Ci sono due figli – un maschio e una femmina –, e poi c’è la memoria di un padre morto da poco, e poi c’è il sogno di un paradiso di eroi, e poi c’è il deserto fatto di idioti che per sopravvivere simulano l’atto generativo del padre. “Il primo Paradiso, Odetta, era quello del padre. / C’era un’alleanza dei sensi, nel figlio / – maschio o femmina –, / dovuta all’adorazione di qualcosa di unico. / E il mondo, intorno, / aveva un lineamento solo: quello del deserto”. Le parole di Teorema di Pasolini sembrano accompagnare Il paradiso degli idioti di La Ballata dei Lenna, giovanissima formazione teatrale che affronta il tema del confronto generazionale costruendo un proprio cupo teorema.
Si parte dal paradiso, perché poi, in fin dei conti, Padre e Paradiso condividono la prima lettera, ma condividono soprattutto il sapore dell’origine (il genitore da cui proveniamo) e del destino (il genitore che siamo chiamati a diventare). Si parte ab ovo, in senso letterale: un grande uovo, un utero celibe di plastica trasparente da cui viene partorito un uomo. Ossia Adamo nel paradiso terrestre. Solo. Non c’è figura femminile né prima né dopo (“c’era un Padre soltanto (non la madre)”: ancora Pasolini). Il cordone ombelicale è il cavo rosso di un microfono che si perde nelle altezze. Altezze divine (così come altri “cordoni”, a cui stanno appesi altri sacchetti-uteri, che formano il fondale). Insomma, Adamo, il primo padre, è a sua volta figlio. Come figlio sbaglia, mangiando la fatidica mela, e quindi come padre è destinato a trasmettere il peccato originale, cioè la condizione di errore. Adamo non ha parola, è solo corpo: l’autorità del padre prescinde dalla parola, sta piuttosto nel suo corpo, che è l’evidenza visibile e tangibile – ancora una volta – del suo essere origine e destino.
Quello del Paradiso degli idioti è un prologo biblico. O meglio, un prologo mitico (e mimico), che allude alla Genesi con la leggerezza e l’impertinenza di una piccola favola morale. Quell’Adamo seminudo, padre bambino, origine fallata e destino fallace, è destinato a ritornare durante tutto lo spettacolo, come un inutile soccombente Spettro del padre di Amleto, presenza ingombrante e assenza ancor più ingombrante. Talvolta ritorna con una testa d’asino: più Shakespeare (il ridicolo Bottom del Sogno) che Apuleio. Chi ha osato sfidare l’albero della conoscenza è condannato a trasformarsi ridicolmente nel simbolo dell’ignoranza. Chi è venuto al mondo come modello perfetto dell’essere umano è destinato a contaminarsi andando sempre più verso lo stato bestiale.
Il nucleo dello spettacolo è invece quello di un classico dialogo da dramma borghese contemporaneo, che vede due fratelli – Andrea e Sonia – ritrovarsi dopo la morte del padre per leggere il suo testamento morale. Andrea è quello rimasto a casa, ad accudire il padre fino agli ultimi istanti, coltivando le ambizioni della scrittura e del cinema e scrivendo una sceneggiatura dal titolo Il paradiso degli eroi. Sonia, invece, vive in Canada, dove fa l’artista contemporanea e pratica una forma estrema di scultura e body art: la creazione di statue viventi, in cui i modelli si fanno alterare il corpo o addirittura mutilare. Sognatore ingenuo (idiota, in senso dostoevskiano) uno, ambiziosa senza scrupoli l’altra. Entrambi defraudati della figura paterna: fisicamente ora, ma forse moralmente da sempre. La questione morale si intreccia con la riflessione sul padre: la morale, in qualche modo, discende dal padre, nel bene o nel male, per imitazione od opposizione, ma comunque – nello spettacolo scritto e diretto da Paola Di Mitri – i due termini sono strettamente connessi. E si proiettano sulla questione artistica.
Creare è un atto generativo, cioè genitoriale, cioè paterno. Figli senza più un padre e non ancora (o forse mai) genitori a loro volta, Andrea e Sonia esprimono la propria paternità con le loro creazioni artistiche. Andrea sente maggiormente il peso della debolezza del padre originario, Sonia ne è fuggita e continua ancora a fuggire (dal Canada in Argentina, inseguendo le indicazioni del mercato o forse soltanto i suoi fantasmi). Come nella famiglia borghese del Teorema pasoliniano, ciascuno dei due reagisce in modo diverso all’abbandono, non quello della morte recente del padre, ma quello più antico: il tradimento originario, cioè la rivelazione della debolezza del padre, della sua ignoranza, della sua inconsistenza, del suo essere figlio maldestro e peccatore, che l’ha fatto cadere dal cielo ideale del paradiso in cui stava. La ferita sta lì, quando scopri che il padre è disceso dal paradiso in cui l’avevi messo e il suo corpo assomiglia tanto al tuo, così debole e inerme, e allora quella “adorazione di qualcosa di unico” di cui parla Pasolini si trasforma nella prima grande disillusione della vita.
Il discorso sulla paternità diventa anche discorso sulla creazione e sull’arte. Ed è ancora una volta senso d’impotenza generazionale. Così Sonia, come Pietro in Teorema, prova a simulare la forza genitrice nella creazione di opere d’arte: cosa ci potrebbe essere di più calzante per sostituirsi al genitore del creare statue viventi per i collezionisti alto-borghesi? Ma i suoi modelli vengono mutilati: è la richiesta del mercato. I ricchi sono disposti ad acquistare una Venere di Milo vivente, e quindi una ragazza disperata prossima al suicidio può ben farsi tagliare le braccia per vedersi contesa nelle ville alla moda, no? L’atto genitoriale scimmiottato dalla figlia è imperfetto, alterato, mercantile, basato sulla sottrazione e l’interesse.
Quello di Andrea, invece, è più banalmente velleitario: la sua creazione (una sceneggiatura brutta e illeggibile) è puramente mentale, onirica. I personaggi che affollano la sua sceneggiatura sono proiezioni del suo desiderio di figlio: ancora Adamo, naturalmente, che Andrea vuole vedere morto con un trasporto decisamente sospetto, e poi una Donna Scimmia che è lo strumento per questo parricidio simbolico per interposta persona. Un pizzico di psicanalisi. Ma anche uno scontro ideologico: la Donna Scimmia (l’evoluzionismo?) contro Adamo (il creazionismo?), ossia il Centauro razionale che sconfigge il Centauro mitico (ancora Pasolini: Medea). E in mezzo il pensiero debole, anzi indebolito, del giovane contemporaneo, dove l’ideologia lascia il posto a un rancore sordo e indefinibile, dove l’impeto ‘naturalmente’ parricida di Edipo assume i tratti di una rabbia generica e indistinta verso un’autorità non più autorevole. Il peccato originale si è trasmesso subdolamente: la mela nel prologo dal padre Adamo rispunta già morsicata nel salotto borghese per essere ulteriormente mangiata dai figli orfani.
Fratello e sorella sono dunque convenuti per leggere il testamento morale del padre. Ma la busta è una bufala, una beffa giocata da Andrea a Sonia. Non c’è niente. Il padre non aveva proprio niente da dire. Senza parole. Puro corpo, come dicevo. Come nelle scene iniziali di Padre e figlio di Sokurov, dove i corpi nudi di padre e figlio si fondono in un amplesso che è al tempo stesso generativo ed erotico, due Adamo in un paradiso che coincide con la relazione puramente fisica che esiste tra di loro. E’ dunque il corpo del padre a riempire con la sua assenza (o la sua presenza simbolica di Adamo seminudo) la scena di questo spettacolo, non la sua parola, che doveva essere contenuta dentro la busta farlocca di un testamento morale necessariamente inesistente. Il corpo. Che nella pratica quotidiana di Sonia significa plasmare i corpi altrui e mutilarli, mentre nella memoria esistenziale di Andrea significa aver accudito il padre malato, avergli letteralmente pulito il culo.
Il padre non ha mai voluto o saputo trasmettere niente se non la sua ingombrante presenza fisica. E poi se n’è andato senza lasciare tracce, lasciando la generazione che l’ha seguito sola e incapace di affrontare la realtà e il sistema, oppure entrando in quella realtà e in quel sistema diventandone spietato ingranaggio attivo. Il senso di abbandono è consumato. Siamo entrati nell’epoca dei figli che non riusciranno ad avere una vita economicamente e socialmente migliore dei padri e che vedono troppe porte chiuse; siamo entrati nell’epoca dei figli che non riusciranno a inventare artisticamente nulla di nuovo rispetto ai padri e che vedono troppe porte chiuse.
“Il futuro sarà un disastro a cui non voglio assistere, e nemmeno partecipare. Buona fortuna a chi se la sente di affrontarlo. Non è assolutamente questo il mondo che mi doveva essere consegnato, e nessuno mi può costringere a continuare a farne parte. È un incubo di problemi, privo di identità, privo di garanzie, privo di punti di riferimento, e privo ormai anche di prospettive”: è l’ultima lettera del trentenne udinese Michele Valentini, scritta prima di suicidarsi, e pubblicata lo scorso 7 febbraio sul “Messaggero veneto”. Dov’è finito il paradiso eroico del padre Adamo? O almeno un suo surrogato? “Caro principe, non è facile raggiungere il paradiso in terra, mentre voi a volte sembrate farci affidamento; il paradiso è qualcosa di molto complesso, principe, molto più complesso di quanto possa sembrare al vostro bellissimo cuore”, dice il principe Sc. nell’Idiota di Dostoevskij.
Andrea non ha pensato di suicidarsi, ma di costruire un paradiso in terra, semplice semplice: Il paradiso degli eroi, quello fondato dalla Donna Scimmia dopo l’uccisione di Adamo, dove poter sublimare i propri sogni. Ma gli eroi non esistono e il paradiso non esiste, come ricordano Michele, il principe Sc., tanti altri e perfino la sorella Sonia. Ad Andrea spetta, allora, solo Il paradiso degli idioti. “Sono dunque due i Paradisi che noi abbiamo perduto!” (ancora Pasolini): il primo, radicato nel prologo mitico-biblico dello spettacolo, è il paradiso dove il padre ha rivelato la sua debolezza di figlio immaturo, rinunciando al cielo ideale; il secondo, sviluppato nel dramma familiare, è il paradiso degli eroi vagheggiato da un ragazzo impotente e rivelatosi infine solo un paradiso degli idioti.
Cosa resterà ai ragazzi nati negli ultimi anni del secolo scorso? Forse, solo una Donna Scimmia, che spara infine non ad Adamo, ma ai suoi figli, e colpisce il divano simbolo del salotto borghese dei nostri tempi, in cui affondano moralmente i giovani d’oggi, schiacciati dal karma dei loro padri deboli? Magari mentre stanno guardando la tivù? “L’evoluzione inciampa / La scimmia nuda balla / Occidentali’s Karma”, canta il giovane Francesco Gabbani a fianco di uno scimmione danzante, mentre vince il Festival di Sanremo, due giorni fa.
Il paradiso degli idioti, drammaturgia e regia Paola Di Mitri; con Nicola Di Chio, Paola Di Mitri, Miriam Fieno, Francesco Marilungo; scene e luci Eleonora Diana, Lucio Diana; costumi Valentina Menegatti; produzione La Ballata dei Lenna; con il sostegno di Kilowatt Festival, Teatri di Bari; spettacolo finalista Premio Scenario 2015. Prima assoluta: Bari, Teatro Kismet OperA, 24 aprile 2016.
Visto a: San Lazzaro (Bologna), Itc Teatro, 9 febbraio 2017.
[…] AGGIORNAMENTO – Dopo questa mise en espace, lo spettacolo è arrivato al debutto nel 2019: qui si può leggere la mia riflessione. […]
"Mi piace""Mi piace"