisti vengono filtrati da considerazioni di strategia narrativa o estetica, per colpire meglio lo spettatore in senso visivo o emotivo.
Si inizia con la rievocazione dell’indipendenza post-coloniale del Congo dal Belgio, con i discorsi di re Baldovino e di Patrice Lumumba, e l’uccisione di quest’ultimo, inviso al potere belga. La rievocazione avviene con la doppia rappresentazione: i bambini in scena e gli adulti sullo schermo. Strano inizio per un racconto su Dutroux, giustificato apparentemente dalla biografia del padre del mostro, con un passato coloniale, ma in realtà utile per calare la storia in un contesto nazionale di sopraffazione, violenza e uccisione dei più deboli. I “cinque pezzi” sono in realtà altri, e ben più significativi. L’intervista al padre stesso di Dutroux, per esempio, impersonato da un bambino truccato da vecchio, a cui l’adulto – da dietro la telecamera – dà indicazioni. Così come accade con l’intervista successiva al poliziotto, che scatena un buffo dibattito tra il regista e il bambino su quali siano i punti interessanti da far emergere nell’interpretazione. Così come accade con l’intervista col padre di una vittima, in cui il bambino deve usare alcune gocce per far uscire le lacrime necessarie per la credibilità. Così come accade nelle scene corali, per le quali avviene la duplicazione in scena e sullo schermo con attori adulti: la ricostruzione della sepoltura compiuta dal mostro di una bambina e quella del funerale vero e proprio di quella bambina, nei quali ancora una volta i piccoli attori, che replicano la realtà fittizia visibile sullo schermo, e il regista interagiscono criticamente.
Solo per un attimo, alla fine, lo spettacolo sembra prendere il volo verso la verità. Un monologo appassionato di una bambina, sola, al centro del proscenio, staccata da tutto ciò che si è visto, nella collocazione perfetta per una dichiarazione di intima e commossa verità al pubblico. Accade al termine dell’ultimo dei 5 “pezzi facili”, quello intitolato Cosa sono le nuvole e dedicato al funerale. La bambina racconta di un film ambientato in un teatro, in cui si affrontano questioni legate all’idea di rappresentazione. L’allusione è al quasi omonimo cortometraggio di Pasolini, ma la trama raccontata è molto alterata. Quell’attimo apparente di verità di una bambina che dice di ricordare un vecchio film di burattini diventa, così, l’ennesima – tombale – dimostrazione che il nocciolo e il senso di questo spettacolo sta nella costruzione e nel significato della rappresentazione e della simulazione. Quelle nuvole che stanno fuori non saranno mai visibili dentro.

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Paralizzati dai racconti e dai monologhi, ma soprattutto paralizzati dal fatto che a dirli siano dei bambini, rimaniamo ad ascoltare e a fissare, diventando – come dicevo – parte dell’intero meccanismo, e soprattutto pronti a duplicare il nostro atteggiamento di stasera nelle numerose occasioni a venire, siano esse l’esibizione del bambino prodigio in tv o l’esposizione del bambino in lacrime sotto un bombardamento. Quel che conta è la distanza che l’immagine crea tra noi e l’oggetto vero, assente. Quel che conta è la costruzione di quell’immagine. Quel che conta è che siamo parte, attiva o passiva, di quella costruzione, di quella sopraffazione, di quella adulterazione della realtà.
Five easy pieces non è un pugno allo stomaco, semmai una gragnuola di pugni nello stomaco, molti dei quali non li avvertiamo neanche, forse perché non abbiamo più stomaco. O forse perché non abbiamo più occhi per guardare. Magari per guardare i titoli di coda che scorrono sullo schermo alla fine durante gli applausi, dove ogni schermata riporta volto e nome dell’attore. E dove al nome di Peter Seynaeve, che noi abbiamo sempre percepito come il regista, corrisponde anche il personaggio che ha recitato: Marc Dutroux. E improvvisamente ci rendiamo conto di aver guardato senza vedere. Sì, è stato proprio uno spettacolo tutt’altro che easy.

Five easy pieces, concept, testo e regia di Milo Rau; testo e performance di Rachel Dedain, Maurice Leerman, Pepijn Loobuyck, Willem Loobuyck, Polly Persyn, Peter Seynaeve, Elle Liza Tayou e Winne Vanacker; performance nei film di Sara De Bosschere, Pieter-Jan De Wyngaert, Johan Leysen, Peter Seynaeve, Jan Steen, Ans Van den Eede, Hendrik Van Doorn e Annabelle Van Nieuwenhuyse; drammaturgia di Stefan Bläske; assistente alla regia e performance di Peter Seynaeve; ricerche di Mirjam Knapp e Dries Douibi; set e disegno costumi di Anton Lukas; video e sound design di Sam Verhaert; cura dei bambini e assistente di produzione Ted Oonk; musica di Herlinde Ghekiere; produzione CAMPO e IIPM – International Institute of Political Murder; co-produzione Kunstenfestivaldesarts Brussels 2016, Münchner Kammerspiele, La Bâtie – Festival de Genève, Kaserne Basel, Gessnerallee Zürich, Singapore International Festival of Arts (SIFA), SICK! Festival UK, Sophiensaele Berlin e Le phénix scène nationale Valenciennes pôle européen de création executive. Prima assoluta: Bruxelles, Kunstenfestivaldesarts, 14 maggio 2016.

Visto a: Prato, Festival Contemporanea, Teatro Metastasio, 24 settembre 2016.

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